Non era mai accaduto (e chissà quando ricapiterà) che due film “veneziani” aprano e chiudano la Mostra del Cinema. È successo lo scorso settembre, con Molecole di Andrea Segre in preapertura e Lasciami andare di Stefano Mordini in chiusura, nell’anno di disgrazia pandemica che conosciamo e nel contesto di una kermesse per forza di cose largamente autarchica, peraltro ottimamente organizzata e gestita dalla Biennale. Quanto all’autarchia, di necessità, la medesima che ora consente alle sale cinematografiche di continuare a programmare, a sopravvivere, dopo la ritirata “strategica” degli americani, che vanno procrastinando all’infinito l’uscita dei loro blockbuster (veri o soltanto presunti, si veda il sostanziale flop di Tenet), destinandoli altrimenti al consumo immediato sulle piattaforme. Povero cinema italiano. Quante ne abbiamo dette e scritte sul suo conto, dopo il tramonto dei Maestri e delle Scuole. Diamogli ora atto che non soltanto esiste ma che riesce persino, talvolta, a sorprenderci. In battuta: c’è e lotta insieme a noi. Vi pare poco?
Ma veniamo alle due ambientazioni veneziane, nel frattempo giunte nelle sale: tutt’altro che casuali, e se “occasionali” nell’accezione dell’elemento epocale da cogliere, piuttosto che dell’estemporaneità da ostentare in funzione del marketing (come è spesso accaduto alle location lagunari). Due film diversamente originati e direzionati ma curiosamente convergenti nella rappresentazione di una città nuovamente e fortemente a disagio. Per cause di forza maggiore, certo (il lockdown di Segre, la nuova acqua granda di Mordini), ma anche per ragioni che riguardano la sua inveterata fragilità, ancor più in azione.


Senza scomodare le teoriche dei neuroni specchio nel frattempo intercorse anche sullo schermo, è dagli anni Settanta del secolo scorso che la città non manifestava – cinematograficamente parlando, ma non solo – così tanto disagio. Allora i luoghi comuni della morte a/di Venezia erano così diffusi da contagiare quasi ogni pratica cinematografica, alta o bassa che fosse, originando un profluvio filmico di orrore e decadenza destinato ad amplificare nella percezione collettiva dell’immaginario le reali condizioni di impoverimento e di graduale indigenza dell’unicum lagunare: dallo spopolamento al decadimento fisico dei luoghi, dalle minacce di sprofondamento allo sgretolarsi del tessuto sociale.
Alla metà di quel decennio, come si ricorderà, l’arrivo della legge speciale, con i suoi bei soldini, e poi la svolta delle giunte di sinistra, negli anni dell’effimero nicoliniano, con il Carnevale, reinvenzione della tradizione, valorizzato nei primi anni ottanta dal teatro di Maurizio Scaparro: un’altra immagine di Venezia, negli anni in cui va imponendosi, mica solo da queste parti, il turismo di massa. Una città nuovamente in festa. E il cinema pronto a cogliere questo clima, restituendo in tanti film una rappresentazione quasi edenica della città. Certo, ci sarà pur sempre qualcuno, James Bond o Spiderman, che di passaggio porterà con sé il catastrofismo dei consueti sfracelli, palazzi sul Canal Grande che collassano e campanili che crollano. Ma siamo alla narrazione da videogame, per cui distruggere Venezia, Parigi o New York fa lo stesso. Effettistica da marketing, appunto. Mentre l’immagine prevalente e narrativamente probante andava facendosi serena, in finale di secolo: la città dove vivere e reinventare il proprio destino, capitandoci un giorno, magari per caso, da occasionale turista: ricordate la Rosalba di Pane e tulipani?

