Un ex ambasciatore saudita a Washington. La giornalista israeliana che più di ogni altro ha raccontato le rivolte palestinesi negli ultimi trent’anni. Due persone agli antipodi per storia, sensibilità politica, approccio al tema. Eppure… Eppure il principe Bandar bin Sultan e Amira Hass da presupposti diversi giungono alla stessa conclusione: la nomenclatura palestinese sta “suicidando” la causa palestinese. Non solo per incapacità ma per tornaconto personale.
Il principe Bandar bin Sultan, l’ex ambasciatore saudita a Washington e figura chiave dell’Arabia Saudita, l’ha chiarito in una feroce intervista di questa settimana con la rete di Al Arabiya. Criticando i palestinesi, Bandar ha detto che chiedono e ottengono aiuto dall’Arabia Saudita, ma non ascoltano i suoi consigli. Ha detto che i palestinesi scommettono sempre sulla parte perdente e lo stanno facendo di nuovo ora, alimentando i legami con la Turchia e l’Iran. Il principe ha citato le alleanze tra il muftì e Adolf Hitler, e tra Yasser Arafat e Saddam Hussein, e ha avvertito: il tempo dei palestinesi che non pagano per i loro errori è finito.
Nessuna delle osservazioni di bin Sultan spingerà probabilmente Mahmoud Abbas, 84 anni, presidente della dell’Autorità nazionale palestinese, a riconsiderare il suo approccio. I leader anziani, è una legge universale della politica, in rarissimi casi cambiano rotta. E non è il caso del presidente palestinese. Nel frattempo, alcune figure della prossima generazione di leader di Fatah, come Jibril Rajoub, stanno rinnovando le relazioni con Hamas e minacciano Israele con una violenta rivolta. Ma se le nuove tendenze continueranno – concordano analisti politici a Tel Aviv e a Ramallah – la generazione post-Abbas dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) dovrà probabilmente rivedere la strategia palestinese.
Ma non sarà un cambio indolore. E qui viene in soccorso Amira Hass, storica firma di Haaretz, il quotidiano progressista di Tel Aviv.
La promessa di tenere presto un’elezione generale è stata diffusa frequentemente dai media palestinesi il mese scorso. Nonostante la volontà di credere che questa volta la promessa sarà mantenuta, è impossibile ignorare lo schema degli ultimi undici anni: gli alti funzionari dell’Autorità palestinese e di Fatah suscitano un certo scalpore, scatenano aspettative e attirano il consenso per il sacro obiettivo democratico e poi, all’ultimo momento o poco prima di esso, si trova un motivo o un pretesto sufficiente a fermare il processo. È difficile non giungere alla conclusione che ora, come in passato, la promessa verbale che è stata riportata in tutti i telegiornali è un sostituto dell’atto stesso. Costruire aspettative per un’imminente elezione è un modo per preservare la legittimità della nomenclatura palestinese – l’élite politica e i ranghi più alti della funzione pubblica, che riservano posti di lavoro ai propri parenti. Sostituire l’alta retorica all’azione è il modo in cui la nomenclatura garantisce il suo status e si protegge da shock politici interni potenzialmente abbastanza forti da minacciarla. Senza volerlo consapevolmente, la nomenclatura sia di Fatah che di Hamas mantiene lo status quo; perpetuano la realtà delle enclavi palestinesi perché sono incapaci di impedire a Israele di far avanzare il suo progetto di accaparramento delle terre e di colonizzazione, a passi da gigante.
Quello tratteggiato da Amira Hass è uno schema consolidato nel tempo, ma che il tempo ha sempre più usurato.
Come è quasi sempre avvenuto negli ultimi undici anni, la promessa di elezioni imminenti è accompagnata da passi ben pubblicizzati verso una riconciliazione Fatah-Hamas. Questa volta, però, gli sforzi di riconciliazione seguono i colpi politici e diplomatici che i palestinesi hanno dovuto assorbire. Ognuno dei movimenti sospetta le intenzioni dell’altro. Ma ora, almeno, non c’è nessuna pretesa: le parti palestinesi rivali sono unite nella loro opposizione al “patto del secolo” statunitense e alla recente normalizzazione dei rapporti tra alcuni stati arabi e Israele. Ma comunque, tutto ciò suona come una ripetizione: Come nel settembre 2019, quando il presidente palestinese Mahmoud Abbas promise di tenere un’elezione “entro sei mesi”, anche nel settembre 2020 la promessa fu di inviare gli elettori alle urne entro sei mesi, in tre diverse occasioni: prima per il Consiglio legislativo dell’AP, poi per il presidente e poi per il Consiglio nazionale palestinese (il parlamento dell’OLP, che dovrebbe anche coinvolgere e rappresentare la diaspora palestinese). E tutto questo durante una pandemia, con una tesoreria dell’Anp squattrinata e ambasciate all’estero a malapena funzionanti.
