Quando si affronta l’argomento “donne e…”, laddove i puntini di sospensione indicano qualunque categoria di attività (istituzionale, politica, tecnica, artistica, fisica) abitualmente assegnata agli uomini, si corre un rischio quasi sempre calcolato ma molto spesso incalcolabile. Quello di ricadere, per quanto animati dalle migliori intenzioni, nella logica del ghetto, del fenomeno, della specie rara meritevole di una sezione dedicata, insomma dell’eccezione che conferma la regola. Ossia di quantificare e interpretare il ruolo delle donne in àmbiti tradizionalmente maschili non già come una normale riappropriazione di arti e mestieri, come un giusto ripristino di opportunità, come un riscatto sacrosanto da decenni se non secoli di discriminazione, bensì come – ancora e sempre – una “rarità”, uno sconfinamento, una benevola concessione, una piacevole e “maschiocentrica” apparizione ornamentale che ingentilisce sfere di competenza fino a quel momento esclusiva prerogativa del genere dominante.
Se poi entriamo nel campo del ruoli cosiddetti “apicali”, ossia di quelle postazioni di comando il/la cui titolare deve gestire e sovrintendere all’attività di numerose figure di sottoposti (prevalentemente maschi), e comunque ricoprire una funzione di livello superiore che non prevede subalternità di sorta, la questione diviene pura fenomenologia. Quante donne direttrici di giornali ci sono nel mondo? Talmente poche che quelle poche si meritano immediatamente servizi, reportage e foto tra il compiaciuto e lo stupefatto. Quante donne presidenti della Repubblica, CEO di aziende importanti, ai vertici della magistratura (almeno in questo, e in poco d’altro, l’Italia ha potuto vantare Marta Cartabia alla presidenza della Corte costituzionale, e potrebbe essere una splendida scelta per la successione di Sergio Mattarella)?
A chi si illude che il problema possa essere risolto con l’introduzione e magari l’imposizione delle “quote rosa” (definizione orribile per un concetto sbagliato), risponde come meglio non si potrebbe un breve ma denso e intenso volume edito dalla Libreria Musicale Italiana a firma di Ilaria Giani, giovane pianista e musicologa cremonese, nonché persona molto impegnata sul fronte della lotta alle diseguaglianze e alle discriminazioni di genere. Titolo, sin troppo eloquente: Direttrici senza orchestra.

Quanto dire che parliamo del ruolo apicale per eccellenza, della postazione più elevata nella catena di comando all’interno di quella complessa categoria che è l’interpretazione musicale, autentica e difficile specializzazione della musicologia. Una figura, un ruolo, una funzione, quella di chi sale su un podio tenendo (non sempre) in mano una bacchetta dinanzi a un centinaio di strumentisti, che sono stati storicamente per secoli ricoperti da un uomo ma che negli ultimi anni sono finalmente assolti anche dalle donne. Già, ma come? Con quali accoglienze e percezioni? Suscitando quali valutazioni artistiche? In sintesi, qual è la “narrazione” corrente che accompagna l’attività delle direttrici d’orchestra?
Diciamo subito che è quest’ultimo l’interrogativo cruciale intorno al quale ruota il saggio di Giani e la cui risposta – come facilmente immaginabile e come vedremo – è tutt’altro che lusinghiera. Ma occorre un passo indietro.
La direzione d’orchestra, così come la conosciamo oggi, inizia a prendere forma non prima dell’Ottocento, quando nascono figure a essa specificamente dedicate che prendono il posto dei “maestri di cappella” o degli stessi compositori che, mescolati agli orchestrali, ne sorvegliavano e guidavano il ritmo e la coesione spesso impougnando a mo’ di “protobacchetta” la propria stessa partitura arrotolata. Solo con l’avvento di personalità come Hans von Bülow, o del grande compositore-direttore Gustav Mahler, e più tardi Arthur Nikisch, Willem Mengelberg e infine Arturo Toscanini, lo status del direttore d’orchestra assurge a un particolare carisma che ne fa un’autentica “star”, un demiurgo dai poteri magici ed enigmatici cui spetta l’arduo compito di mediare tra esecutore e ascoltatore, traducendo in gestualità (che segue comunque il lungo lavoro preparatorio delle prove) un linguaggio non verbale per eccellenza quale la musica, che tuttavia prevede la scrittura in forma sia verbale (la terminologia agogica come “allegro”, “adagio” ecc.) che specifica (note, righi musicali, acronimi e grafemi particolari come < o > per indicare un crescendo o un diminuendo, ecc.). Insomma, il trionfo della sinestesia, ovvero della congiunzione fra dimensioni e concetti appartenenti a sfere sensoriali diverse.
