#elezioniUSA2020. Strada impervia per la “rivoluzione” democratica

La tregua in casa dem tra centristi e progressisti potrebbe durare poco. I risultati nelle assemblee legisaltive statali complicano le elezioni di Midterm del 2022. Mentre le regole del Senato potrebbe spingere Biden all'accordo con i repubblicani.
MARCO MICHIELI
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Biden non è ancora arrivato alla Casa Bianca ma la battaglia tra le varie anime del Partito democratico sembra essere già cominciata. Da una parte i moderati, dall’altra i progressisti del partito che si preparano a una difficile convivenza. Sono i risultati delle elezioni della Camera e del Senato a scatenare le polemiche. La stampa americana parla di una riunione video tumultuosa tra i deputati democratici con attacchi dall’ala moderata a quella progressista. E viceversa.

Se per molti la ragione delle scarse performance dei dem in molte aree dipende dall’estrema polarizzazione politica dettata dalla presenza nelle schede elettorali del nome di Trump, si nota subito che in realtà c’è una divisione geografica netta. Le aree repubblicane, dove i democratici devono strappare seggi per continuare a mantenere la maggioranza, e quelle liberal, più che sicure e la spina dorsale dei numeri dem alla Camera ma non sufficienti.

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Uno degli attacchi più duri sembra essere venuto dalla deputata Abigail Spanberger, rieletta per il rotto della cuffia in un distretto conservatore della Virginia. La deputata ha criticato ad esempio il supporto progressista al movimento per togliere i finanziamenti alla polizia.

Non dobbiamo più utilizzare la parola socialista o socialismo, mai più. Se questi sono i risultati, aspettiamoci di peggio nel 2022,

ha dichiarato la deputata democratica. Altri, come Cheri Bustos, anch’essa rieletta con qualche difficoltà in Illinois, hanno criticato lo scarso impegno del partito per contrastare le pubblicità negative che in molti stati difficili per i democratici li dipingevano come “socialisti spendaccioni”. 

Uno dei punti di scontro è stato per esempio il Texas dove i democratici avevano guadagnato molte contee alle elezioni di Midterm nel 2018 e pensavano di aumentare il proprio vantaggio. Pur avendole rivinte in molti casi è però accaduto con un margine minore rispetto al 2018: in ventotto contee del Texas meridionale e vicine al confine Biden ha vinto con 17 punti di distacco, poco più della metà (il 33%) ottenuto da Hillary Clinton nel 2016. Trump ha vinto la contea di Zapata con cinque punti di distacco da Biden, una contea che Clinton aveva vinto con 33 punti in più di Trump e Obama con 43 punti in più di Romney. Anche dove i dem hanno vinto, come nella contea di Maverick County, Biden l’ha fatto con 9 punti di differenza, quando Clinton l’aveva vinta con 56 punti di differenza.

Anche i candidati alla Camera sono andati peggio del previsto in Texas. Come Gina Ortiz sconfitta da un repubblicano in una gara considerata la più scontata dal punto di vista elettorale. O come Vicente Gonzalez che, se pure rieletto, ha rischiato di perdere con tre punti di differenza, quando nel 2018 aveva vinto con 21 punti di distacco. Molti pensano che sia l’effetto Trump sulle candidature repubblicane. Ma molti si chiedono se il messaggio democratico più tradizionalmente “liberal” possa essere utile in un’area di tendenza democratica, ma non un bastione del progressismo.

Certo i democratici continueranno a mantenere il controllo della Camera ma con una maggioranza più ristretta. E se alcune erano perdite previste altre hanno lasciato l’amaro in bocca. Come in Florida dove sono stati persi due seggi dati per sicuri. Oppure in seggi incerti dove i deputati uscenti avevano saputo dimostrare il loro valore, dal South Carolina al New Mexico, dall’Oklahoma all’Iowa, al Minnesota. E se al momento i democratici possono contare ancora su 216 seggi contro 198 repubblicani (la maggioranza è 218), mancano poco più di dieci seggi da assegnare. Ma è anche grazie ai circa quaranta seggi riconfermati in aree prevalentemente conservatrici.

