C’era una volta… che bello sentire queste brevi parole che ci fanno tornare indietro nel tempo, ricordare le voci di nonne, genitori, zii, che raccontavano favole: in qualunque paese del mondo, dai tempi di Omero ai – cupi – giorni nostri, i racconti fantastici, paurosi, ironici, tragici, sognanti, lieti, hanno rappresentato una parte importante della memoria dell’uomo. E assieme alla memoria, la storia e la sua evoluzione. Questo patrimonio orale è stato raccolto e documentato in un volume poderoso e ricco, Paese perduto. La cultura dei contadini veneti. Il pomo doraro – aneddoti e favole di Dino Coltro, curato da Marco Girardi per le Edizioni Cierre. L’edizione segue quella di oltre quarant’anni fa, tratta dall’archivio dell’autore che ha raccolto minuziosamente testimonianze di vita e tradizione, sia registrando le voci dei veci sia trascrivendo novelle, filastrocche, detti popolari.
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Rigorosamente in dialetto veneto della Bassa, la cultura contadina arriva fino a noi attraverso queste dense pagine, che condensano secoli di cultura e di società: e sono sempre gli anziani i protagonisti, quegli anziani che fino a un secolo fa calamitavano l’attenzione dei più piccoli e di tutta la famiglia attraverso racconti mitici che trasportavano in una diversa realtà la vita dura dei contadini. Chi non ha sentito parlare dei filò, nelle sere fredde dell’inverno contadino? Bella la descrizione, “nele stale calde de fià”, dove le famiglie si radunavano al lume della lanterna, secondo un ordine rigoroso che come tutte le cose antiche ha una logica: le donne che filavano per “farghe la dota a la fiola che se marida” in prima fila per vederci meglio, i piccoli ascoltano il vecchio che racconta, gli uomini tutti intorno giocano a carte, i giovani si guardavano iniziando nuovi amori, e le storie aprono orizzonti, sogni e desideri, istillano insegnamenti, paure, miti… E anche la voglia di partire alla ricerca di quei luoghi migliori descritti così bene dalle parole cantilenanti dei narratori.
“’L fogo l’era poco, la fame l’era tanta” racconta uno dei “Stramboti e induinarghe”, che assieme a “Parole bestie cristiani”, “Insognarse”, “Miti leggende e storie”, “Le fole del filò, del caregòn, de la piaza, de ciesa” condensano una mole enorme di materiale orale e di musica che è presente nel fondo della nostra memoria.
Una tradizione, quella del narrare, che attraversa ogni civiltà dei millenni più antichi, per aiutare l’uomo a uscire almeno con il pensiero da condizioni di vita dure.

Tradizioni e leggende specchio della mentalità contadina durante i secoli, rifugio e fuga da una realtà dura, con un linguaggio schietto e antico, pieno anche di battute fulminanti e spiritose, così simili a quelle che oggi leggiamo sui social forse proprio figlie di quello spirito sarcastico: come la “dona che decide de far ciapar spavento al so omo e la se travestise da diaolo: l’omo la vede imbriago ‘Ci sito ti?’ El ghe domanda. ‘So’el diaolo!’, ‘Alora sta bon, parche semo cugnà, mi gò sposà to sorela’”(“la donna che decide di spaventare il marito che torna tardi la notte, e si traveste da diavolo. Quando entra il marito ubriaco, le chiede ‘Chi sei?’, ‘Sono il diavolo’, risponde, ‘allora sta buono, siamo cognati, ho sposato tua sorella’”).
E se attraverso aneddoti e strambotti ci si poteva anche fare beffe della “ciesa” (chiesa) contro i “basabanchi” (baciapile) e gli ipocriti, i sogni sono quelli che da sempre l’uomo ha fatto e che anticamente sono passati attraverso i responsi della Pizia di Delfi: l’autore racconta cosa vuol dire secondo la tradizione veneta “insognarse dei morti, dei schei, de merda, de acqua, de preti, de nàre in barca” (sognarsi dei morti, dei soldi, di andare in barca)… per arrivare alle leggende legate agli eventi naturali che nei secoli hanno segnato le campagne venete, “salvi da le acque de l’Adese in piena”, quell’Adige a sua volta padre di leggende e miti.
Miti che hanno accompagnato milioni di persone uomini e senza diritti che dai primi anni del Novecento iniziano anche attraverso i racconti delle tradizioni a voler vivere meglio, a viaggiare, ad abbandonare le solitarie campagne per addensarsi nei centri abitati e iniziare con fatica un riscatto sociale, a studiare, a sapere.
Singolare come attraverso i detti popolari si percorra un itinerario sociale vario, e anche una “guerra tra poveri”, che vede ad esempio i contadini veneti contrapporsi ai montanari che scendevano a valle così rozzi “che no i savea gnanca do fuse la ciesa”, “cruchi che parlavano il simbro” (che non sapevano nemmeno dove fosse la chiesa, crucchi che parlavano il cimbro).
Il dialetto veneto della bassa, che si differenzia da zona a zona ma che i veneti comprendono, è il veicolo di trasmissione protagonista delle oltre settecento pagine del libro. E anche noi, più o meno giovani, veneti e non, torniamo con la memoria a quei giochi dell’infanzia che abbiamo avuto la fortuna di passare ancora liberi di giocare in corti o giardini, imparando a stare al mondo tra giochi “sociali” ritmati da cantilene in tutti i dialetti. E ognuno di noi potrebbe scrivere – se ha avuto la fortuna di ascoltarle – quelle filastrocche, e le trame delle favole raccontate, i racconti paurosi che insegnavano a stare in guardia dai vari “lupi cattivi” onnipresenti, le sognanti vicende di principesse, cavalieri, castelli e draghi, boschi misteriosi, gnomi e fate e chi più ne ha più ne metta.

In un’oasi del deserto del Sahara, sul far della sera, in uno spiazzo di terra battuta circondato da un alto palmeto, un cantastorie avvolto in un mantello si siede e attende: in poco tempo una folla di bambini si raduna attorno a lui, formando una corolla alla quale si aggiungono in poco tempo madri, padri, altri anziani. Il cantastorie dopo la benedizione inizia a raccontare e anche ascoltando senza capire, noi stranieri capitati lì per caso, rimaniamo affascinati dal ritmo e dall’attenzione dei presenti.
Questo accadeva qualche anno fa, quando il mondo era differente o almeno c’illudevamo che lo fosse. Un Omero errante oggi è meno presente nelle nostre vite congestionate che la pandemia sta tentando di ridimensionare, ma forse ricordando miti e leggende, proverbi e tradizioni, il “Paese perduto” che ognuno di noi in fondo un po’ rimpiange può far parte ancora delle nostre esistenze.

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