Non appena la figura del direttore d’orchestra ha iniziato a prendere forma autonoma, il panorama si è affollato di protagonisti che da Toscanini a Furtwängler, da von Karajan a Solti, da Abbado a Muti, dai Kleiber padre e figlio a Mehta, da Maazel a Sinopoli, da Prêtre a Fricsay, da Rozhdestvenskji a Temirkanov, da Giulini a Pappano hanno occupato la scena per decenni plasmando di fatto incontrastati la storia dell’interpretazione musicale. Il ruolo delle donne, sottolinea Giani, si è rivelato in questo àmbito ostaggio di una subalternità direttamente proporzionale a quella, più ampia, che riguarda il loro posto nella vita musicale, storicamente da sempre ostacolato:
Semplicemente la loro produzione è stata relegata (…) e poi dimenticata. Tutt’oggi in molti testi scolastici e universitari alle compositrici viene dedicato un paragrafo o riquadro di approfondimento. Esse sono di fatto confinate al capitolo di appendice ‘donne e musica’, dove lo spazio separato dal testo suggerisce che si tratti di un discorso secondario.
Vale la pena, a tale proposito, citare anche solo gli esempi di Clara Wieck Schumann, moglie di Robert, pianista e compositrice oscurata dal celebre consorte, o di Alma Schindler Mahler, sposata a Gustav, le cui ambizioni creative furono perentoriamente stroncate dal marito. A chi volesse esplorare questo enorme pianeta, non si può che suggerire la lettura di Guida alle compositrici dal Rinascimento ai giorni nostri di Adriano Bassi (Odoya, 2016) e Note dal silenzio – Le grandi compositrici dimenticate della musica classica di Anna Beer (EDT, 2019), significativamente accomunati dalla medesima copertina che riproduce La suonatrice di liuto (1612-1620 ca.) di Orazio Gentileschi, padre di Artemisia…
Ma allora, alla luce di questa situazione che riguarda evidentemente la sfera sociale, la domanda è: la direzione d’orchestra femminile è davvero un fenomeno recente, di questi ultimi anni, o sono esistite delle precursore, delle precorritrici il cui contributo è stato oscurato dalla musicologia ufficiale (va aggiunto: prevalentemente anch’essa maschile)?

Altroché, se sono esistite! Come l’americana Sarah Caldwell (1924-2006), ad esempio, che si specializzò nel repertorio del melodramma belcantistico italiano, o l’italiana Erminia Romano, che negli anni Sessanta diresse alla Fenice di Venezia la prima del Concerto per orchestra di Ennio Morricone, o la francese Nadia Boulanger, pianista, direttrice e compositrice e specialmente leggendaria insegnante che ebbe tra i propri allievi Daniel Barenboim, Leonard Bernstein, Aaron Copland, Philip Glass e Astor Piazzolla. C’è però un nome che svetta su tutti gli altri, e che ricorre spesso nel libro di Giani, e non a caso: è quello di Carmen Bulgarelli Càmpori (1910-1965), già promettente soprano, strada che poi lasciò per dedicarsi totalmente alla direzione d’orchestra dove sviluppò una carriera molto fortunata che l’avrebbe portata a esibirsi in tutto il mondo, a volte accompagnando in tournée ugole d’oro come Mario Del Monaco e specializzandosi nel repertorio del melodramma italiano.

