Cina-Stati Uniti. La guerra social

Come gli estremisti del Tea Party negli Stati Uniti, anche i sostenitori di Xi Jinping sono riusciti a monopolizzare i social media, inondandoli di messaggi brevi, minacciosi e violenti, contro tutti gli avversari della “linea giusta”.
BENIAMINO NATALE
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Secondo alcuni analisti il problema degli Stati Uniti non è solo Donald Trump, ma tutto il gruppo dirigente del Partito repubblicano. Non sono un esperto della materia ma seguo costantemente diversi media americani e, in Italia, Francesco Costa (Il Post), Maria Laura Rodotà (Linkiesta), l’ex-corrispondente ed ex-direttore dell’Ansa Giampiero Gramaglia sul suo blog – oltre a Marco Michieli su ytali

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Come Costa ha spiegato bene in un recente podcast, gran parte degli attuali dirigenti del Grand Old Party (GOP, il Partito repubblicano) devono la loro posizione agli estremisti del Tea Party e di altri gruppi di suprematisti bianchi e razzisti vari, che negli ultimi due o tre decenni – grazie soprattutto a un accorto uso dei social media – hanno ottenuto un potere sproporzionato alla loro consistenza e alla loro credibilità. Per deputati e senatori repubblicani mettersi contro i troll trumpiani vuol dire rischiare le poltrone.

La presidenza di Donald Trump – oltre a essere stata una reazione all’elezione e alla rielezione del nero Barack Obama – è la massima espressione di questa inedita situazione. Azzardo a dire che una cosa analoga è successa in Cina a partire dal massacro di piazza Tiananmen, avvenuto il 4 giugno del 1989, dopo la lunga occupazione della piazza centrale di Pechino da parte di migliaia di studenti e cittadini – sicuramente confusi e sicuramente poco esperti di politica – che comunque rivendicavano la libertà e la democrazia dopo un decennio di crescita economica e di modernizzazione.

Fu allora che fu fatta, dall’allora leader incontrastato Deng Xiaoping e dal resto del gruppo dirigente, la scelta decisiva. Quel gruppo dirigente aveva con successo iniziato la modernizzazione del paese a partire dallo smantellamento delle Guardie rosse e più in generale della follia maoista e aveva cominciato con prudenza ad aprire spazi di libertà alla società civile e, nel campo dell’economia, al settore privato. 

Anche se ora i dirigenti comunisti cinesi si attribuiscono tutto il merito di quella importante svolta, essa fu possibile solo grazie alla collaborazione dei “capitalisti” americani, europei, giapponesi e taiwanesi. Di fronte a Tianamen, Deng decise per la soluzione di forza: nulla, né la modernizzazione, né la crescita economica né la vita e la libertà di migliaia di cittadini potevano avere la prevalenza sulla permanenza al potere del Partito comunista.

L’attuale gruppo dirigente del Partito comunista cinese deve la sua posizione a quella scelta. In gran parte è composto dai cosiddetti “principini”, cioè i rampolli dei capi rivoluzionari che portarono il Pcc al potere nel 1949. Uno di loro, Bo Xilai, ha avuto un ruolo particolarmente importante nel chiarire che da quella scelta non si può tornare indietro, pena la caduta di tutto il gruppo… proprio quello che, fatte le dovute differenze, sta succedendo al GOP statunitense. 

Il padre di Bo Xilai, Bo Yibo, era un “pragmatico” economista che cadde in disgrazia con Mao e raggiunse i vertici del potere collaborando con Deng. La brillante carriera del giovane Bo l’ha visto prima sindaco di Dalian – una dinamica città industriale nel nordest della Cina – poi governatore del Liaoning, sempre nel nordest. In questi posti, si fece una solida fama di pragmatico promotore del “business”, privato, statale e “amico” degli investitori stranieri. Poi, dal 2004 al 2007, fu ministro del commercio estero.

Foto simbolo delle protesta di piazza Tienanmen che si svolsero tra il 15 aprile e il 4 giugno del 1989 e culminate con l’intervento dell’esercito e il massacro di un numero non precisato di persone (centinaia ufficialmente, migliaia secondo la Croce rossa).

