Lo spettro del “gerocidio” sta tornando. Lo dicono i numeri epidemiologici sfornati quotidianamente, con un ritmo decisamente ansiogeno. Una seconda ondata – che nel caso della “Spagnola” di un secolo fa fu decisamente peggiore della prima – temibile soprattutto per gli anziani, il tallone d’Achille della pandemia. Come dice infatti l’Istituto superiore di sanità, il 67 per cento dei decessi causati finora dal coronavirus ha interessato la fascia dei 70-89 anni.
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Fieri di essere tra i paesi più longevi al mondo (l’1,4 per cento della popolazione italiana ha più di novant’anni, solo il Giappone ci supera), di avere la classe di anziani tra le migliori performanti in assoluto, all’improvviso ci svegliamo in una realtà in cui tutto questo sembra essere rovesciato. La longevità appare non più un destino benigno e sicuro, ma solo una conquista provvisoria. Molto provvisoria: talmente provvisoria da essere reversibile.
Così, improvvisamente e senza previsione alcuna, scopriamo che la morte non è così lontana come si pensava (e si sperava), che i guadagni di anni vita possono esserci tolti, che la longevità stessa può ridursi. E scopriamo anche che la scienza medica e il sistema sanitario non mantengono la promessa faustiana dell’addomesticamento della morte. In effetti, per secoli è stato effettivamente così, quando si usciva dalla vita molto meno vecchi (solo due secoli fa si entrava nella vecchiaia intorno ai trent’anni) e decisamente più malandati. La nuova mentalità della senescenza è invece frutto degli ultimi decenni, quando si sono scoperti l’invecchiamento attivo, la longevità e la giovanilizzazione dei comportamenti dei nuovi anziani, quei numerosi baby boomer ormai incanutiti.
Insomma, una terza età sempre più lunga (nell’ultimo decennio la speranza di vita è aumentata di due anni e mezzo) che oggi si trova di colpo impaurita, fragile, rinserrata in case di riposo che sembrano “besieged castles” (come scrive Lancet Psychiatry), vittima facile di quell’impennata della mortalità che ha segnato a marzo il 47,2 per cento in più di decessi rispetto all’analogo mese degli anni precedenti.
Come emerge da un sondaggio condotto da Senior Italia FederAnziani su 645 ultrasessantacinquenni:
Più dell’ottanta per cento del campione è terrorizzato dal Covid, di cui un intervistato su quattro teme di poter morire (19,8 per cento). La paura più diffusa è quella di infettare le persone care o essere infettati dai propri familiari (38,6 per cento del campione), seguita dalla paura di essere intubato (36,4), di finire in ospedale (34,7), mentre la possibilità di morire da solo senza i propri familiari accanto spaventa un terzo degli intervistati (30,1). Uno su cinque soffre una generica incertezza riguardo il proprio futuro (21,9), teme lo sconvolgimento delle abitudini di vita (21,4), e per la stessa percentuale lo spettro peggiore è quello della solitudine.
Per cui, conclude la ricerca:
La vita degli over 65 è drasticamente cambiata dall’inizio della pandemia: il 57 per cento del campione ha finito col vivere questi mesi in un lockdown permanente, vedendo ridotta o addirittura completamente azzerata la propria vita sociale nella quotidianità, per il 47,4 una delle più pesanti limitazioni è rappresentata dal non poter più viaggiare, per il 36,3 ha pesato soprattutto la difficoltà a contattare i medici e specialisti. Il 28,4 per cento lamenta la difficoltà a incontrare i propri cari, il 19,7 ha sofferto per la mancanza di attività fisica, incluso il ballo all’interno del proprio centro anziani, il 19,4 avuto difficoltà a comunicare con gli uffici pubblici, mentre solo il 12,9 ha dichiarato di non aver riscontrato grandi cambiamenti nella propria vita quotidiana.

La pandemia ha anche riacceso il cosiddetto ageismo, termine coniato nel 1969 dal gerontologo Robert Butler per indicare l’insieme dei pregiudizi, degli stereotipi e delle discriminazioni basati sull’età. Il discorso del “virus che colpisce solo i vecchi” indica quasi un sentimento di rassicurazione per chi ritiene “giusto” o giustificato che gli effetti più gravi del virus ricadano sugli anziani, già possessori di una “quantità di vita” sufficiente e ormai gravosi per il sistema sociale ed economico (si veda in proposito il rivelatore tweet del presidente della Liguria).
Uno studio italiano condotto da Diversity Lab e dall’Università di Pavia ha evidenziato che da gennaio ad aprile 2020 la copertura mediatica per le cinque are della diversity (Generazioni, Generi, Disabilità, Etnia, LGBT+) è crollata drasticamente, eccezion fatta per gli anziani. Il racconto, tuttavia, si è concentrato sul numero dei loro decessi e sulla questione dell’accesso alle terapie intensive, con riferimenti serrati a statistiche, parametri e tendenze.
Molto poco si è detto, invece, sulla condizione dei tanti ultrasettantenni isolati e dimenticati: in casa, nelle strutture di ricovero, nelle geriatrie. D’altronde secondo una ricerca del Censis oggi in Italia il 49% dei millennial ritiene giusto dare priorità ai giovani nelle situazioni di emergenza, mentre il 35% è convinto che la quota di spesa pubblica dedicata alla terza età sia troppo ampia.
Come dice The Lancet Healthy Longevity:
Il “Covid ageism” è suscettibile di influenzare negativamente la salute mentale degli adulti anziani. Molti anziani potrebbero temere non solo la malattia in sé, ma anche preoccuparsi che, se infettati, potrebbero non ricevere un trattamento adeguato, perché la comunità medica dà priorità alle cure per i giovani. L’isolamento sociale tra gli adulti anziani è stato a lungo una preoccupazione per la salute pubblica che sarà esacerbata dagli avvertimenti per tutte le persone anziane, indipendentemente dallo stato di salute. Le restrizioni intese a proteggere i più vulnerabili potrebbero far sì che alcuni anziani si sentano un peso per la società. Insieme, un senso di appartenenza contrastato e un peso percepito sono fattori di rischio per il suicidio. Inoltre, in considerazione della nonchalance con cui i decessi Covid correlati degli anziani sono stati occasionalmente trattati da politici e organismi governativi nonché nel dibattito pubblico, gli anziani potrebbero minimizzare l’importanza dei loro disturbi di salute mentale. Pertanto, vi è un rischio ancora maggiore che i loro sintomi non vengano rilevati durante la pandemia.
Insomma per l’anziano sembra tristemente tornare a valere che senectus ipsa est morbus, come recitava la sconsolata sentenza con la quale Terenzio Afro definiva la vecchiaia. Obbligandoci a frenare sull’ottimismo che aveva accompagnato la numerosa e creativa generazione dei baby boomer che, dopo aver reinventato la giovinezza, pensavano di poter reinventare anche la vecchiaia.


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