Per una serie di circostanze familiari, chi scrive ha conosciuto bene Carmen e ha potuto, ancorché adolescente, osservarne da vicino il metodo, le passioni, il carattere. In realtà intorno a Carmen Bulgarelli si era formato a metà degli anni Cinquanta un vero e proprio crogiuolo di talenti, con epicentro in una grande villa di famiglia a Incisa in Val d’Arno, importante comune a mezza via tra Firenze e Arezzo, celebre anche perché vi trascorse l’infanzia Francesco Petrarca. Carmen sposò infatti il marchese Egidio Càmpori, come lei modenese, esploratore, documentarista e pittore, e dalla loro unione sarebbe nata Graziolina, anch’ella attiva nel cinema come assistente regista e sceneggiatrice per autori come Pietrangeli, Monicelli e Zurlini, e successivamente affermata e premiata pittrice di scuola naïf. La quale a sua volta sposerà Giuseppe Rotunno, il leggendario “mago della luce” e direttore della fotografia dei più celebri film di Fellini e Visconti oltre che frequentemente richiesto all’estero.
Il “metodo” di Carmen Bulgarelli Càmpori era semplice: la ricordo prepararsi ad un’esecuzione del Ballo in maschera di Verdi, nel suo studio al primo piano affacciato sulle colline toscane, con la partitura in una mano e nell’altra il disco della storica registrazione RCA di Arturo Toscanini: non certo per imitarlo, ma per una sorta di doppia verifica, sul testo e sulla sua interpretazione ritenuta più importante. Certo che Toscanini era il punto di riferimento di Carmen (come lo sarà, poi, di Riccardo Muti), ma non era un modello, o un invisibile “tutor”, bensì un’idea forte di metodo, di stile, si direbbe di “etica” interpretativa. Di tutto questo purtroppo rimangono scarsi e rarissimi documenti d’ascolto (zero discografia, qualche video vintage), al contrario delle numerose recensioni che testimoniano, come annota Giani, lo spesso strato pregiudizievole che da lì in poi accompagnerà ogni donna che si accinga a salire sul podio e che, nella quasi totalità dei casi, si attarda sulla componente “estetica”, fisica, anzichè inoltrarsi su quiella interpretativa e musicologica. Così, chi la ricorda “altissima, snella, figura da indossatrice, incedere elegante” (Giuseppe Pugliese), chi invece, magari ritenendo di farle un complimento, annota che “come tutte le donne direttrici (…) anche la Càmpori non dimostra la prepotenza dell’uomo (…)” registrando poi che “il pubblico fu assai contento di lei e l’applaudì con fervido slancio. Infine si ricordò ch’era donna, anche se direttore d’orchestra (si noti anche se, ndr.) e le spedì sul palcoscenico gentili mazzi di fiori” (Giulio Confalonieri). Salvo poi chiosare immancabilmente: “sembrò che le mancasse l’atto ultimo, l’atto in cui forse le donne non sono capaci di pervenire, l’atto di un sortilegio che si compia davanti a noi e che, pur essendo il risultato di lunghe premeditazioni e di lunghi assaggi, deve assumere l’aspetto di una creazione istantanea, di una suscitazione dal nulla, autoritaria, imprevedibile, quasi violenta”.
Siamo nel 1950 ma chi pensa che l’atteggiamento poi sia radicalmente cambiato si illude. Leonard Bernstein, pure mente tra le più “aperte” e illuminate del Novecento musicale, ascoltando l’americana Marin Alsop dirigere disse, in perfetta buona fede:
Se chiudo gli occhi, mi pare che sul podio ci sia un uomo;
e Riccardo Muti, altro artista globale non certo sospettabile di istanze discriminatorie, intervistato sul tema sentenzia:
Devono esprimere la loro femminilità. Le vedrei bene nella sensibilità di Schubert, meno nella tempesta dell’Otello che potrebbe sembrare la negazione della femminilità.
