L’Alleanza atlantica. Ieri e oggi

Gli alleati della Nato stanno insieme fin dal 1949, col Trattato di Washington, e si presentano con le fattezze di un’organizzazione internazionale. Un animale sui generis, quindi, difficile da afferrare se non si va a guardarlo da vicino.
ALESSANDRO MINUTO RIZZO
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L’articolo che qui di seguito proponiamo appare nel nuovo numero della rivista Arel [prossimamente scaricabile da chi l’acquista o dagli abbonati, per essere successivamente pubblicata su carta e diffusa nelle principali librerie Feltrinelli]. Ringraziamo la direzione e la redazione di Arel per la gradita cortesia, che rinnova l’ormai consolidata collaborazione tra le due riviste.

L’Alleanza atlantica appare un’organizzazione sostanzialmente militare. Ha compiuto “operazioni” che hanno fatto le prime pagine della storia, ma in realtà la sua storia ha cambiato fisionomia più volte e non è facile definirne i connotati. È ritenuta l’alleanza politico-militare più importante nella storia e ha un percorso che si può distinguere in più fasi. La sua natura è anomala perché un’alleanza è normalmente costituita da un certo numero di Paesi che decidono di condividere degli obiettivi comuni. Una volta che questi siano stati raggiunti il legame si scoglie  automaticamente. Nel nostro caso, invece, gli alleati stanno insieme fin dal 1949, col Trattato di Washington, non si sono sciolti e si presentano con le fattezze di un’organizzazione internazionale. Un animale sui generis, quindi, difficile da afferrare se non si va a guardarlo da vicino.

La Guerra Fredda

Nel quadro temporale che ci interessa il 1985 è un anno importante. Entra in scena Lord Peter Carrington, che sarà un autorevole Segretario generale. Per la “petite histoire”, egli acquista l’attuale residenza e da aristocratico di rango si fa prestare degli arazzi dal British Museum per arredarla. Carrington succede all’olandese Joseph Luns che era rimasto in carica per ben tredici anni.

Proprio in quell’anno vengono prese decisioni che riguardano, in particolare, l’avvio di un processo di riduzione degli armamenti strategici attraverso negoziati con il Patto di Varsavia. Era confermato il principio che la deterrenza andava mantenuta e rafforzata, ma accompagnata da un dialogo per ridurre le tensioni, diminuendo gli incentivi per un confronto militare. Una strada che darà i suoi frutti a tempo debito.

Ho assistito a una visita di Carrington a Lord George Robertson, segretario generale al tempo del mio incarico alla Nato. Voleva conoscere l’andamento delle cose. A un certo punto se ne uscì chiedendo: “Ma il caffè della mensa è sempre così cattivo?” E poi: “È rimasto un vicesegretario italiano?” Alla risposta affermativa di Robertson concluse: “Se è così vuol dire che le cose vanno bene, sono rassicurato”.

Humour britannico a parte, siamo arrivati a un momento di svolta nella Guerra Fredda che da allora non sarà più la stessa. Cambia il quadro generale con l’arrivo di Gorbacˇe¨v al vertice del partito e dello Stato. Ronald Reagan decide di aumentare l’investimento militare quando l’URSS ha ormai il fiato corto e non riesce visibilmente a tenere il passo. A Mosca si cercano vie di uscita, viene aperto un dialogo e sul versante della sicurezza si mostra ampia disponibilità a negoziare una riduzione delle forze. La Nato, per parte sua, avvia nuove iniziative di carattere politico e vuole acquistare una dimensione più ampia. Il segretario generale stringe le prime intese con le democrazie liberali europee, con Austria, Svezia e Svizzera, mettendo le basi di una rete di partenariati che si allargherà sempre più.

La missione della Nato si amplia, quindi, considerevolmente in quegli anni con un nuovo approccio politico, il rafforzamento dello strumento militare e l’istituzione di partenariati strategici.

Un tema chiave era allora l’installazione in Europa dei missili americani Pershing, su cui vi era uno scetticismo diffuso nell’opinione pubblica europea. La questione del “burden sharing” fra le due rive dell’Atlantico in realtà non nasce oggi; già negli anni Ottanta l’influente senatore Nunn minacciava una riduzione delle forze americane in Europa se gli europei non avessero aumentato le spese per la difesa.

