Covid. Quando un “ma” dice tutto

La pandemia ha cambiato le nostre esistenze e le nostre abitudini. “Prima la salute ma” è diventato uno slogan politico che segna un confine netto, che separa. Un “ma”, figlio dei dilemmi, dei dissidi alla base di una società sempre più polarizzata e di una classe dirigente sempre più smarrita.
CRISTINA VALENTINI
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È passato un anno da quando il Covid-19 ha iniziato a manifestarsi. Nel giro di qualche settimana è diventato notizia: l’Occidente benestante l’ha guardato in televisione, o sui social, pensando altezzosamente che fosse impossibile finire come quella gente chiusa in casa in Cina, a urlare dai palazzoni “Wuhàn jia yóu”. Ma è bastato aspettare ancora un po’ per scoprire che nulla, nel mondo globalizzato di oggi, rimane confinato a lungo.

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Scenari fantascientifici prefigurati in film o libri si sono avverati e ancora adesso navighiamo a vista, sommersi da dati inquietanti e subendo misure di contenimento che mai avremmo pensato di veder introdotte, in piena democrazia.

Complice una comunicazione eccessiva, martellante e, il più delle volte, non corretta, e in assenza – quasi totale – di un’informazione seria e comprovata, nei mesi scorsi illusioni e false speranze hanno catturato l’immaginario delle persone. La gente non ha voluto credere che il covid rimanesse, sebbene lo vedesse dilagare, e, appena ha potuto, ha ricominciato a far finta di niente: ha festeggiato, folleggiato, viaggiato, banchettato senza limiti.

Soprattutto, non appena ha potuto, ha ricominciato esattamente dal punto in cui era stata interrotta, in una ricerca cieca, utopica, di un mondo sempre uguale a se stesso. I morti, gli ammalati gravi, i guariti con strascichi più o meno importanti, il personale sanitario allo sfinimento non hanno più contato nulla. E continuano a non contar nulla.

La paura di dover affrontare il cambiamento è troppo forte. Lo dimostrano i tafferugli, le proteste e i comizi negazionisti, da cui emerge solo che se non si muore di covid, si muore di fame, se le attività chiudono: quindi meglio convivere col virus (possibilmente “sperando che colpisca gli altri e non me o i miei”) e sia quel che sia. Il messaggio delle destre, dei liberisti estremi o dei movimenti populisti è “prima la salute, ma”.

In quel semplice “ma” sono contenute tutte le contraddizioni dell’oggi: i dilemmi, i dissidi alla base di una società sempre più polarizzata e di una classe dirigente sempre più smarrita. È il ma che contrappone chi è stato – o chi è – colpito dal virus da chi no, è il ma che segna una linea di demarcazione netta tra i bisogni degli anziani a quelli dei giovani, è il ma che mescola in modo contraddittorio diritti e doveri del singolo e della collettività.

Il punto è che il sistema economico che sostiene il mondo non prevede correttivi, strumenti per far fronte a una simile crisi, anzi. I presupposti su cui si regge e che lo rendono, ormai, una matassa apparentemente inestricabile, sono sovra-produzione, sovra-sfruttamento delle risorse, sovra-popolamento, crescente iniquità sociale dovuta al differente grado di possesso di beni, dipendenza dal consumo, dissoluzione dei valori e delle certezze tradizionali. La pandemia si è semplicemente aggiunta, come si sono aggiunti, in modo inquietante, segni sempre più tangibili e catastrofici del cambiamento climatico. C’è allora chi dice che servono soluzioni radicali e chi invece le rifiuta e, mentre si scontrano questi fronti contrapposti, tutt’altro che coerenti, il tempo passa: il covid continua a mietere vittime e la natura continua a dare pensanti segnali di insofferenza.

Disinnescare questo ordigno appare molto più complicato che “scegliere di non schiacciare il bottone”: la minaccia nucleare con cui abbiamo convissuto dal secondo Dopoguerra in poi era una questione primariamente politica, questa invece è politica, economica, culturale, sociale e ambientale insieme.

La soluzione non dipende più necessariamente da una sola decisione, perché non c’è una via percorribile nettamente distinta da quella da non percorrere: ci sono troppi fronti aperti e interconnessi. Eppure da qualche parte bisogna pur iniziare. Farsi sopraffare dal senso di inadeguatezza non è la soluzione, anzi è forse l’unica a non dover essere scelta.

Non si può cedere a violenza ed estremismo, ma non si possono nemmeno ignorare i motivi che li sottendono. L’unica via sembra essere quella di adottare un approccio composito, multi-livello, che segni una nuova rotta a lungo termine, con obiettivi precisi e inderogabili (la sopravvivenza del Pianeta); che individui le strade da percorrere per raggiungerli e le tappe intermedie; infine che trovi soluzioni immediate per rispondere a bisogni puntuali.

In attesa che i governi prendano decisioni epocali, le persone devono poter sopravvivere e hanno il diritto di essere messe nelle condizioni di farlo. Dar loro risposte rapide e praticabili, compatibili con le restrizioni della pandemia è un’impresa enorme: servono creatività e flessibilità.

Queste non credo che manchino, soprattutto tra i più giovani: basterebbe farle emergere, dar loro credito. Ma servono anche deroghe a regole non più rispettabili, se si vuole evitare che sempre più persone escano dalla legalità, non perché vogliono, ma perché non riescono più a seguirne i dettami.

Covid. Quando un “ma” dice tutto ultima modifica: 2020-11-12T11:09:47+01:00 da CRISTINA VALENTINI
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