Venezia. Le ragioni di una sconfitta

ROBERTO D’AGOSTINO
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Ci sono due approcci per valutare la sconfitta elettorale del centrosinistra (lo chiamo così per comodità) a Venezia.

Il primo è quello di sottolineare la forza dell’avversario, la disparità dei mezzi a disposizione, la precarietà della campagna elettorale, il traino di Zaia, insomma l’accanirsi del destino, “cinico baro”.

Il secondo è quello di analizzare seriamente le debolezze politiche del proprio campo per, se possibile, rimediarle.

Basterebbe un dato (anche se molto grezzo) per capire quale strada seguire: dalle elezioni 2010 a quelle 2020 il centrodestra è rimasto pressocché invariato come numero di voti (da 62.000 a 66.000) il centrosinistra è crollato (da 75.000 a 36.000).

Eppure non sembra che le forze progressiste (dovunque siano finite) stiano seguendo il secondo tipo di approccio. Tenterò di iniziare a farlo in questo articolo.

Il centrosinistra ha perso perché non è stato in grado di presentare un progetto per la città e non è stato in grado di presentarlo perché non l’aveva.

Il centrodestra ha vinto perché un progetto l’ha presentato: un progetto di mercificazione selvaggia di Venezia che ha raccolto vasti consensi: consapevoli, da parte di chi su questa mercificazione prospera, inconsapevoli, da parte di chi confonde questa mercificazione con lo sviluppo.

Il fatto che alla mancanza di un progetto si siano poi aggiunti dei clamorosi errori puntuali è un di più di cui non vale la pena parlare. Per dirne uno: la festa alla Salute dei cosiddetti ambientalisti per la possibile perdita di cinquemila posti di lavoro al Porto ha allontanato dal candidato di centrosinistra, che non è riuscito a prendere le distanze da quella provocazione, tutti i lavoratori del porto, i loro congiunti, i loro amici e vasti settori sindacali. Con il risultato di contribuire alla sconfitta di un possibile governo amico e di lasciare la soluzione del problema nella mani di chi ha idee opposte a quelle che si volevano festeggiare. Ma queste sono tare dalle quali non riusciremo mai a liberarci.

Il vero problema è che, a una città già disastrata dalla mancanza di politiche corrispondenti alle sue necessità che proseguono da molti anni (coinvolgendo anche la coda di giunte progressiste), aggravate dagli ultimi cinque anni di governo e rese drammatiche dalle conseguenze della pandemia in atto, il centrosinistra non ha saputo offrire alcuna vera prospettiva.

Quale città occorre immaginare per il futuro, attraverso quali strategie si pensa di conseguirla, con quali risorse e mettendo in campo quali progetti di breve, di medio e di lungo periodo: sono queste le domande alle quali chi vuole candidarsi al governo di Venezia avrebbe dovuto e deve rispondere. 

Nessuna risposta “di buon senso” è sufficiente, occorrono risposte di alto livello: insomma occorre che l’area progressista e competente – che pure esiste in città – si metta seriamente al lavoro, come era usa fare in passato, per ragionare sui destini di Venezia e immaginare soluzioni che non siano di piccolo cabotaggio.

Parlo di area progressista in senso lato, perché le rappresentanze politiche di tale area non solo non fanno più questo lavoro paziente, ma sembra che lo ritengano inutile: l’indifferenza (e spesso il fastidio) quando si tenta di parlare di programmi e progetti che vadano al di là dell’immediato e del quotidiano sta a dimostrarlo.

Eppure i temi e gli stessi abbozzi di soluzione sono tutti squadernati davanti ai nostri occhi. Ne ricordo tre fondanti intorno ai quali si potrebbero sviluppare strategie di ampio respiro.

1 Il lavoro, vale a dire immettere nel sistema veneziano qualche cosa che esca dal binomio cultura/turismo, per riportare Venezia a quando accanto a quel binomio esistevano potenti assetti produttivi e una diffusione vasta di lavori minori che strutturavano il tessuto sociale della città. La disponibilità delle risorse del recovery fund, la spinta potente e irrimandabile verso il passaggio a un’economia verde e sostenibile, l’esistenza di un’area industriale connessa e infrastruttura che attende da decenni una sua riconversione, la natura stessa della città fondata sulla capacità di mantenere in equilibrio assetti naturali e assetti antropici, non suggeriscono niente?

2 La casa, vale a dire restituire a chi vuole vivere e lavorare a Venezia la possibilità di farlo accedendo ad un mercato delle abitazioni a prezzi accettabili e non drogato dalla concorrenza turistica. Le esperienze di controllo degli affitti turistici, che hanno successo in molte città in giro per il mondo con gli stessi problemi di Venezia, e quelle relative alla realizzazione di alloggi ad affitti sociali, come si realizzano in molti paesi europei, sono pronte per essere riprodotte nella realtà veneziana: sapendolo fare.

3 La qualità della vita, che nella città d’acqua significa avere accessibilità ai servizi della quotidianità e dell’emergenza e non dovere competere e farsi largo tra masse di individui di passaggio, e nella città di terraferma significa fare finalmente il salto verso una qualità urbana dal punto di vista sia della sua percezione, attraverso un restauro diffuso degli ambienti urbani, sia della sua percorribilità e vivibilità, attraverso l’eliminazione del conflitto permanente con un traffico inquinante. Tutto il dibattito post covid sul nuovo uso delle città verte su questi temi e fornisce già ampi spunti non solo di riflessione ma di proposte.

Tre temi che, se declinati correttamente e collegati alle tematiche forti già esistenti e sulle quali Venezia eccelle, potrebbero cambiare in modo strutturale economia, rapporti sociali, assetti demografici, peso politico e culturale della città.

Queste brevi note per cercare di contribuire a una riflessione che per ora non si vede.

Venezia. Le ragioni di una sconfitta ultima modifica: 2020-10-04T21:03:00+02:00 da ROBERTO D’AGOSTINO
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