Sempre nel 1986 ebbe luogo in Islanda uno storico incontro fra Gorbacˇe¨v e Reagan, che gettò le basi per una serie di intese fra i due blocchi sulla riduzione delle armi strategiche. Un periodo nuovo veniva così ad aprirsi, credo in parte dovuto alla consapevolezza sovietica che le risorse del paese non consentivano una corsa agli armamenti con gli Stati Uniti. Evento un po’ dimenticato di quegli anni è l’adesione della Spagna all’Alleanza dopo l’esito positivo di un referendum popolare. Non va dimenticato che fino al 1975 a Madrid regnava ancora il Generale Franco, per cui l’ingresso nella Nato fu un dato politico rilevante nell’Europa di allora.

Se ripercorriamo il periodo della Guerra Fredda, non dobbiamo pensare che la preoccupazione fosse solo quella di uno scontro militare. Si citava il “Fulda Gap” come luogo materiale di un’invasione della Germania Ovest. Ma c’era dell’altro.

Nei governi alleati era sempre viva la preoccupazione che le opinioni pubbliche europee non cedessero alle sirene ricorrenti del pacifismo e mantenessero il sostegno alla Nato. Questo risultato fu sostanzialmente raggiunto, ma a prezzo di grandi sforzi e con periodiche ansietà.

Si giunge alla conclusione che l’Alleanza atlantica ha sostanzialmente fatto da ombrello protettore all’Europa per ben due generazioni, facilitando la sua crescita economica e sociale secondo ritmi senza precedenti. Aggiungiamo che la caduta del Muro di Berlino, lo scioglimento del Patto di Varsavia e la dissoluzione dell’URSS furono comunque momenti storici che, francamente, nessuno aveva previsto nei modi in cui si sono verificati.

Dalla Guerra Fredda alla gestione delle crisi

Negli anni successivi qualche prestigioso intellettuale ha sostenuto che la storia era finita. Succede spesso, quando si verifica un evento straordinario, che si dica che il mondo non sarà più come prima.

Per quanto riguarda la Nato, si sono aperti inaspettatamente nuovi orizzonti, proprio quando la previsione era che fosse giunta alla fine della sua corsa e al quartier generale di Evere non venivano rinnovati i contratti al personale. Stava invece per cominciare il capitolo del “crisis management” nei Balcani, la cui gestione avrebbe preso un buon decennio.

Tutto iniziò con la dissoluzione della Jugoslavia e la guerra fra le sue componenti etniche. La Bosnia- Erzegovina era il caso più difficile, perché vi convivevano Bosniaci (musulmani), Serbi e Croati. Le Nazioni Unite intervennero con un’operazione militare che però non ebbe successo. Fu a quel punto che la Nato venne chiamata in gioco e mise a frutto decenni di lavoro sull’interoperabilità che si rivelò molto efficace dal punto di vista operativo.

Con l’egida degli USA venticinque anni fa furono firmati gli accordi di Dayton, ancora in vigore, e venne approvata una tripartizione di tipo federale fra le varie componenti.

La prova del Kosovo nel 1999 fu, forse, ancora più impegnativa poiché si trattava di una operazione decisa dalla Nato contro la Serbia per evitare una pulizia etnica della popolazione albanese nella provincia. La Serbia alla fine dovette cedere e il Kosovo fu occupato da forze della Nato, diviso in cinque zone di occupazione, di cui una a comando italiano. Rimane il fatto che è tuttora presente in Kosovo un’operazione Nato, anche se con numeri ridotti, e la questione kosovara non è completamente risolta sul piano internazionale.

Più o meno negli stessi anni si verificava un fenomeno di forte crescita dei partenariati. L’Alleanza era considerata un’organizzazione di successo e quindi, in un modo o in un altro, circa trenta governi decisero di associarsi nella “Partnership for Peace”. Comprendeva, da una parte, Paesi candidati all’adesione e, dall’altra, coloro che volevano mantenere un rapporto con la Nato e magari godere di qualche assistenza tecnica.

Il vero cambio di passo è avvenuto dopo l’11 Settembre. Anche allora si disse che il mondo non sarebbe più stato come prima. Il segretario generale Lord Robertson convinse gli alleati, dopo un intenso negoziato, che ci si trovava davanti a un attacco del terrorismo internazionale agli Stati Uniti e che gli alleati dovevano assistere il paese attaccato in base all’art. 5 del Trattato. 

