C’è stato un tempo in cui l’alba aveva il sapore dolcissimo dei trionfi sportivi. Era appena vent’anni fa, anche se sembra trascorso un secolo. Era l’Italia che conquistava trentaquattro medaglie alle Olimpiadi di Sydney, di cui tredici d’oro, mettendo in mostra una gioventù combattiva e appassionata che sapeva farsi valere in tutte le discipline.
Persino nel calcio, dove pure ci disse male a causa del pessimo arbitraggio dell’arbitro brasiliano Simon e degli albori della grande Spagna che avrebbe dominato il decennio successivo, gli Azzurrini se la cavarono egregiamente, ponendo le basi per il successo mondiale che sarebbe arrivato sei anni dopo a Berlino.

Furono, tuttavia, altri i nome che si impressero per sempre nella nostra memoria di sportivi e di italiani: Maddaloni nel judo, Fioravanti, Rosolino e Rummolo nel nuoto, il fantastico trio della scherma composto da Vezzali, Bianchedi e Trillini, la velista Alessandra Sensini, l’intramontabile Fiona May nel salto triplo, la Bellutti nel ciclismo, Vidoz nel pugilato, Pellielo nel tiro a volo e, infine, la grandissima Josefa Idem, domenica 1° ottobre, nella canoa.
Era l’Italia reduce dalle trentacinque medaglie conquistate nel ’96 ad Atlanta, confermatasi ai massimi livelli quattro anni dopo, in una delle più belle edizioni dei Giochi, con la riconciliazione fra gli aborigeni e il resto dell’Australia e l’oro nei 400 metri femminili dell’aborigena Cathy Freeman, la campionessa che festeggiò con due bandiere e regalò al mondo un’immagine di riconciliazione e pace che oggi appare incredibile. Furono le ultime Olimpiadi del mondo di ieri, prima dell’11 settembre, dell’inizio dell’età della paura, dell’incertezza, delle guerre planetarie, del terrore e dei messaggi allarmanti che giungevano a ogni edizione del telegiornale.

Ricordo bene quell’anno e quell’estate: la sconfitta della Nazionale di Zoff a Rotterdam per mano della Francia di Lemerre, guidata in campo da fuoriclasse come Zidane, Henry, Thuram e soprattutto David Trezeguet, l’autore del golden gol che ci beffò dopo aver dominato in lungo e in largo quella maledetta finale degli Europei. E ricordo che quella, in ambito politico, fu l’estate dell’incontro a Camp David, propiziato da Bill Clinton, fra Ehud Barak e Yasser Arafat.
Pochi mesi prima, gli Azzurrini di Tardelli si erano imposti a Bratislava sulla Repubblica Ceca e la doppietta di Pirlo in finale aveva fugato ogni dubbio sul fatto che si trattasse di un campione assoluto. Era l’anno del Giubileo, con Roma al centro del mondo, la Lazio di Eriksson vincitrice dello scudetto per via del suicidio della Juventus nella fatal-Perugia e la Roma di Sensi che si apprestava a vincere il tricolore l’anno sucessivo, grazie a una campagna acquisti sontuosa, con la ciliegina sulla torta di Gabriel Omar Batistuta.

A conclusione di dodici mesi bellissimi, è opportuno ricordare anche il ritorno dell’iride a Maranello per quanto concerne la Formula 1, grazie al trionfo di Michael Schumacher a Suzuka e al successo collettivo di due settimane dopo in Malesia. Indimenticabile la passione e l’impegno di Rubens Barrichello e degli altri artefici di quella festa rossa: Jean Todt, Ross Brown, i meccanici e tutti coloro che contribuirono a far tornare le rosse sul tetto del mondo, ventuno anni dopo la vittoria di Jody Scheckter.
Quelle maledette torri sono cadute su di noi, hanno seppellito l’Occidente, ritardato di vent’anni il processo d’integrazione europea e arrecato danni enormi anche allo sport, alla sua bellezza e alla sua capacità di trasmettere, anche nei momenti più difficili, dei messaggi positivi. Per fortuna, da inguaribili ottimisti quali ci sforziamo di essere, la memoria prevale comunque sul rimpianto.
In copertina: Josefa Idem vince l’oro olimpico nel k1 500; foto da Twitter

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