Il Collegio elettorale, il sistema di elezione del presidente degli Stati Uniti, deve essere abolito, riformato o lasciato com’è? In questi giorni in molti editoriali di quotidiani statunitensi si dibatte a favore o contro l’abolizione del sistema, come accadde già nel 2016. Il tema era stato anche oggetto di discussione durante le primarie democratiche quando Elizabeth Warren, Pete Buttigieg e Beto O’Rourke ne chiesero una riforma, finanche l’abolizione. Secondo un sondaggio del 2019 per Nbc e Wall Street Journal, una leggera maggioranza di americani è d’accordo per l’abolizione: circa il 53% contro il 43%.
Il Collegio elettorale è previsto dalla costituzione statunitense, anche se l’articolo due non specifica il metodo di assegnazione dei grandi elettori. I Padri Fondatori lo immaginarono come il sistema migliore per scegliere il presidente di una repubblica federale, in un’epoca in cui i termini democrazia e voto popolare assumevano agli occhi dell’élite politica del paese un carattere decisamente negativo. Si trattava però anche di un sistema che tutelava i diritti dei singoli stati, in particolare i più piccoli. E soprattutto gli stati schiavisti del Sud che grazie alla clausola dei tre quinti – uno schiavo contava come tre quinti di una persona libera, sia per la rappresentanza alla Camera, sia per l’imposizione fiscale – contavano elettoralmente e politicamente molto di più di quanto avrebbero dovuto.
Attualmente il sistema del Collegio elettorale prevede che per essere eletti presidente si debbano vincere almeno 270 dei 538 grandi elettori, un numero pari alla somma dei senatori (100) e dei deputati (435) che compongono il Congresso, a cui si aggiungono altri tre rappresentanti di Washington Dc. Il sistema elettorale che assegna i grandi elettori, il cui numero varia a seconda della popolazione degli stati, è di tipo maggioritario: chi ottiene anche un solo voto in più dell’avversario ottiene tutti i grandi elettori di quello stato (ad eccezione di Maine e Nebraska che hanno un altro sistema). Proprio per questa ragione può capitare che il risultato in termini di grandi elettori non corrisponda al numero reale di voti ottenuti dai candidati presidenti. Oppure, più raro, che il presidente eletto vinca il collegio elettorale ma non il voto popolare.
Nella storia del paese soltanto in quattro occasioni il risultato finale non ha rispecchiato il voto popolare: nel 1824, nel 1876, nel 1888, nel 2000 e nel 2016. Nel 1824 Andrew Jackson ottenne più voti di John Quincy Adams sia al Collegio elettorale sia in termini di voto popolare senza però ottenere la maggioranza del Collegio elettorale. La Camera dei rappresentanti fu quindi chiamata a decidere il vincitore e prevalse Adams. Nelle elezioni del 1876 il democratico Samuel Tilden vinse il voto popolare ma perse il collegio a favore del repubblicano Rutherford B. Hayes. Nel Sud, occupato dall’esercito federale, vi erano state numerose contestazioni e le operazione di voto erano avvenute in maniera non corretta. Fu ancora il Congresso a risolvere la questione, assegnando la presidenza a Hayes in cambio della rimozione delle truppe federali dal Sud, inviate dopo la guerra per mantenere l’ordine e proteggere gli elettori neri. Una vittoria per i repubblicani ma sopratutto per i democratici, ben radicati nel Sud, che poterono realizzare il sistema di segregazione per quasi un secolo. Nel 1888 Benjamin Harrison fu eletto presidente contro l’uscente democratico Grover Cleveland. Il presidente ottenne novantamila voti in più ma perse – e di molto – il Collegio elettorale, tra accuse di brogli elettorali. Cleveland poi sconfisse Harrison quattro anni più tardi. Gli altri due casi sono più recenti. Nel 2000 G.W. Bush vinse il Collegio elettorale ma perse il voto popolare contro Al Gore di quasi mezzo milione di voti. Infine nel 2016 Donald Trump è stato eletto presidente, nonostante Hillary Clinton avesse ottenuto tre milioni di voti in più a livello nazionale. C’è chi vi aggiunge anche l’elezione del 1960 tra John F. Kennedy e Richard Nixon, terminata a livello nazionale con uno scarto di più di centomila voti a favore del democratico (uno scarto, secondo alcuni, manipolato, non dalle accuse di brogli ma da manovre negli stati del Sud).
