Mike Donilon è un veterano di campagne elettorali. Dal 1981 è al fianco del presidente eletto Joe Biden. Per lui ha elaborato la strategia politica per le primarie democratiche e per le elezioni presidenziali. È stato Donilon a suggerire la scelta dello slogan “The battle for the soul of the nation”, la battaglia per l’anima della nazione. Uno slogan che incarnava al meglio anche la strategia politica di Biden. Riconquistare una parte dell’elettorato bianco della working class – che aveva votato Trump nel 2016, consentendo al repubblicano di vincere Wisconsin, Michigan e Pennsylvania. Senza, tuttavia, perdere consensi tra le minoranze, in particolare gli africano-americani, la spina dorsale del Partito democratico e del successo di Biden.
A posteriori si può dire che la strategia ha funzionato. Biden ha vinto nei tre stati che avevano scelto Trump nel 2016. E ha aumentato i propri consensi tra i bianchi della “classe operaia”. Dal 23 del 2016 al 28 per cento del 2020 tra gli uomini e dal 34 al 36 per cento tra le donne. Molto poco ma come si è visto dai risultati della competizione elettorale anche un voto in più è stato determinante. Merito anche dello slogan? Difficile dirlo. Arizona e Georgia raccontano un’altra storia. Però nella complessità della battaglia elettorale Donilon e l’entourage del presidente eletto hanno pensato che:
[…] la battaglia elettorale fosse più centrata sui valori e il carattere, piuttosto che sulle singole questioni o sull’ideologia.
Una strategia che ha funzionato sin dalle primarie democratiche. Mentre l’avversario principale, Bernie Sanders, era molto netto e chiaro sulle proposte politiche, Biden ha cercato di porre al centro del dibattito una battaglia morale. Per Biden l’accordo tra democratici sulla politiche da seguire era certamente importante ma meno rilevante di un appello generale rivolto a tutti i cittadini americani. Come si è visto poi si è trattato di una competizione più difficile e più polarizzata di quanto forse tutti si immaginassero. Nella quale probabilmente la personalità di Biden – un politico di professione, non detestato come fu Hillary Clinton – ha giocato un ruolo decisivo nel persuadere alcune parti di elettorato chiave in stati decisivi.
Donilon come Biden ha radici irlandesi e condivide con il presidente eletto, il secondo cattolico a ricoprire la funzione dopo Kennedy, anche la fede religiosa. Entrambi provengono poi da un ambiente modesto e della periferia urbana (Biden dalla Pennsylvania e poi Delaware, Donilon dal Rhode Island). Una famiglia operaia e religiosa, impegnata politicamente con i sindacati, i Donilon sono profondamente legati al Partito democratico.
Se uno dei fratelli è il responsabile della comunicazione del cardinale di Boston, il francescano Sean O’Malley, il resto della famiglia ha esperienza nelle varie amministrazioni. Tom Donilon, il fratello più vecchio, è stato consigliere per la sicurezza nazionale di Obama; la moglie di Tom, Catherine Russell, è stata chief of staff di Jill Biden, la moglie del presidente eletto. Studente della Georgetown University, Donilon sarà invece avvocato. Anche se la sua professione diventerà in breve tempo quella dell’esperto di sondaggi per poi evolvere ancora. Sarà successivamente uno dei principali esperti di comunicazione di Biden per molti anni.
Mike Donilon è la figura principale del “gruppo dei sei”: l’ex chief of staff di Biden Steve Ricchetti, l’attuale chief of staff Ron Klain, la sorella Valerie Biden Owens, l’altro ex chief of staff di Biden Bruce Reed e Anita Dunn. Un gruppo che affianca Biden durante gli anni del Senato e della vicepresidenza. Con un’età media sessantadue anni. Cresciuti durante i tempi della presidenza Reagan, quando i democratici dovevano tenersi alla larga dai temi ideologicamente connotati. Un’esperienza fondamentale ma molto lontana da quello che nel tempo sono diventati il Partito democratico, sempre più liberal nella sua base elettorale, e gli Stati Uniti, sempre più polarizzati e meno dialoganti.
Ma è la presidenza Trump che aiuta in maniera fondamentale Biden e questo gruppo di persone, troppo legati al passato per alcuni, a ricoprire un ruolo centrale nella politica nazionale. Senza Trump, forse non avremmo oggi Biden presidente eletto. E questo Biden e i suoi l’hanno capito molto presto.
