Non si vive di solo Rocco Schiavone, deve essersi detto Antonio Manzini, che pure molto deve a quel suo ispido, burbero e naturalmente giusto vicequestore trasteverino di stanza per punizione ad Aosta, specie dopo il suo approdo sul piccolo schermo con le sembianze di Marco Giallini. Ma che Manzini sia scrittore di vaglia, ben oltre le fortune seriali di un formidabile alter ego, non lo scopriamo adesso. E Gli ultimi giorni di quiete, in libreria con Sellerio e immediatamente in testa alle classifiche di gradimento dei lettori, non fa che confermare l’assunto.
Ultimi giorni di quiete: si fa per dire. Ed è, a ben vedere, l’unico accento ironico di un romanzo viceversa cupo e angosciante, che scava nelle coscienze dei personaggi operando di riflesso sulla nostra stessa coscienza, chiamandoci a “patire” insieme a loro. Si chiama per l’appunto “compassione” ma di compassionevole, nell’accezione benevola della vulgata, ha ben poco. L’immersione, piuttosto, nei gorghi di un dolore lancinante, che ti logora sino all’ammattimento.
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Vediamo di capirci senza scoprire troppo le carte. Di ritorno a Pescara sul locale da Ancona, dove è stata da certi parenti, Nora crede di scorgere in un vicino di carrozza l’uomo che sei anni prima aveva messo fine in modo cruento all’esistenza del figlio Corrado, una banale ma micidiale rapina alla tabaccheria del marito Pasquale, che in quel frangente aveva lasciato il negozio al figlio, poco più che ventenne. È lui o non è lui? Certo che potrebbe essere lui, ma come è possibile che sia già fuori di galera così presto? L’uomo scende a Roseto, Nora lo segue ma poi lo perde di vista. Non importa, mica siamo a New York, prima o poi lo becco. Per fare che? Forse non ne ha la minima idea, al momento, ma intanto vediamo di rintracciarlo. Soggettivizzo di proposito perché è esattamente in questa chiave che il romanzo si offre al lettore, chiamandolo a convivere la ricerca e le riflessioni che nel frattempo vanno accompagnandosi al suo compiersi.

La ricerca di Nora, che tornata a casa ne parla con il marito Pasquale, e le reazioni di quest’ultimo, già propenso di suo a mollare tutto. La vita, beninteso. Fra loro non è più come un tempo. Convivenza per inerzia, senza più tenerezza, senza futuro. La morte di Corrado li ha segnati. Entrambi covano il risentimento, che fa presto a divenire rabbia quando scoprono che sì, l’omicida, Paolo Dainese, se l’è cavata con pochi anni di galera, libero di rifarsi un vita, mentre a Corrado la vita non gliela restituirà più nessuno. E nessuno potrà restituire a loro Corrado. Sarebbe giustizia questa? Inutile dire che, in simili casi, la rabbia rischia di farsi violenza. Anche se Nora e Pasquale mica sono dei giustizieri all’americana.
Una volta braccato, anche Paolo, l’omicida, entra da soggetto nella partita. Lui che ha cambiato vita, che vorrebbe magari un figlio da Donata, la parrucchiera con cui ha messo su casa, che sgobba dalla mattina alla sera in un’officina, unto di grasso e olio. Un po’ tutti sanno che è stato in galera, ma quasi nessuno dell’omicidio, di ciò che è accaduto davvero quella mattina in tabaccheria. Pentito? Forse, ma a modo suo, vorrebbe che quel passato fosse messo da parte una volta per tutte. E, d’altronde, se l’hanno rimesso in libertà dopo pochi anni di carcere mica sarà colpa sua…
Il romanzo è nell’alternarsi dei ruoli e delle parti. Un delitto senza (troppo) castigo a fronte di un lutto mai elaborato e di un pentimento mai completamente sincero. E ad un certo punto la morsa si stringe, il bisogno di giustizia si fa lucido progetto, la vendetta più scontata esce di scena mentre la capacità di resistenza ad una ben più estenuante persecuzione rinnova istinti bestiali mai sopiti. E se Pasquale, il padre, scivolando clamorosamente su una buccia di disumanità nei riguardi di un nipote ritardato, coetaneo del figlio, trova la forza di rialzarsi, Nora andrà fino in fondo, perseguendo il destino che si è assegnata. Senza giustizia, anche la pietà ha fatto una brutta fine e il perdono non è più di questo mondo.
Dostoevskij, naturalmente, e anche un certo Simenon, in quella provincia abruzzese così paciosa e così straniera. Scomodiamo certi classici della “colpa” perché Gli ultimi giorni di quiete merita un’attenzione tutt’altro che frettolosa, che in epoca di populismi e giustizialismi pronti per l’uso e spettacolarmente spesso esibiti, almeno sino all’avvento dell’odierna pandemia, costringe a interrogarsi assai più in profondità. E tu, lettore, che faresti? Si sa che Manzini ha trovato ispirazione in uno di quei casi di “nera” che occupano tutt’al più qualche pagina nelle cronache locali dei giornali di provincia. Se vanno oltre quella soglia è perché qualcuno ne approfitta per ideologizzare. Non è ovviamente il caso suo. Se romanza il fatto di cronaca è per scrutare ciò che gli sta dietro e che quasi mai viene alla luce. Chiamiamoli sentimenti, merce rara, specie fra le pagine dei libri di successo. Mentre questo, inusualmente bello per i parametri delle nostre contrade e dei generi annessi, ne fa un uso accorto e autenticamente empatico. Tanto che al lettore par di sentire quel che loro sentono.


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