Ora, se simili sesquipedali sciocchezze possono essere pronunziate con supremo sprezzo del ridicolo è solo perché – ed è questo il nucleo centrale della riflessione di Giani – intorno alle donne direttrici si sviluppano ancora oggi una narrazione, appunto, un’accoglienza prevalentemente giornalistiche e rotocalchistiche, preoccupate quasi unicamente di relegarle in una cornice “estetica” (l’abito, il trucco, l’aspetto fisico), quindi di forma anzichè di sostanza, ovvero di gradevole e sorprendente epifania da registrare con paterna condiscendenza, senza minimamente preoccuparsi di andare al cuore della questione, ossia al loro valore come interpreti. Si sprecano gli esempi, che Giani impietosamente documenta: da Marin Alsop “carina, biondina, piccolina” (Elsa Airoldi su Il Giornale, tanto per dimostrare che anche le donne sanno essere maschiliste) alla montebellunese Elisabetta Maschio (vi risparmiamo i calembour giornalistici sul suo cognome…) “minuta, timida, dolce” (Renata A. Prevost su Il Corriere della Sera) alla finlandese Susanna Mälkki “bionda, sottile, quasi soave” (Sara Chiappori su la Repubblica, ed è ancora una donna a sminuire un’altra donna, ahinoi…); per non parlare della ristretta fantasia di titoli tutti giocati sul “podio che si tinge di rosa” e via banalizzando. Sarà appena il caso di sottolineare come, tanto per restare nel campo delle responsabilità mediatiche, non si registrino analoghi interessi – che so – per l’ondeggiante chioma un tempo corvina di Muti, la mimica corporea di Prêtre o quella facciale un po’ scimmiesca di Pappano, la possessione quasi da invasato di Bernstein, il gesto tremolante di Gergiev, e via elencando… Il motivo è semplice: conta il risultato. Conta l’interpretazione. Dei maschi, naturalmente.
Si consenta anche qui una testimonianza personale. Per motivi di lavoro, moltissimi anni dopo Carmen Bulgarelli Càmpori, ho avuto il modo e la fortuna di conoscere e frequentare per qualche tempo proprio Elisabetta Maschio, già allieva e assistente di Gustav Kühn, e di discorrere a lungo con lei di musica, di interpretazione, di punti di riferimento direi quasi etici prima che artistici. Non mi è mai parsa né minuta, né timida, né dolce, certo non nel senso anestetizzante annesso ai termini; mi è al contrario sempre apparsa determinata e lucida nella strada da intraprendere. E, se Carmen aveva introiettato il modello toscaniniano, Elisabetta Maschio vantava invece un collegamento anche personale e un comune sentire con un maestro vulcanico, imprevedibile e rigoroso quale Carlos Kleiber, gigante del podio dal repertorio non amplissimo ma sviscerato sino allo spasimo. Mai, in ore di conversazioni, l’ho sentita accusare qualche complesso d’inferiorità o indulgere ad argomenti e aspetti che esulassero dalla musica e dalle sue leggi. Sinché ho potuto ascoltare la registrazione della Madama Butterfly pucciniana da lei, ventisettenne in pratica debuttante, diretta allo Sferisterio di Macerata: una lettura violenta, aliena da qualunque tentazione floreale, lacrimevole o esoticheggiante, di stagliata drammaticità e tutta protesa a evidenziare il sinfonismo conflittuale e squisitamente europeo del compositore. L’impressione era che Elisabetta Maschio avesse una particolare propensione per il più rinomato repertorio del melodramma operistico con l’intento di “ripulirlo” da decenni di prassi esecutiva convenzionale, di canto urlato o esagitato, di luoghi comuni loggionistici. Ed ecco allora la sua infuocata e perentoria Carmen bizetiana, o l’esemplare, per rigore e asciuttezza, proposta di due capisaldi del verismo italiano quali Cavalleria rusticana di Mascagni e Pagliacci di Leoncavallo, sino al confronto con l’ultimo Verdi in una versione limpida, trasparente e consapevolmente malinconica del Falstaff. Si chiamano, per l’appunto, questioni di interpretazione musicale.