Biden, infatti, non comincia i preparativi per la campagna elettorale del 2020 qualche anno fa. Quando Trump è il principale candidato repubblicano alla presidenza, il vice di Obama capisce che qualcosa non funziona più. Capisce che i rischi di una presidenza Trump sono reali. Il democratico pensava che un appello all’unità nazionale e alla riconciliazione potessero vincere là dove Clinton rischiava di essere troppo divisiva. Quando, dopo la morte del figlio Beau, decide di non partecipare alle primarie democratiche, sfidando Clinton, la dichiarazione che rilascia, con Obama accanto, contiene già molti di quei temi che Biden riprenderà negli anni successivi:
Credo che dobbiamo porre fine alla politica partigiana divisiva che sta lacerando questo paese, e penso che possiamo riuscirci. È meschino, meschino, ed è andato avanti per troppo tempo. Non credo, come alcuni credono, che sia ingenuo parlare con i repubblicani. Non credo che dovremmo considerare i repubblicani come nostri nemici. Sono la nostra opposizione, non i nostri nemici.
Poi ci sono la vittoria di Trump e le conseguenze di quella vittoria. Per Biden è chiaro che la posta in gioco ora è ancora più alta.

Charlottesville, dove tutto è cominciato
È l’agosto del 2017 quando a Charlottesville, in Virginia, si tiene un raduno dell’estrema destra americana. Suprematisti bianchi, neonazisti, sostenitori del Ku Klux Klan e degli stati confederati marciano al grido di “White lives matter”, “Jews will not replace us” e “Blood and soil”. Nei giorni successivi manifestazioni di contro-protesta sono organizzate nella città, alle quali seguono scontri tra i due gruppi. Il 12 agosto, durante gli scontri, un suprematista bianco alla guida di una vettura si lancia contro i manifestanti antirazzisti, ferendo diciannove persone e uccidendo la trentaduenne Heather Heyer. In seguito alla morte di Heyer il presidente Trump rilascia tre dichiarazioni differenti, che evitano di condannare l’estrema destra e che culminano con il celebre “c’erano persone per bene in entrambi i gruppi”.
È difficile capire il percorso del nuovo presidente eletto Joe Biden se non si parte dal Charlottesville. Infatti, qualche giorno dopo, il 21 agosto, l’allora ex vice di Obama scrisse un articolo per The Atlantic dal titolo “Stiamo vivendo la battaglia per l’anima della nostra nazione”. Era la prima volta che Biden utilizzava quello che sarebbe diventato poi lo slogan della sua campagna elettorale. Scrisse allora Biden:
Se prima non era chiaro, è chiaro ora: stiamo vivendo una battaglia per l’anima di questa nazione. Pensavamo che i ciarlatani, i truffatori e i falsi profeti che hanno a lungo costellato la nostra storia non sarebbero ritornati, quelli che sostenevano ancora una volta che l’immigrato fosse la fonte di tutti i nostri mali e che cercavano di guadagnare dalla mancanza di speranza e dalla disperazione cresciute nelle città e nei paesi svuotate dell’Ohio, del Michigan e della Pennsylvania e nelle distese rurali a lungo dimenticate del West Virginia e del Kentucky? Abbiamo già combattuto questa battaglia in passato, ma oggi abbiamo una sfida speciale. Oggi abbiamo un presidente americano che ha proclamato pubblicamente un’equivalenza morale tra neonazisti e membri del Klan e coloro che si oppongono al loro veleno e al loro odio. Abbiamo un presidente americano che ha incoraggiato i suprematisti bianchi con messaggi di conforto e sostegno.
È un tema che ritornerà più volte successivamente negli interventi pubblici di Biden, anche prima della sua candidatura alle primarie democratiche. “La lotta per l’anima della nazione” diventa l’imperativo morale della lotta politica di Biden. Non è un caso che sia la figura politica durante il periodo delle primarie meno associata a specifiche proposte politiche, come Bernie Sanders, Elizabeth Warren e gli altri. Solo un’altra persona utilizza lo stesso slogan nei suoi discorsi: Kamala Harris, l’attuale vicepresidente eletta.
Come scrive David Corn su Mother Jones a proposito dello slogan:
È un tema così generale che copre varie critiche a Donald Trump: il suo comportamento personale rozzo e meschino, le sue politiche a beneficio degli americani ricchi e a scapito dei ceti medi e bassi, il calpestare sfacciatamente le norme democratiche, le sue azioni demagogiche e divisive, l’abbraccio di autocrati assassini. Tutto ciò che a un elettore potrebbe non piacere di Trump potrebbe finire nel contenitore “dell’anima” […] L’ex vicepresidente stava cercando di segnalare che stava perseguendo qualcosa di più grande. Stava sostenendo che la più grande minaccia del Trumpismo era la sua influenza corruttrice sui valori della nazione e che con la sua elezione avrebbe potuto ripulire il paese.
Biden dall’inizio imposta la campagna elettorale come una battaglia per far prevalere quest’imperativo morale:
La grandezza dell’America è che, non sempre all’inizio, e talvolta con enormi dolori e costi, abbiamo sempre raccolto la sfida di Lincoln di abbracciare “i lati migliori della nostra natura”. La nostra storia è la prova di ciò che ha detto King: il lungo arco della storia “si piega verso la giustizia”.
