Sulla via che porta alla Casa Bianca c’è il problema Cuba. E a seguire quello Venezuela. Kamala Harris, combattiva candidata alla vicepresidenza nel caso di una vittoria di Joe Biden, avvocato e senatrice della California, è andata a Miami nei giorni scorsi a dire come la pensa il Partito democratico. Impresa non facile per ragioni politiche e “ambientali”. A Miami, lo scorso weekend, ha fatto capolino anche Barack Obama per spiegare la sua politica verso l’America Latina seguita nei suoi otto anni di presidenza.

La cronaca di comizi e incontri riferisce che Harris e Obama si sono mossi costantemente sotto una vigile e corposa scorta. Il voto della Florida si rivela sempre tra quelli decisivi per la conquista della Casa Bianca, probabilmente lo sarà per l’ennesima volta: Miami è la capitale per antonomasia degli anticastristi e degli antichavisti, oltre che della destra ispanica. La cosa interessante è che Harris non ha proposto una linea di continuità più o meno velata con la politica di Trump per lisciare il pelo all’elettorato indeciso di centrodestra, bensì ha detto chiaramente che l’obiettivo del suo ticket con Biden è quello di tornare
alla linea di politica estera seguita da Barack Obama: dialogo, scambi economici in modo da far crescere la domanda di democrazia perché la linea dello scontro in tanti decenni non ha portato a nessun esito per Cuba e recentemente neppure in Venezuela.
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La scommessa del Partito democratico è far breccia in quella parte di elettori giovani e di mezza età di origine cubana andati via dall’isola più per ragioni economiche che politiche, ormai convinti dell’anacronismo del muro contro muro. Il voto ispanico in Florida è infatti decisivo. In Calle Ocho e nel quartiere Little Havana a Miami le inchieste parlano però di una maggioranza pro Trump con la convinzione che la fine dei castristi all’Avana e dei chavisti a Caracas è vicina, complice la pandemia da Covid. Harris ha comunque precisato che
per abolire l’embargo contro Cuba ci vorranno anni a causa di una legislazione complicata.

Le notizie che giungono da Cuba parlano di ulteriori complicazioni economiche con una situazione alimentare che sfiora l’emergenza umanitaria mentre il governo si ingegna a pensare a nuove riforme economiche (unificazione monetaria tra pesos locale, dollari ed euro con valori differenti, aumento consistente dei salari): la pandemia risulta sotto controllo grazie alla capillare sanità cubana, non così la vita quotidiana e l’economia. Notizie di scarsità di risorse giungono puntualmente pure da Caracas dove gli Stati Uniti hanno fallito finora il tentativo di buttare giù dalla torre il presidente Nicolas Maduro (l’autoproclamazione a presidente di Juan Guaidò) pur continuando a logorarne la base di consenso.

Con Trump l’orologio è tornato indietro. Embargo economico più feroce, stop ai voli tra i due paesi, inesistenti scambi diplomatici e commerciali. Addirittura niente visti nell’Ufficio statunitense consolare all’Avana per visitare le famiglie cubane negli States (bisogna andare a chiederlo fuori da Cuba con ovvii aggravi economici). Insomma, peggio che ai tempi di Ronald Reagan. Gelo completo. Proprio nei giorni scorsi Trump ha emesso un ultimo micidiale provvedimento: chiuderanno in concomitanza con le elezioni negli Stati Uniti gli uffici dell’agenzia postale Western Union nell’isola. Sarà quindi impossibile inviare per questa via rimesse degli emigranti ai nuclei famigliari in un momento di grave penuria nell’isola. È una mossa che si rivelerà un boomerang per Trump che punta tutte le sue carte su odio e vendetta?

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