L’impatto di questa decisione (unica nella storia della Nato) fu soprattutto politico. Il gesto di solidarietà verso un alleato in difficoltà dimostrava che il legame creato dall’Alleanza era concreto e operativo.


Militari tedeschi del KFOR nel Kosovo meridionale, 1999 [foto di Nick Macdonald (nickmacdonald.net)]

L’operazione successiva in Afghanistan discende da quelle circostanze, anche se non direttamente.

Essa iniziò l’11 agosto 2003 e fu proprio lo scrivente a presiedere il Consiglio Atlantico nel primo inedito viaggio a Kabul, che durò dall’alba al tramonto, poiché le autorità militari sconsigliarono di passare la notte in loco, per le condizioni di sicurezza lì presenti. Mi pare indubbio che l’operazione a migliaia di chilometri di distanza dall’Europa abbia rappresentato una grande dimostrazione europea di supporto agli Stati Uniti. Qualcosa che andrebbe ricordato.

La Nato forniva la “cornice di sicurezza nel paese”, come si usa dire. Però essa non aveva alcun ruolo politico nelle vicende afghane. Quest’ultimo era formalmente esercitato dal Governo Karzai, con una forte influenza da parte degli USA.

Il giudizio sul ruolo dell’Alleanza, a cui si sono uniti vari partner, è positivo. Ha fatto quello che ha potuto con forze limitate, in presenza di una diffusa preoccupazione per la perdita di vite umane. Un ruolo dignitoso, quindi, conclusosi alla fine del 2014 in maniera ordinata. In Afghanistan è ora in corso un’operazione di assistenza tecnica a cui partecipa anche il nostro paese. L’obiettivo è quello di addestrare le forze armate afghane per renderle autosufficienti. L’Italia ha partecipato fin dall’inizio con una consistente presenza e continua a farlo fino a ora. Ha avuto la responsabilità di una provincia con capitale Herat. Un ruolo, quindi, di tutto rispetto.

Dopo il capitolo afghano dobbiamo tornare sui nostri passi, poiché l’occupazione russa della Crimea nel 2014 e la guerra nel Dombass ci hanno riportato a tensioni che speravamo dimenticate. Si è arrivati a parlare di conflitto, con Polonia e Paesi Baltici pronti a un confronto che per fortuna non ha avuto seguito.

Ricordiamo a questo punto che la politica della “Porta Aperta” ha comportato nel 2004 l’allargamento dell’alleanza di dieci nuovi Paesi: in buona sostanza agli ex comunisti. Con l’adesione della Macedonia del Nord la Nato ora conta ben trenta membri.

Naturalmente, questi sviluppi hanno delle conseguenze sul suo funzionamento. Da una parte appesantiscono il processo interno, dall’altra rendono più difficile trovare un consenso sulle priorità politiche, poiché compaiono interessi diversi.

Polonia e Paesi Baltici sono riusciti a mantenere viva l’attenzione e dare una priorità verso Est, mentre i problemi del Sud hanno meno sostenitori.

Nel 2004, al Vertice di Istanbul, vennero creati due importanti partenariati rivolti a 13 paesi del Mediterraneo e del Golfo includendo Israele: rispettivamente “Mediterranean Dialogue” e “Istanbul Cooperation Initiative”.

Chi scrive venne incaricato dal Consiglio di seguire queste iniziative e di promuovere una cooperazione di carattere eminentemente pratico nei due sensi (v. Nato and the Middle East: the making of a partnership, New Academia, Washington, D.C. 2018). Lo scopo era anche di creare un sentire comune verso le minacce emergenti. Un impegno supportato dagli Stati Uniti e dagli altri paesi per vari anni, che mirava a rafforzare i paesi del Mediterraneo e del Golfo, le loro istituzioni di sicurezza, la modernizzazione anche culturale delle loro forze armate.

L’attuale segretario generale non ha contraddetto questi princìpi, ma non ha lo stesso ruolo propulsore. In conclusione, vi sono diverse attività di cooperazione in corso con Paesi arabi, compreso l’Iraq, ma non vi è più un vero efficace quadro di riferimento complessivo.

Una domanda logica è: che rapporto c’è con la Unione Europea che vuole una sua dimensione di difesa? La risposta è incerta perché Nato e UE hanno ancora rapporti ambigui, anche se negli ultimi anni il clima è più aperto a forme di collaborazione.