Grazie a autorevoli fonti palestinesi, ytali può ricostruire i passi del “riavvicinamento” tra Fatah e Hamas. Passi che sono sembrati particolarmente drammatici e rapidi a settembre. Come altre volte in passato, anche stavolta le trattative erano condotte da Jibril Rajoub, segretario del Comitato centrale di Fatah e capo dell’’ssociazione calcistica palestinese. Dopo alcune telefonate tra Abbas e il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, e un caloroso incontro online dei capi delle organizzazioni palestinesi, Rajoub è partito nell’ultima settimana di settembre per un tour “diplomatico”, durante il quale ha incontrato i dirigenti di Hamas: Salah al-Arouri a Istanbul, e Khaled Meshal e Moussa Abu Marzouk in Qatar. Turchia e Qatar non solo fanno da padroni di casa, ma esortano anche le parti a riconciliarsi. Insieme all’Iran, costituiscono l’asse di opposizione al riavvicinamento arabo-israeliano. Rajoub ha poi proseguito gli incontri in Giordania e in Egitto, due stati vicini con i quali è necessario mantenere relazioni cordiali anche se non si sono opposti al processo di normalizzazione che Israele sta portando avanti con altri stati arabi.

Secondo le fonti, gli incontri hanno riguardato le elezioni palestinesi e l’istituzione, in seguito, di un governo di unità nazionale. I rappresentanti di Hamas hanno proposto di tenere prima le elezioni per il Consiglio nazionale palestinese – un’idea che i rappresentanti delle organizzazioni palestinesi più piccole e gli attivisti della società civile che operano al di fuori dei quadri ufficiali nascosti suggeriscono dal 2011 (nei giorni della primavera araba). Ma la posizione di Fatah ha avuto la meglio.
Nel frattempo, il Fronte popolare per la liberazione della Palestina ha espresso alcune critiche all’idea. Naturalmente è favorevole allo svolgimento di elezioni, soprattutto per la Pnc, ma teme che gli accordi raggiunti separatamente tra Fatah e Hamas lascino fuori al freddo sia il Fplp sia le altre organizzazioni. Sarebbe meglio se un governo di unità potesse essere formato prima da tutte le fazioni, e che poi guidasse il processo elettorale.
Un secondo incontro online, dei segretari delle varie organizzazioni, era stato promesso per il 3 ottobre (sabato), per discutere di intese e per preparare le elezioni. Tre giorni prima, i portavoce di Fatah si erano ritirati dalla promessa di tenere quell’incontro online come previsto. In seguito è stato convocato il Comitato centrale di Fatah. Si è discusso delle elezioni, ma secondo Rajoub, è stata anche approvata una risoluzione per “stabilire una leadership unita che si assuma la responsabilità di sviluppare e gestire la resistenza popolare e le attività nazionali in patria e nella diaspora”. Questa formulazione vaga e criptica, e il rinvio del confab online, suggeriscono disaccordi.
Osserva Amira Hass:
Non c’è dubbio, la gente palestinese vuole la riconciliazione. Ma nelle mani dell’Anp, parlare di riconciliazione è anche una spada di cartone che di tanto in tanto sventola di fronte a Israele. Oggi, soprattutto, è difficile impressionare Israele e gli israeliani con questi “sviluppi” stagnanti nell’arena palestinese.
Una “stagnazione” che serve per mantenere privilegi e gestire i finanziamenti che ancora arrivano dall’esterno. Di fronte all’annessione di fatto che Israele continua a portare avanti, con la massiccia colonizzazione della Cisgiordania, un atto davvero di rottura sarebbe “restituire le chiavi” dei Territori agli israeliani, mettendoli di fronte alla responsabilità di amministrare i quasi cinque milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Per Israele sarebbe uno shock, una patata ultra bollente da maneggiare. Ma questo atto chiuderebbe i rubinetti dei finanziamenti alla nomenclatura di Ramallah e di Gaza. Il mantenimento dello status quo, al di là di proclami propagandistici ad uso interno quale il “piano di annessione” evocato da Netanyahu, è da sempre l’obiettivo delle autorità israeliane.
Ma ciò su cui si riflette meno, anche in quella ridotta europea che ha ancora a cuore la “causa palestinese”, è che lo status quo è anche interesse di una nomenclatura palestinese che non ha perso occasione per perdere l’occasione, un vecchio assunto che ha l’amaro sapore della verità storica, anteponendo i propri interessi di “casta” a quelli di una popolazione sempre più impoverita e disillusa. Una gerontocrazia al potere più che le armate israeliane teme il giudizio della gente che pretende di rappresentare. Votare oggi significherebbe essere spazzati via.
E allora è meglio promettere elezioni per poi puntualmente rinviarle a data da destinarsi. È stato questo il modus operandi di quelli di Tunisi, figure prive di carisma e di seguito ma per questo fedeli al capo, che Yasser Arafat impose nel vivo della prima intifada, l’unica che ebbe le fattezze di una vera rivolta popolare, emarginando una leadership interna che in quella rivolta si era forgiata e legittimata: i Feisal Husseini, i Sari Nusseibeh, gli Abdel Shafi, le Hanan Ashrawi, erano figure troppo ingombranti, perché autonome, per i gusti di “Mr.Palestine”. Il risultato è desolante. Una nomenclatura corrotta e incapace ha “suicidato” la causa palestinese.


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