Il lato oscuro di Sean Connery

Quel dark side, quella luce sinistra, quasi luciferina che egli proietta sul suo 007 si riverberano in molte sue interpretazioni, spesso giocate sul filo dell'ambiguità, del sottile confine che separa il Bene dal Male, e in qualche memorabile caso apertamente sbilanciate verso quest'ultimo.
ROBERTO PUGLIESE
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Terence Young, il regista britannico che ha firmato tre fra i primi e migliori film della serie dedicata all’agente 007 (“Licenza di uccidere”, “Dalla Russia con amore” e “Operazione tuono”) non aveva una grande opinione della creatura di Ian Fleming:

Monsieur Bond è un tipo orribile – dichiarò una volta – un sadico che uccide a sangue freddo i suoi avversari quando sono disarmati, un bruto che tratta le donne da mascalzone. In fondo, Monsieur Bond si comporta come un fascista: avrebbe fatto furore nelle SS […] E poi non l’ho mai visto leggere, o andare a teatro, o a un concerto. Sono convinto che sia un ritardato.

Non è dato sapere se, emettendo questo giudizio lapidario ma difficilmente contestabile, Young ne stesse stabilendo un’equazione con le caratteristiche di cui il “suo” James Bond, ovvero Sean Connery, stava arricchendo il personaggio. Di fatto, però, constatiamo oggi che in una filmografia di 25 titoli nel corso di sessant’anni l’unicità conclamata di Connery-007 consiste proprio nell’essersi più di chiunque altro avvicinato sino a immedesimarvisi non tanto al provocatorio identikit di Young quanto all’originale fleminghiano (rileggersi, per credere, quell’autentico manifesto della crudeltà che è “Casino Royale”): sicuramente più dello scettico e ironico Roger Moore, che pure era fra i “papabili” iniziali ma fu scartato perché troppo giovane, o del prestante ma vacuo George Lazenby, o del cupo ma impersonale Timothy Dalton, o del fascinoso ma ipernarcisista Pierce Brosnan… E davvero oggi forse solo il gelido Daniel Craig, il cui aplomb da sicario su commissione cela in realtà indicibili tormenti interiori, si avvicina credibilmente – addirittura esacerbandolo – all’originale di Connery.

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Ma la sottolineatura di questo “lato oscuro”, peraltro mai occultato, del personaggio James Bond, che Connery seppe magistralmente diluire in una recitazione che era un mix di umorismo, determinazione, crudo disincanto e professionale aggressività, può essere d’aiuto per riflettere più a fondo su un aspetto poco ricordato, e invece molto importante e persino coraggioso, della sua carriera e delle sue interpretazioni. In altre parole, quel dark side, quella luce sinistra, quasi luciferina che Connery proietta sul suo 007 sin dal primo sguardo impassibile, quasi annoiato con cui declina le proprie generalità alla prima apparizione, che appartenevano e si riverberavano in molte sue interpretazioni, spesso giocate sul filo dell’ambiguità, del sottile confine che separa il Bene dal Male, e in qualche memorabile caso apertamente sbilanciate verso quest’ultimo. Impossibile non ricordare, a tale proposito, come un anno dopo “Dalla Russia con amore” e contemporaneamente a “Missione Goldfinger” (1964), quasi senza cambiarsi d’abito né di make-up, Connery diede vita a due personaggi maschili che sembrano fotocopiati sulla sferzante descrizione che di James Bond dava Young nella citazione d’inizio. 

Il primo è l’Anthony Richmond in “La donna di paglia” di Basil Dearden, nipote ambizioso di un milionario dispotico e paralitico (Ralph Richardson), che manipola una giovane e sprovveduta infermiera italiana (Gina Lollobrigida) unicamente per far cambiare testamento allo zio e impossessarsi, dopo la sua morte “accidentale”, del suo patrimonio. Un ruolo da perfetto, ignobile villain le cui azioni sono motivate solo dall’avidità e che utilizza consapevolmente il proprio fascino come un’arma offensiva: quasi che 007, spogliatosi definitivamente di ogni sovrastruttura ideologica da Guerra Fredda o di qualsiasi dovere di obbedienza ai superiori, agisse seguendo i propri istinti ridotti allo stato puro, in un agglomerato micidiale di calcolo e amoralità.