Sul tema nel tempo le posizioni dei repubblicani e dei democratici sono mutate a seconda della convenienza politica. Ma non è mutata moltissimo l’opinione pubblica. Almeno fino ai tempi recenti. Dal 1967 ai giorni nostri i sondaggi Gallup hanno indicato un sostegno dell’opinione pubblica all’abolizione del Collegio elettorale, anche se la dimensione della maggioranza è calata nel tempo. Nel 2016 per la prima volta meno della metà degli americani voleva abolire il Collegio. La ragione di questo mutamento originava dalla vittoria di Donald Trump: nei sondaggi i repubblicani infatti che sostenevano l’abolizione erano scesi drasticamente dal 54 per cento del 2011 al 19 per cento del 2016, mentre era salito il già ampio sostegno dei democratici alla misura. Improvvisamente il tema dell’abolizione del Collegio elettorale era diventato una questione di “partisanship”, di ideologia. Ma non è stato sempre così.
Anche se vi sono stati numerosi progetti di legge, anche recenti, la proposta che più si avvicinò all’abolizione del Collegio elettorale avvenne durante la presidenza di Richard Nixon. E con la benedizione del presidente repubblicano.

Le divisioni dei Democratici, il Collegio elettorale e diritti civili
Negli anni Sessanta il dibattito sulla riforma del Collegio elettorale era legato a quello della lotta per i diritti civili degli africano-americani. La storia del difficile percorso per la libertà e l’uguaglianza dei neri era infatti fortemente intrecciato a quello del Collegio elettorale. Nel 1963 per esempio alcuni senatori segregazionisti sostennero un piano che avrebbe liberato i grandi elettori del Sud dagli obblighi di voto risultati dalla competizione elettorale per votare chi pareva loro il candidato migliore (leggisi quello che non avrebbe interferito nel sistema di segregazione del Sud). Si trattava soltanto di una delle sette proposte oggetto di esame del Senato dell’epoca, molto variegate e che presentavano soluzioni diverse: dalla totale abolizione del Collegio elettorale all’abolizione dei grandi elettori, all’introduzione di una quota proporzionale nella ripartizione dei voti.
Che la questione fosse rilevante lo conferma anche l’intervento del presidente Johnson nel discorso sullo stato dell’Unione del 1965. In quell’occasione il presidente democratico promise una riforma del sistema che, tuttavia, puntava soprattutto a vincolare il voto dei grandi elettori a quello del voto popolare. Per Johnson infatti l’abolizione del Collegio elettorale non era sul tavolo delle riforme. Soprattutto per problemi interni al Partito democratico che era stato il partito degli schiavisti nel Diciannovesimo secolo e dei segregazionisti nel Ventesimo. Con la trasformazione progressiva dei democratici verso il sostegno ai diritti civili, il partito si era diviso. Negli anni Quaranta, una prima volta, tra il partito nazionale e quello dei Dixiecrats, i democratici segregazionisti del Sud. E poi durante gli anni Sessanta quando i sostenitori del segregazionismo ancora presenti nel partito e provenienti dal “Solido Sud”, come i democratici chiamavano il blocco elettorale segregazionista, e il partito nazionale si divisero sulla legislazione sui diritti civili.
Nonostante il promesso impegno di Johnson sul tema, travolto dalla guerra in Vietnam, alla vigilia delle elezioni del 1968, che videro contrapporsi Richard Nixon e Hubert Humphrey, il vice di Johnson, i sondaggi Harris indicavano che il 79 per cento degli intervistati era a favore dell’abolizione del Collegio elettorale (per Gallup era l’81 per cento).
A quelle elezioni presidenziali partecipò anche l’ex governatore democratico dell’Alabama George Wallace. Wallace – noto per aver detto “Segregazione ora, segregazione domani e segregazione per sempre” – si presentò come candidato dell’American Independent Party. In questa veste vinse cinque stati del sud e ottenne 46 grandi elettori. L’obiettivo dell’ex governatore non era ovviamente quello di vincere le elezioni ma, piuttosto, quello di impedire che Humphrey o Nixon ottenessero i 270 voti necessari per essere eletti. In quel caso, infatti, l’elezione sarebbe stata decisa dal Congresso, dove Wallace avrebbe potuto esercitare la propria influenza politica per chiedere la vice-presidenza oppure delle nomine nell’esecutivo presidenziale.