Le medesime in base alle quali verrebbe da suggerire al maestro Muti l’ascolto della Messa da Requiem verdiana nelle interpretazioni di Marin Alsop e forse ancor più dell’australiana Simone Young: mai sentito, come in quest’ultima, uno stacco del Dies Irae così travolgente, impetuoso e nel contempo secco, intimamente apocalittico. Forse nemmeno nelle pur numerose e fondamentali versioni del direttore napoletano. Con buona pace della retorica sulla “femminilità”…
Perché il punto, come sostiene Giani, sta proprio qui, ossia in quella verifica sul campo che per le direttrici d’orchestra manca, o è comunque subalterna al “colore”, al gossip, al censimento di una specie rara (e quindi da proteggere e isolare). Ma sul campo oggi, complici una discografia crescente e i numerosissimi documenti audiovisivi disponibili in rete, la verifica è non solo possibile ma doverosa. E allora c’è solo l’imbarazzo della scelta. Di Maschio, e del suo approccio innovativo e riformatore al repertorio del melodramma più popolare s’è detto.
La cinese Xian Zhang, direttrice emerita dell’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi e direttrice ospite principale della BBC National Orchestra del Galles, ha ad esempio una particolare propensione per il repertorio russo tra Otto e Novecento (Prokofiev e Rachmaninov), che restituisce senza sovrastrutture letterarie o descrittivistiche; da parte loro, la lituana Mirga Gražinytė-Tyla [foto di copertina] e l’americana di radici greco-russe Karina Canellakis firmano due straordinarie esecuzioni della Quarta Sinfonia di Ciaikovski, entrambe depurate dal sovreccitato decadentismo di troppe esecuzioni, la prima esemplare per nitore, frenesia e lucidità del timbro, la seconda dai tempi molto pacati, assaporati, che evidenziano ogni dettaglio della monumentale partitura. La canadese Tania Miller ci restituisce una Quinta di Mahler anche questa molto dilatata nei tempi (ecco un tratto comune a molte interpretazioni femminili: lo stacco lento dei tempi, per consentire un’evidenziazione e una sottolineatura di ogni risvolto) e quindi di lugubre solennità, compreso il celeberrimo Adagietto. La lucchese Beatrice Venezi ha firmato, tra l’altro, un prezioso cd dedicato a pagine pucciniane, di assoluto riferimento per chi voglia cogliere la limpida modernità sinfonica, scevra da piagnucolii ed eccessi veristici, del grande compositore. La giapponese Tomomi Nishimoto offre una Quinta di Ciaikovski di febbrile concentrazione e adamantina chiarezza. Marin Alsop affronta l’impervia Sinfonia delle Alpi di Strauss andando al cuore della partitura, riconducendone le varie parti ad una visione unitaria di sobria grandiosità. La canadese Barbara Hannigan, soprano e direttrice, s’immerge nell’immenso Requiem di Mozart coltivandone non le tentazioni preromantiche ma la malinconica, crepuscolare lievità. E potremmo continuare…
Ovviamente, rileva Giani, il punto non risiede solo nella narrazione giornalistica, nell’immagine stereotipata che ancor oggi si ha delle direttrici d’orchestra (ormai un vero esercito in marcia), ma anche e forse soprattutto nella legge dei numeri che, per quanto in salita relativamente alla presenza femminile, sono ancora impietosi. La studiosa lo documenta con dovizia di tabelle e grafici, ma qui daremo solo alcuni dati eloquenti sulla situazione italiana: le donne costituiscono solo il 24,16 per cento dei diplomati in composizione e il 22,18 per cento in direzione d’orchestra. Inoltre, le donne rappresentano meno di un terzo, il 30,3 per cento sul totale degli orchestrali delle fondazioni lirico-sinfoniche italiane.
Il cammino dunque è ancora lungo per le “direttrici senza orchestra”, nel nostro paese più che altrove. Un percorso irto di ostacoli che riguardano una mentalità complessiva dove confluiscono il linguaggio giornalistico, l’assetto istituzionale delle strutture musicali, la maturazione della critica musicale, i pregiudizi tuttora esistenti nella musicologia. Ed è un percorso che non può che mirare al bersaglio centrale: quello – finalmente – delle pari opportunità. Che sono l’esatto opposto delle “quote rosa”.

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