Il padovano Andrea Segre non ci capita da turista. È alla Giudecca, ai primi dell’anno, per preparare il prossimo film, le dispute – è parso di capire – di una famiglia veneziana fra antichi mestieri e nuove rendite. Bloccato dal lockdown, il regista non se ne sta con le mani in mano, prende la macchina da presa e gira una specie di diario con cui fare i conti con una città mai troppo amata, capita, “sentita”. Da piccolo, parole sue, lo portavano a trovare la nonna o per qualche festa comandata, il Redentore poniamo, e lui avvertiva sempre un po’ di disagio. Adesso è costretto a viverci, sia pure da quell’angolatura laterale che è l’isola di fronte, ancora popolare e cosmopolita al contempo (si veda in proposito il recente ottimo lavoro di Stefania Bertelli Le ville Hériot alla Giudecca. Una storia europea del Novecento, Cafoscarina/Iveser), osservandola nella sua nuda intimità, spoglia di orpelli ornamentali e turistici, azzerata quella prosopopea di circostanza che spesso rende la città antipatica persino a noi veneziani.
Quel “diario” molto personale, quasi intimo e poi plurimo, di molti se non di tutti, diventerà Molecole, le piccole sostanze di cui è fatta la vita e di cui si occupava, da fisico, il padre Ulderico, altro rapporto rimasto irrisolto e con cui fare i conti. Per capire e forse riconciliarsi. La bellezza spettrale di Venezia in quei giorni è restituita da Segre con immagini fascinosamente disarmanti e lunghi monologhi, un flusso di coscienza forse terapeutico. Certo che non potrà restare così, la città, dovrà ritrovare se stessa, senza però perdersi nuovamente nel consueto ma ormai consunto mercimonio del turismo, delle grandi navi, delle vetrine a disposizione del miglior offerente. Così come l’irrisolto rapporto con la figura paterna non potrà essere rimozione e oblio, variamente contrabbandati dalla coscienza. Che altro allora? Una serie di incontri con veneziani all’apparenza “eccentrici”, che hanno scelto di viverci senza partecipare al banchetto della rendita, varrà a dissipare il luogo comune del “non può essere altrimenti”. Certo che potrebbe essere altrimenti ma bisogna lavorarci, molecola dopo molecola…

A novembre Mordini sta già girando a Venezia Lasciami andare, la cupa vicenda di un bimbo morto per un incidente o forse suicida in quello stesso palazzo veneziano dove anni dopo il suo doppio fantasmatico pare destinato a fare la ricomparsa. Non sa, non può sapere, il regista, che martedì 12 novembre l’acqua salirà così tanto in città da finire negli annali. Ma lui, quel giorno, con la troupe capitanata da Stefano Accorsi (padre del presunto revenant), è già in piazza, autorizzato a girare. E gira, acquisendo agli atti filmici le immagini di una piena eccezionale. Il Comune manda i vigili per bloccare tutto ed evitare la “strumentalizzazione”, ma evidentemente gli va buca. E quelle immagini, adesso, si stagliano minacciose nell’incipit di una vicenda che, pur narrando di dolori familiari e di una realtà che scivola nell’irrazionale, parla anche in parallelo di una Venezia che sta inesorabilmente affondando, di palazzi agibili soltanto per via di perizie taroccate, di crediti millantanti che nascondono speculazioni all’apparenza di alto lignaggio e in verità di bassissimo profilo.
Relativamente al plot, siamo dalle parti di A Venezia… un dicembre rosso shocking (Don’t Look Now, 1973) di Nicolas Roeg, senza le medesime pretese, d’accordo, e con qualche incongruenza di troppo. Ma vale l’immagine della città, non troppo distante dalla realtà. E quella finta allure, anche culturale, che fa capolino fra le pieghe del racconto, odora di imbroglio esattamente come tante fanfaronate spacciate per panacea in questa città, messa in ginocchio dall’acqua alta eccezionale prima e dalla pandemia poi.
Due film, così diversi fra loro oltretutto, non fanno certo una tendenza. Vedremo che cosa saprà mostrarci e ancora raccontarci il cinema prossimo venturo, a cominciare da quello stesso film (titolo provvisorio Welcome Venice) che Segre s’appresta a riprendere alla Giudecca. Poche illusioni sul nuovo Mission: Impossible, altro titolo “sospeso” mesi fa e presto fra queste calli: comparsate di lusso. A proposito di Venezia, dei suoi disagi e affanni tornati in primo piano, non tanto il remake di tanatologie già viste quanto la sincerità di uno sguardo finalmente critico. E non solo al cinema. Si chiama, volendo, elaborazione del lutto ma perché sia efficace bisogna smetterla di barare. Specie con se stessi.

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