Riflettendo, da semplice cittadina, su quanto di positivo oggi vi sia nel nostro vivere e, purtroppo, su quanto vi sia di negativo, osservo, in questa nuova ondata di pandemia, come non stare bene, avere qualche malanno da curare, sia diventato un problema semplicemente impensabile nell’era pre-Covid. Il medico di famiglia è oberato di lavoro, non dispone delle fiale per la vaccinazione anti-influenzale (anche le farmacie ne sono sguarnite) e – al bisogno – non è in grado di recarsi al domicilio del paziente. Mettiamo una banale cataratta, che oggi con un minuscolo intervento si risolve. Ebbene: già prima di Covid, trattandosi di una “non urgenza” il tempo d’attesa era di circa cinque mesi, mentre a pagamento la cosa si risolveva in pochi giorni. Esemplare. Ora per questo e altro pare necessario recarsi al pronto soccorso, dove, in compagnia di altri “pazienti” si rischia il contagio da “coronavirus”. Sembra che si possa morire o essere curati soltanto per il Covid: altre patologie sono considerate di serie B o addirittura inesistenti.
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E la scuola? Mi rendo conto che sia una tristissima necessità trattenere in casa e non in un’aula ragazzini che, pertanto, non solo non possono socializzare ma con la didattica a distanza neppure s’istruiscono, ma imparano, sulla pelle di insegnanti non sempre preparati. E per giunta, probabilmente, imparano nozionisticamente, non ragionando e dialogando fra loro e con gli insegnanti.
Tuttavia lasciate ricordare a chi non è più giovane i tempi passati, tempi nei quali la scuola era un ricordo: il periodo della guerra, dei bombardamenti, dei pericoli quotidiani.
Mi rendo conto che questa mia riflessione potrebbe suscitare critiche; i tempi sono cambiati, i vecchi non capiscono, i ragazzi hanno tutti i diritti.
Eppure dal ’40 al ’45 quanti di noi hanno “perso un anno” senza che nessuno vi facesse caso? Altri problemi attanagliavano la vita di tutti, prima di tutti la paura per la sopravvivenza. Quanti giovanissimi, col padre magari nella campagna di Russia, dovevano sfollare, cambiare città e casa soltanto per sopravvivere? Non si pensava a mesi – forse anche un anno – nei quali l’istruzione era un problema secondario. Pensiamo anche a quanti – Liliana Segre in testa – lottavano, nel possibile, per sopravvivere, non certo per studiare. E quanti, pochi, rientrando dovevano affrontare scuole male organizzate, situazioni umane difficilissime?
Tutto questo, tuttavia – anni o mesi di vita perduti – ci ha resi consapevoli del fatto che la vita non sempre è rosea e neppure normale; ci ha maturati.
Già, perché oggi tutto è stato dimenticato: sembra che il mondo sia nato venti o trent’anni fa. E quindi noi, non giovani – diciamo pure vecchi, non è una parolaccia – ricordiamo le nostre esperienze, che dai più giovani non vengono considerate.
Correva voce che la civilissima Svizzera pensava di non accogliere e curare nello stesso modo giovani (quali?) e anziani, ritenendo che fosse meglio far morire un vecchio, e non trascurare invece chi fosse “produttivo”. Qualcuno anche da noi accennava al non ricovero in terapia intensiva di persone over 60.
Per cui anche il nostro presidente della Repubblica, al bisogno, dovrebbe rintanarsi in una stanza ed eventualmente… sperare.
Non penso – anche se dovrei – alla ricchezza di esperienze che una persona non giovane potrebbe dare a ventenni; sarei tacciata di incoscienza, di ignoranza e ovviamente di ricordi… preistorici.
Leggevo l’opinione lucida e civile di Giuseppe De Rita che a 88 anni continua a lavorare; ritenendo che – indipendentemente da piccoli malanni fisici – importante è il lavoro mentale che non soltanto può essere utile, ma che è necessario per tutti.
Non penso tuttavia all’utilità, ma alla vita: siamo tutti persone, giovani o non giovani, uomini o donne, bianchi o neri. E tutti abbiamo lo stesso diritto: vivere ed essere curati nel migliore dei modi.
Immagino che queste mie opinioni potrebbero provocare una marea di critiche, ma – e lo dico fortemente – così penso, anche a fronte di chi minimizza il contagio o di chi considera i vecchi materiale di scarto.

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