L’ha raccontato anche il deputato del South Carolina James E. Clyburn, il kingmaker della vittoria di Biden alle primarie dello stato che assicurarono all’allora candidato presidente un vastissimo supporto degli african-american e il successivo ritiro dei competitor moderati. Per Clyburn il partito doveva “andare oltre l’inclinazione dell’elettorato per i problemi razziali e doveva rifuggire da certe politiche di estrema sinistra che alienano segmenti chiave di elettori”: scelte che secondo il deputato sono costate ai democratici la possibilità di vincere un paio di seggi al senato statale.

“Quei seggi ci avrebbero offerto l’opportunità di cambiare le dinamiche del senato dello stato ma per farlo dobbiamo vincerli”, scoraggiando poi da correre ancora sugli slogan di “Medicare for all” o “defunding the police”. 

Il deputato del Texas Marc Veasey ha invece dichiarato che il discorso pubblico democratico contro il fracking ha alienato molti elettori in Texas, perché in molti casi al divieto di fracking è legata la perdita del proprio lavoro.

Qualche problema c’è stato anche nello stato più liberal di New York, però. Dove i repubblicani hanno usato il sindaco di New York City Bill de Blasio e la deputata Alexandria Ocasio-Cortez per spaventare e mettere in difficoltà i democratici più vulnerabili nelle gare statali.

La deputata Abigail Spanberger è stata una delle più dure critiche dell’ala progressista

Sono proprio le competizioni per le legislature statali che in alcuni casi sono andate proprio male. I democratici non sono riusciti a scalzare dalle camere statali le maggioranze repubblicane. Le uniche assemblee a cambaire colore sono passate dai democratici ai repubblicani in Montana e New Hampshire. In questo modo i democratici si trovano completamente bloccati dalla possibilità di ridisegnare i confini elettorali in molti stati – tra i quali Texas, North Carolina e Florida, che assieme fanno 83 seggi congressuali per il 2022 –, procedura che comincerà il prossimo anno.

E i timori di gerrymandering – il metodo con cui la classe politica si sceglie gli elettori – aumentano. Tanto che molti repubblicani esultano perché il risultato a livello delle legislature dei singoli stati è addirittura migliore della grande vittoria del 2010, quando i repubblicani riuscirono a strappare 22 assemblee legislative statali, dando il via a una delle maggior operazioni di ridefinizione dei confini delle circoscrizioni elettorali congressuali.

I progressisti però non si sono fatti mettere all’angolo e hanno attaccato i centristi, sostenendo che lo spostamento a sinistra di Biden ha mobilitato i sostenitori chiave del partito. La deputata Pramila Jayapal, la leader del Progressive Caucus che riunisce i deputati dell’ala sinistra del partito, ha dichiarato che l’affluenza della base progressista del partito è stata cruciale per la vittoria. La deputata Alexandria Ocasio-Cortez ha anch’essa criticato via Twitter il tentativo di indicare nei progressisti i responsabili degli scarsi risultati del partito.

Secondo la star della sinistra democratica è stata la mancanza di una vera strategia digitale e l’impossibilità di condurre campagna porta a porta che hanno fatto perdere alcuni seggi. Ocasio-Cortez ha dichiarato inoltre che ignorare la base progressista significa ignorare gli elettori giovani e la base africano-americana e latina del partito:

Non potete dire a giovani, neri e latini di intervenire per salvarvi a ogni elezione e poi di ritornarsene tranquilli a casa o di non avere dei loro rappresentanti di fiducia. Chiedetevi perché non si fanno vedere durante le elezioni di Midterm, quando sono criticate per il fatto stesso di esistere. Soprattutto quando invece sono loro a portare alle vittorie.

Qualche voce contraria esiste anche nell’ambito progressista. Come Jarde Huffman, un deputato californiano, che ritiene che l’etichetta “socialista” non abbia esercitato grande appeal in alcune parti del paese.

È vero anche che i progressisti sono riusciti a difendere alcuni seggi alla camera in aree prima repubblicane. Come Katie Porter che è stata rieletta nel quarantacinquesimo distretto della California, che aveva strappato ai repubblicani nel 2018. O Mike Levin nel quarantonevesimo discreto della California, vinto ai repubblicani nel 2018 e ripreso quest’anno. La lista è lunga: da Jared Golden in Maine a Ann Kirkpatrick in Arizona, da Josh Harder in California a Susan Wild e Matt Cartwright in Pennsylvania, a Tom Malinowski in New Jersey. Tutte aree repubblicane dove membri del Progressive Caucus sono riusciti a vincere nuovamente.

La deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez

Un rebus difficile da risolvere quello delle relazioni tra centristi e progressisti del partito. Un rebus che Biden si troverà a dover gestire da subito. Perché la tregua tra i due gruppi si è fondata sulla definizione di un programma tra i più a sinistra degli ultimi anni, scritto grazie a un accordo tra la squadra di Bernie Sanders, il senatore e “leader” dell’area, e la squadra di Biden.

Un accordo programmatico che prevede ovviamente anche posti nell’amministrazione: Sanders vorrebbe essere segretario al lavoro, Elizabeth Warren al tesoro. E qui potrebbero cominciare i guai. Perché se i democratici non dovessero avere la maggioranza al Senato, in attesa della Georgia, Biden potrebbe vedersi cassare più di qualche nome da parte dei repubblicani. Per obbligarlo a scegliere nomi più moderati. Una mossa che potrebbe scatenare la guerra in casa democratica.

Ma anche il presidente Biden dovesse passare indenne questa prova, la realizzazione dell’ambizioso programma dem potrebbe essere molto ardua. Il Senato infatti funziona come se avesse una super-maggioranza di sessanta senatori per approvare la legislazione: il numero che serve per chiudere un dibattito ed evitare l’ostruzionismo. Senza sessanta senatori le scelte sono poche e più radicali. La strada che molti progressisti sognano di fronte a un Senato tenuto in ostaggio dai repubblicani guidato da Mitch McConnell è quella che in gergo chiamano “l’opzione nucleare”. Utilizzare il regolamento del Senato per votare su una materia con una maggioranza semplice.

Ma, appunto come dice il nomignolo con cui viene chiamata, si tratta di una strategia poco usata perché crea dei precedenti in un’assemblea legislativa come il Senato dove la tradizione dei precedenti conta molto. I dem vi ricorsero con Obama quando il presidente cercava di far passare delle nomine giudiziarie e nelle agenzie federali (che da allora avvengono a maggioranza semplice). I repubblicani replicarono qualche anno dopo utilizzandolo per la nomina dei giudici della Corte Suprema. Finché si è al potere può funzionare ma poi diventa difficile da giustificare una volta all’opposizione.

I dem progressisti vorrebbero ricorrervi – anche attraverso una difficile modifica della regola sull’ostruzionismo – per far passare riforme rilevanti come il riconoscimento della statualità a Washington Dc (e magari Porto Rico) o per l’allargamento della Corte Suprema a nuovi giudici per contrastare il sei a tre dei conservatori. Biden però potrebbe scegliere un’altra strada. E questo sembra emergere anche dal discorso di ieri sera. La ricerca della cooperazione e del dialogo con i repubblicani o una parte di essi. Un dialogo che potrebbe ridurre le ambizioni dei dem sui piani per lottare contro il cambiamento climatico (che prevedono atti legislativi).

Una cooperazione che, per non infastidire almeno la base progressista del partito, potrebbe essere accompagnata da interventi del presidente per cambiare alcune scelte di deregulation del presidente Trump e che non necessitano delle camere. Come il ritorno all’accordo di Parigi sul clima, già annunciato. Potrebbe decidere anche di togliere il divieto di viaggio per alcuni paesi musulmani. Misure che hanno marcato la presidenza Trump e che potrebbero avere un certo valore. Operazioni maquillage che potrebbero non nel lungo tempo non convincere né elettori progressisti, che si attendono grossi cambiamenti, né la classe politica progressista. E nel 2022 si vota di nuovo per il rinnovo della Camera e di un terzo del Senato, elezioni che di solito non premiano il presidente in carica.

Come Biden riuscirà a gestire la situazione lo vedremo nelle prossime settimane. Vedremo se la fama di unificatore e di negoziatore gli assicurerà una presidenza efficace. Un’eredità non da poco per chi gli succederà.

Joe Biden e il leader repubblicano al Senato Mitch McConell
#elezioniUSA2020. Strada impervia per la “rivoluzione” democratica ultima modifica: 2020-11-08T20:49:28+01:00 da MARCO MICHIELI
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