Domenica scorsa, 18 ottobre, in Bolivia, si è votato per il presidente della repubblica e i 166 deputati del parlamento. Un anno dopo. Solo un anno fa, il 20 ottobre 2019, la Bolivia aveva votato per le stesse elezioni. E con gli stessi risultati. Anche allora partecipazione altissima (88,3 per cento) e vittoria di Evo Morales e del MAS, Movimiento al Socialismo, col 47,8, seguiti alla lontana da Carlos Mesa, candidato di Comunidad Ciudadana (centro-destra) col 36,61. Domenica scorsa, ancora partecipazione altissima (87,8 per cento) e (col 54 per cento dei voti scrutinato) vittoria anche più netta del ticket del MAS scelto da Evo (oltre che maggioranza assoluta in parlamento): alla presidenza Luis Arce Catacora (Lucho), il creolo ex-ministro dell’economia (“padre” del “miracolo economico” boliviano: cinque per cento di crescita media annua), e come vice David Choquehuanca, l’indio aymara ex-ministro degli esteri, al 48,5, con Mesa al 33,1 e Fernando Camacho, il leader dell’etno-fascismo di Santa Cruz de la Sierra, al 16,8.
Solo che allora, fra le accuse di frodi (poi smentite dati alla mano da quei comunisti del New York Times) lanciate a Washington dall’impresentabile segretario dell’OSA, Organizzazione degli stati americani, l’uruguayano Luis Almagro, e dal dipartimento di stato USA, era finita in golpe. Il 10 novembre Evo Morales era stato costretto a “dimettersi” e, fra accenni sanguinosi di guerra civile, a partire per l’esilio in Messico e poi in Argentina. Al suo posto si era autoproclamata presidente, Bibbia alla mano, Jeanine Áñez, oscura senatrice di un mini-partito cristiano ultrà. Ed era subito partita la demonizzazione di Evo, accusato di ogni crimine (genocidio, sedizione, terrorismo, corruzione) e del MAS; e lo smantellamento rapido, sull’onda della “shock economy” ben spiegata da Naomi Klein, di tutto quello che in politica, economia, dignità era stato costruito nei quasi quindici anni di governo dai “selvaggi” (parole di Áñez) Evo e i suoi indios aymara e quechua.
Questa volta nessuna contestazione, atmosfera tesissima ma pacifica, fair play degli avversari, congratulazioni rapide di Mesa e Áñez, perfino di Almagro. Esercito immobile in caserma. Arce esclude “vendette” e dice che formerà “un governo di unità nazionale”. Una grande dimostrazione di forza da parte di Evo (che tornerà in Bolivia, “ma non subito”), di radicamento del blocco popolare costruito intorno al MAS, di dignità tenace delle masse indie, una boccata d’ossigeno per malandata sinistra latino-americana.

Tutto molto liscio e bello. Finora. Ma… Qualcuno ricorda che chi fa un golpe è strano che accetti di lasciare il potere così facilmente; qualcuno è perplesso che dopo aver cacciato Evo dalla finestra i golpisti gli permettano di rientrare dalla porta principale; qualcuno, di fronte a tanto fair play, pensa che qualcosa non abbia funzionato bene nella destra sia all’interno della Bolivia sia all’esterno, a Washington, fra l’OSA di Almagro e il dipartimento di stato di Pompeo.
Si vedrà. Come si vedrà che farà Evo quando tornerà (intanto si può già dire che è buono aver passato la mano, perché contrariamente a quanto diceva uno, il potere logora chi ce l’ha troppo a lungo).

Oggi però si può solo festeggiare perché di solito sono i golpe ad abbattere i governi eletti, come è accaduto un anno fa, questa volta invece sono state le elezioni ad abbattere il golpe. Una novità per l’America latina.
Il nuovo governo si insidierà nel Palacio Quemado di La Paz nella prima quindicina di novembre. Sarebbe di nuovo molto simbolico se fosse proprio il 10, il giorno in cui Evo Morales fu costretto a dimettersi. Un anno fa.

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