Il ciclone Trump perde impeto e il meteo politico annuncia una giornata di cielo sereno a Washington l’indomani dell’Election Day. Lo sperano in tanti, non solo nel mondo progressista. Non solo negli Stati Uniti. Una speranza che i sondaggi alimentano ormai da settimane, fino a farla apparire una certezza. Tanti indizi negli ultimi giorni – tra tutti la grande affluenza ai seggi del voto anticipato (early voting), soprattutto giovani – danno ulteriore sostegno all’ottimismo.
L’importanza capitale della posta in gioco, il 3 novembre, è esaltata dal possibile avverarsi dell’esito opposto. La rielezione di Trump. Una prospettiva catastrofica, non solo per l’evidente, eclatante, significato in sé di un risultato del genere. Ma perché sconvolgerebbe irreversibilmente gli assetti del sistema americano, in crisi da tempo e messi a prova esistenziale dall’attuale presidenza, aprendo il varco perfino a scenari di stampo autoritario. Potrebbe addirittura prendere corpo l’idea di un cambiamento costituzionale per annullare il limite dei due mandati presidenziali.
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L’incubo di un Trump “a vita” è solo un horror fantapolitico? Trump ci pensa davvero. E la sola idea agita i sonni di tanti elettori. Tanto che The Lincoln Project, una ricca organizzazione conservatrice fieramente anti Trump, nata esplicitamente per impedirne, ha lanciato diversi spot, nelle giornate finali della campagna, che giocano sul rischio di un terzo mandato presidenziale di The Donald. L’ultimo video, di un minuto, mostra una signora che entra nella stanza del figlio. Lui le chiede: “Chi ha vinto?”. E lei: “Trump, ha vinto Trump” “Pensavo si potesse essere presidente solo due volte”. E la madre: “Non più”.
Propaganda, certo, che però coglie un timore diffuso, reso ancora più forte e realistico dalla grave forzatura operata dalla Casa Bianca e dalla maggioranza repubblicana al senato con la recente nomina di Amy Coney Barrett a giudice della Corte suprema, conferendole una maggioranza blindata a sostegno di Trump.

Nonostante il vento decisamente a suo favore nei sondaggi, l’impresa di Biden si prospetta titanica di fronte a un avversario che quattro anni fa traumatizzò l’elettorato progressista rubando all’avversaria democratica la sua vittoria di buona misura nel voto popolare. Un film che potrebbe ripetersi? Perfino con un vantaggio di una decina di milioni di preferenze nel voto popolare, una vittoria di Biden potrebbe essere annientata da una vittoria di Trump nel computo dei collegi elettorali. O potrebbe essere impugnata dal presidente-candidato, con l’apertura di ricorsi in un certo numero di stati a maggioranza repubblicana e, infine, presso la Corte suprema, ormai saldamente collegata alla Casa bianca. Un golpe con il sigillo della costituzione.
Eppure l’ipotesi di un ko fatale inferto resta forte, e trova fondamento nella logica politica più che nelle aride cifre dei sondaggi. Il voto del 3 novembre ha assunto un’importanza così rilevante – politica, sociale, emotiva – da configurarsi come una scelta di civiltà più che una scelta tra due opzioni politiche. Un referendum su Donald Trump. Che ha anche il senso di un processo a suo carico, con una parte della sua “difesa” ostentatamente fredda nei suoi confronti.
Numeri così alti a favore di un candidato come Biden, senza carisma e con un curriculum punteggiato da troppe opacità, raccontano, più che la sua ascesa, la fine del suo avversario. La fine di un ciclo. C’è un’evidente Trump fatigue. Un logoramento. C’è stanchezza per Trump, per il suo show permanente, anche nel suo pubblico. Certo, non nelle platee isteriche dei suoi comizi, ma nella vasta area grigia di repubblicani, e non solo, che l’hanno eletto, senza dirlo, e l’hanno anche sostenuto in questi quattro anni, ma che adesso desiderano solo cambiare canale. Sono stanchi del loro beniamino. Stanchi di vederlo scherzare con Covid, lasciare correre indisturbato il virus, arrivare a prendere in giro l’avversario per sue presunte inadeguatezze mentali dovute all’età.
Conservare intatto il bottino di voti conquistato quattro anni fa tra gli elettori indecisi o indipendenti, specie tra gli anziani, sembra impresa impossibile. Il pendolo, questa volta, nei settori di elettorato in bilico oscilla verso il rassicurante Joe Biden. Senza contare i bacini elettorali colpiti brutalmente dal mix Covid-crisi economica. Quattro anni fa avevano creduto nel candidato bianco miliardario, considerato “uno di noi, uno come noi”. Ma oggi? Quanti di questi elettori gli daranno il loro voto?
Michael Moore sostiene, invece, che molti degli elettori che in grande misura, secondo le analisi prevalenti, avrebbero abbandonato Trump, potrebbero invece dargli una seconda chance. Il filmmaker argomenta paurosamente bene la sua posizione a sostegno di un possibile, addirittura probabile, successo di Trump, mettendo soprattutto in evidenza un aspetto dei sondaggi non dovutamente preso in considerazione: molti sostenitori del presidente, anche silenziosi, è gente sospettosa, ne condividono le teorie complottistiche sulle trame oscure degli apparati – il deep state – per farlo fuori. Diffidano di chi chiama al telefono proponendo di rispondere alle domande di un sondaggio, temendo che siano parte di operazioni contro l’elettorato del presidente e, se rispondono, non dicono la verità. Sondaggi fuorvianti, quelli che girano, dunque, che ancora una volta sottostimano la reale forza di Trump. Nel migliore dei casi – sostiene l’autore di Roger and Me e di tanti altri straordinari docufilm politici – il vantaggio di Biden su Trump registrato dai sondaggi va dimezzato. Una partita, dunque, aperta fino all’ultimo.

Ma anche in caso di sconfitta, anche netta, così com’è prefigurata da molti sondaggi, pensare che essa significherebbe l’uscita definitiva dalla scena del presidente umiliato sarebbe saltare alla conclusione di una storia. Che non è iniziata per caso quattro anni fa. E che è destinata a continuare anche dopo un ko il 3 novembre. Il movimento che l’ha portato al potere e che l’ha sostenuto non è effimero. Trump, consapevolmente e coerentemente, ne ha alimentato le ragioni e i sentimenti, essendo sempre radicalmente presidente di parte, disdegnando l’idea stessa di cercare di essere presidente di tutti gli americani. Quel movimento continua. La vicenda dell’eversore di Manhattan, pertanto, continuerà. Il giorno della sua uscita dalla Casa bianca, se davvero avverrà, sarà salutato come la giornata della liberazione, ma non significherà che l’America s’è liberata di lui. Di tutto quello che rappresenta, ha rappresentato, e che guida come figura di leader.
Una giornata “epica”, dunque, il 3 novembre, come la definisce il Guardian. Il suo esito avrà “ripercussioni globali per la democrazia, per il progresso e per la solidarietà, per generazioni”: dai legami transatlantici ai rapporti tra superpotenze, al cambiamento climatico. Dal diritto all’aborto all’accesso alla sanità, dall’eguaglianza di genere alla giustizia razziale. Che la storia proceda lungo queste conquiste, o torni indietro, riguarda tutti, non solo gli americani.
il manifesto [testo aggiornato e ampliato]

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