L’altro ruolo-chiave è il Mark Rutland di “Marnie”, sottovalutato e per molti aspetti incompreso gioiello di Alfred Hitchcock, una specie di “Io ti salverò” a parti invertite: ancora un giovanotto di ampi mezzi e consapevole del proprio appeal, che si ostina con metodi piuttosto sbrigativi a voler redimere/guarire una cleptomane sessuofoba e psicolabile (Tippi Hedren) gravata da un trauma infantile. Qui le sfumature sono ancor più intriganti perché si tratta di una figura tutto sommato positiva, ma nondimeno antieroica e “politicamente scorretta”, che si arresta a un passo dallo stupro di colei che di lui non vuole saperne, salvo voler a tutti i costi rimediare a ciò che viene fatto apparire a tutti gli effetti come una patologia.

 Ma il vertice, o se preferite il fondo, dell’abisso sul quale paiono affacciarsi anche altre interpretazioni di Connery, quantunque orientate dalla parte dei giusti (il soldato ribelle de “La collina del disonore”, lo sterminatore di “Zardoz”, il capo berbero rapitore di vedove di “Il vento e il leone”, lo zio incestuoso di “Cinque giorni un’estate”, le inflessibili figure militari, americana o sovietica poco importa, de “Il presidio” e “Caccia a Ottobre Rosso”, e se vogliamo persino l’arcigno e titanico Malone, poliziotto-martire de “Gli intoccabili”), ebbene questo sprofondamento nel Male avviene nel 1972, subito dopo il bondiano “Una cascata di diamanti”, grazie a “Riflessi in uno specchio scuro” (titolo italiano per una volta centrato rispetto all’originale, più icastico “The offence”) di Sidney Lumet, un regista che ebbe sempre molto caro l’attore scozzese.

Qui Connery con stupefacente adesione e inquietante ricchezza di sfumature incarna un altro sbirro, il sergente Johnson, un soggetto psicopatico e violento, ormai ostaggio dei propri incubi, incapace di discernere i piani della realtà dalle proprie allucinazioni e destinato a precipitare in una spirale di follia e di morte. Si tratta di uno dei personaggi maschili più sconvolgenti dell’intera filmografia conneryana nonché di un’analisi del potere esercitato ciecamente da strumenti repressivi fuori controllo che resta fra le più “politiche” nel cinema di quel periodo, e alla quale Connery aderì senza mezze misure ma anche senza inutili eccessi, sottolineando anzi la “normalità”, quasi sciatta e perciò ancor più terrificante, con cui il suo protagonista agisce e viene “agito” dal proprio Lato Oscuro.

Certo, sono pillole all’interno di una filmografia così vasta, popolata da titoli di ben altro successo e che hanno contribuito a fissare il mito di Sean Connery in una sorta di ideale Olimpo degli Eroi tutti d’un pezzo, grazie ovviamente al più celebre dei personaggi da lui interpretati. Ma proprio questi tre film – con altri in misura minore, e ci piace qui citare anche il Robin Hood anziano e immalinconito, crepuscolare, dello splendido “Robin e Marian” di Richard Lester, 1976, accanto ad una struggente Audrey Hepburn – dimostrano viceversa che anche gli eroi possono… andare in pezzi, e che a volte sono pezzi difficili da rimettere insieme. Il che fa di Sean Connery un attore non monolitico ma complesso, a volte addirittura complicato, anche se sempre con le idee brutalmente chiare. 

Ad esempio quando lasciò il cinema, dopo il disastroso “La leggenda degli uomini straordinari” (2003, Stephen Norrington), dichiarando di essere “stufo degli idioti”; forse lo stesso ultimo sentimento con cui se n’è uscito dalla comune, lui fiero scozzese indipendentista, pensando al Regno Unito governato da Boris Johnson…

Il lato oscuro di Sean Connery ultima modifica: 2020-11-02T20:50:14+01:00 da ROBERTO PUGLIESE
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