Sono due mondi diversi: il primo con una forte dimensione militare in cui il principio base è che comanda chi contribuisce di più. La UE si sta dotando di strumenti. Soffre però del principio dell’unanimità, della mancanza di una tradizione, della riluttanza dell’opinione pubblica europea verso la perdita di vite umane.

Dispositivo dei Carabinieri di KFOR MSU, di guardia al ponte sul fiume Ibar, in Mitrovica (Kosovo). Estate 2019.

La Nato verso il futuro?

È giunto il momento di dare uno sguardo al futuro, dopo aver illustrato lo sviluppo storico dell’Alleanza che ha superato dignitosamente i settanta anni di vita.

Prima, però, guardiamo all’Italia. La nostra partecipazione all’Alleanza deve essere vista in una luce positiva. In primo luogo, perché ha unito il nostro paese alle grandi democrazie occidentali in un momento storico. In secondo luogo, ha aiutato in modo decisivo le forze armate a diventare perfettamente interoperabili con quelle dei principali paesi del mondo. Senza dimenticare il contributo dato alle operazioni nel  tempo, che è sempre stato di primo livello.

Nel 2020 è stato avviato un processo di riforma interna che si presenta come ambizioso, di cui abbiamo le basi di partenza, ma di cui non conosciamo il punto di arrivo.

Su spinta iniziale della Germania si è deciso di creare un Gruppo di riflessione con il compito di restituire una maggiore dimensione politica alla Nato. Ciò comprende il modello di consultazione, il processo di decisione, il rapporto con il mondo esterno e la visibilità internazionale. Si è pensato che le attuali circostanze rendessero necessario un ripensamento di fondo e un aggiornamento generale.

Vedremo poi se i risultati saranno pari all’ambizione di questo esercizio.

Il punto di arrivo è la fine dell’anno, quando il segretario generale raccoglierà le conclusioni per presentarle al prossimo Vertice previsto nel 2021. Egli stesso ha lanciato nel giugno 2020 il “processo Nato 2020-2030”, il cui scopo sarebbe: adeguamento militare dell’Alleanza alle nuove esigenze; una dimensione più politica rispetto a quella militare; il ruolo della Nato nel mondo. Come si vede, i processi vanno nella stessa direzione e non è chiaro se alla fine al volante ci sarà Jens Stoltenberg o se saranno invece i governi a guidare i giochi. Un processo, quindi, che presenta delle ambiguità. 

Su tutto grava naturalmente l’incertezza delle elezioni americane. Rimane non risolto il problema  del “burden sharing” che questa presidenza pretende dagli europei. Biden ha un approccio più atlantico, ma il “come” resta tutto da vedere.

A parte la spinta per ridare all’Alleanza un ruolo più politico rispetto a quello prevalentemente militare, a renderla un luogo di confronto sui maggiori temi internazionali e a darle una articolazione più snella, vi è un grande punto di domanda sulle sue competenze geografiche.

Stoltenberg propone partenariati nel Pacifico e un ruolo non meglio specificato verso la Cina. Quale ruolo? Questioni non leggere che si possono orientare in vari modi. Vi è un processo più o meno informale di consultazione con Giappone, Corea, Australia, Nuova Zelanda (non si può parlare di Taiwan). Il ministro degli Esteri Downer ha poi fatto una dichiarazione significativa sulla disponibilità dell’Australia a far parte di un quadro di sicurezza occidentale.

Tutto questo deve essere ancora discusso nei suoi contenuti di sostanza. Al momento possiamo solo dire che si è aperta una discussione su una nuova direzione di marcia.

La conclusione è che siamo a una svolta in un cammino iniziato nel 1949. Siamo partiti da un mondo diverso da quello di oggi – con protagonisti, temi e minacce inedite – nel quale la vecchia Alleanza atlantica ha mostrato una sorprendente capacità di adattamento.

copertina: La mappa della Nato. In blu gli Stati membri; in verde partner globali; in celeste candidati membri; in rosso Stati del Dialogo Mediterraneo; in fucsia gli Stati dell’Istanbul Cooperation Initiative; in giallo gli Stati dell’Individual Partnership Action Plan.

L’Alleanza atlantica. Ieri e oggi ultima modifica: 2020-10-07T17:34:54+02:00 da ALESSANDRO MINUTO RIZZO
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