Nella mia veste di corrispondente dell’Ansa dalla Cina, coprii un incontro tra Bo e il suo omologo italiano, Claudio Scajola. Bo, alto, elegante in un vestito di ottimo taglio, piombò come un fulmine nella saletta dove noi giornalisti aspettavamo, pensando che – come al solito – qualche collaboratore dei ministri ci avrebbe fatto un briefing. Invece Bo disse, gesticolando, in un inglese perfetto: “friends of the press, come, come…” e ci fece entrare nella piccola sala dove si svolse l’incontro. Così assistemmo a un dialogo tra ministri che probabilmente avrebbe dovuto essere riservato. Forse Bo aveva alzato un po’ il gomito ma quando ebbe un battibecco con Scajola se lo mangiò in un boccone. 

In seguito fu nominato segretario del partito di Chongqing, l’enorme metropoli del sud della Cina, e decise di tentare la scalata al vertice, cioè al comitato permanente del Comitato centrale. In quell’occasione il dinamico, moderno, pragmatico Bo non trovò di meglio che rispolverare gli slogan delle Guardie rosse di Mao, usando nello stesso tempo la “lotta alla corruzione” come arma per colpire i suoi avversari. Forse per troppa sicurezza in se stesso, Bo tentò di forzare le regole interne al Partito per accedere direttamente al Comitato permanente. Fu fermato da una coalizione tra l’allora presidente Hu Jintato, il suo successore designato Xi Jinping e il “grande vecchio” Jiang Zemin, che tentennò fino all’ultimo prima di partecipare al contrattacco contro Bo e i suoi alleati che nel frattempo si erano installati in una serie di posti chiave. Valga per tutti l’esempio di Zhou Yongkang, che era diventato membro del Comitato permanente e responsabile della sicurezza interna (una posizione equivalente, per capirci, a quella di un nostro ministro dell’interno). 

Fu una battaglia dura, la cui storia dettagliata deve ancora essere scritta. Una parte decisiva l’ebbe lo scandalo di sua moglie Gu Kailai, che fu condannata all’ergastolo per l’omicidio del faccendiere britannico Neil Heywood, uno dei tanti avventurieri che stavano cercando di arricchirsi col miracolo economico cinese. Anche a Bo, accusato di “corruzione” e di aver cercato di coprire le malefatte della moglie, fu inflitta nel 2013 una condanna all’ergastolo, che sta scontando. Due anni più tardi la stessa sorte toccò al suo alleato Zhou Yongkang.

Bo era stato eliminato, ma la sua politica – rilancio del ruolo dello Stato, lotta alla “corruzione” come arma principale contro gli avversari politici, ritorno agli slogan egualitari e patriottici della Rivoluzione Culturale – è diventata quella di Xi Jinping e di tutto il gruppo dirigente, formato in gran parte da “principini”, comunisti di estrema sinistra i cui figli girano in sfavillanti Ferrari per le strade delle metropoli della Nuova Cina. 

Come gli estremisti dei Tea Party negli Stati Uniti, anche gli alfieri di questa nuova ideologia cinese sono riusciti a monopolizzare i social media, inondandoli di messaggi brevi, minacciosi e violenti, contro tutti gli avversari della “linea giusta”. I “principini” che dominano il Pcc oggi sono loro ostaggi, proprio come i dirigenti del Partito repubblicano degli Stati Uniti sono ostaggi degli estremisti trumpiani. In Cina, i poteri dittatoriali del Partito-Stato rendono un processo di questo tipo molto più facile da mettere in moto e da gestire. 

Sapere quello che succede dentro il Partito comunista cinese è estremamente difficile. Da quel poco che capisco, penso che al suo interno ci sia una forte resistenza al nuovo “pragmatismo rosso” di Xi. Però tutti si rendono conto che se rinunciano a quell’ideologia e ai suoi vocali sostenitori sui social media rischiano di rimetterci la carriera e la posizione – cose che quasi sempre in Cina vogliono dire lunghi anni di galera. Alla fine dei conti, mi pare che sarà notevolmente più facile per il Partito repubblicano sbarazzarsi degli estremisti che per i moderati del Pcc sfuggire al ricatto delle nuove Guardie rosse digitali di Xi Jinping. 

Bo Xilai in manette
Cina-Stati Uniti. La guerra social ultima modifica: 2020-11-17T11:13:35+01:00 da BENIAMINO NATALE
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