Biden utilizzerà lo slogan anche quando decide di candidarsi. Il video parte proprio dalle vicende e dalle immagini di Charlottesville e arriva alla risposta di Trump alle proteste violente dei soprabiti bianchi. E si conclude tra le immagini della statua della libertà, dello sbarco in Normandia e di Martin Luther King, con un invito a lottare per l’anima della nazione.
Il richiamo all’anima della nazione gli ha attirato critiche da sinistra, per la poco attenzione alle politiche e perché la nazione di cui parla è anche quella della schiavitù. Mentre da destra i repubblicani gli hanno contestato che l’anima della nazione non è stata perduta. Ne contestano il “corollario“ soprattutto. Per Biden infatti l’America è un’idea alla cui altezza il paese non ha saputo spesso vivere:
La formula “Noi riteniamo che queste verità sono per se stesse evidenti”. Non abbiamo mai vissuto all’altezza di essa. Ma non abbiamo mai cercato di allontanarci completamente da essa prima d’ora. Penso che dobbiamo essere onesti e far conoscere ai nostri bambini quello che è accaduto davvero in questo paese. Prendere atto degli errori per non commetterli ancora.
La storia americana per il presidente eletto è segnata da una serie di sfide e di punti di svolta nei quali il paese ha saputo far prevalere la parte migliore di se stesso, per vivere all’altezza degli ideali dei padri fondatori. “Noi resistiamo, superiamo le avversità e riusciamo sempre ad andare avanti”, diceva nel 2016 Biden alla platea della Convention democratica che avrebbe incoronato Hillary Clinton come la prima donna candidata.
Perché, secondo Biden, il paese è riuscito a sopravvivere nel tempo alle varie minacce, interne ed esterne, affrontandole e facendo prevalere i suoi lati migliori. Almeno il tempo necessario per preservare la nazione. E grazie anche allo sforzo di leader politici che in momenti decisivi hanno saputo fare appello all’anima profonda della nazione.

La storia in soccorso
Non è proprio e soltanto farina del sacco di Biden. Se Donilon ha suggerito l’utilizzo “the battle for the soul of the nation” come slogan elettorale legato ad una strategia politica, l’uomo che ha “forgiato” le idee – e i discorsi – di Biden in questi anni è uno scrittore e storico: Jon Meacham.
Meacham è l’autore di un fortunato libro – The Soul of America: The Battle for Our Better Angels – che ha ispirato Biden e che trae il titolo dal primo discorso inaugurale di Abraham Lincoln, tenuto quando già molti stati del sud avevano dichiarato la secessione dagli Stati Uniti:
Noi non siamo nemici, bensì amici. Non dobbiamo essere nemici. Sebbene la passione possa essere tesa, non deve rompere i nostri legami di affetto. Gli accordi mistici della memoria, che si estendono da ogni campo di battaglia e tomba patriottica ad ogni cuore vivente e pietra del focolare su tutta questa vasta terra, ancora gonfieranno il coro dell’Unione, quando ancora saranno toccati, come sicuramente lo saranno, dagli spiriti migliori della nostra natura.
Nel momento delle difficoltà, scrive Meacham, i grandi leader del paese hanno saputo fare progredire gli Stati Uniti, specialmente sui temi della libertà e dell’uguaglianza: da Lincoln a Martin Luther King Jr, da Theodore Roosevelt a Lyndon Johnson.
Senza nascondere gli episodi più bui della storia del paese, per Meacham una leadership creativa e determinata, specialmente alla Casa Bianca, è fondamentale per progredire. Trump non rappresenta pertanto un’eccezione ma fa parte della storia complessa del paese.
Una storia nella quale si alternano i “demoni”, che esistono nel paese e hanno radici profonde nella sua storia, e “gli spiriti migliori“ della natura del paese che interpretano lo spirito dei padri fondatori in maniera estesa per espandere la promessa di libertà contenuta nella Dichiarazione d’indipendenza.
Per ogni John C. Calhoun, Jefferson Davis, Andrew Johnson, Huey Long, Joseph McCarthy, Strom Thurmond, George Wallace ci sono stati degli Andrew Jackson, Lincoln, Ulysses Grant, Franklin Roosevelt, Dwight Eisenhower, Lyndon Johnson.
Anche coloro che hanno intepretato “lo spirito migliore del paese” non sono uomini perfetti (vedi Andrew Jackson o Ulysses Grant). Ma hanno saputo preservare il paese, nonostante le minacce di dissoluzione e di lacerazione.
Ecco che, per affrontare i “demoni” che Trump ha saputo intepretare al meglio, oggi c’è Biden.
Un messaggio che sembra aver funzionato. Che riesca poi nel suo intento è tutto da vedere.


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