Le elezioni del 1968 si conclusero però con la vittoria di Richard Nixon che sconfisse Humphrey con 301 grandi elettori contro 191, nonostante il repubblicano avesse ricevuto soltanto 511.944 in più a livello nazionale (43.5 per cento contro il 42.9 per cento di Humphrey).
Anche se il politico segregazionista non riuscì quindi nel suo intento l’impatto e la paura di quest’eventualità, collegata alla disparità in termini di grandi elettori tra Nixon e Humphrey in relazione al voto popolare, spinse democratici e repubblicani ad elaborare una riforma del sistema. I democratici infatti pensavano di essere più avvantaggiati nel voto popolare mentre i repubblicani pensavano che fosse la buona occasione per insidiarsi nel Sud democratico.

Nixon riapre il dibattito sulla riforma del Collegio elettorale
Fu proprio il neoeletto presidente Nixon a prendere l’iniziativa. Il 20 febbraio del 1969 in un suo messaggio al Congresso sulla riforma del Collegio elettorale scrisse che “gli eventi del 1968 costituivano la prova lampante che la riforma del collegio elettorale dovesse essere tra le priorità”. Il repubblicano, che già durante le elezioni dell’anno precedente aveva sostenuto la necessità che il candidato che avesse vinto il voto popolare dovesse essere eletto presidente, era molto chiaro sul percorso da seguire. Il Congresso, per il presidente, doveva elaborare una proposta di riforma che potesse ottenere non solo il sostegno dei due terzi della Camera e del Senato ma anche dei tre quarti degli stati, numeri necessari per far passare un emendamento di modifica della costituzione. Il presidente nel messaggio indicava che, anche se nel passato aveva sostenuto piani di riforma in senso proporzionale, avrebbe appoggiato qualsiasi proposta di legge che:
[…] primo, abolisse i grandi elettori; secondo, assegnasse ai candidati presidenziali il voto elettorale di ogni Stato e del Distretto di Columbia nel modo più vicino al voto popolare rispetto al sistema attuale; terzo, rendesse sufficiente almeno il 40 per cento del voto popolare come soglia per scegliere il presidente.
Per Nixon, se i primi due candidati presidenti non avessero ottenuto almeno il 40 per cento dei voti avrebbero dovuto sottoporsi a un ballottaggio da tenersi nei dieci giorni successivi.
Alla proposta di Nixon rispose l’ex candidato democratico Humphrey che in un articolo sul Los Angeles Times scrisse:
Il Congresso e gli Stati hanno lasciato che questa situazione continuasse per troppo tempo. Le questioni di riforma elettorale sollevate nelle recenti elezioni devono essere risolte. L’elezione diretta del presidente darebbe a ogni cittadino americano un voto uguale – un principio fondamentale del nostro processo democratico.
Col supporto bipartisan la possibilità di ottenere i due terzi dei voti del Congresso e i tre quarti degli stati sembrava per la prima volta possibile.
Fu allora che un deputato democratico di New York, Emanuel Celler, presentò la risoluzione 681 che conteneva una proposta di emendamento costituzionale. Celler, uno storico anti-femminista, posizione che anni dopo gli costò la rielezione, presiedeva la commissione giustizia della Camera. Il democratico riprese quindi le idee delineate nel messaggio di Nixon: la coppia di candidati che avesse ricevuto il maggior numero di voti avrebbe vinto la presidenza e la vicepresidenza a condizione di ottenere almeno il 40 per cento del voto popolare nazionale. Se nessun ticket avesse ricevuto il 40 per cento, si sarebbe tenuto un ballottaggio in cui la scelta del presidente e del vicepresidente sarebbe stata fatta tra le due coppie di persone che avevano ricevuto il maggior numero di voti nella prima elezione.
Il 29 aprile la commissione presieduta da Cellar votò a favore della proposta con numeri schiaccianti: ventotto contro sei. Si aprì quindi il dibattito alla Camera che si concluse l’11 settembre. Una settimana dopo la proposta passava con 339 voti a favore contro 70. Il 30 settembre all’approvazione della Camera si aggiunse il sostegno pubblico del presidente Nixon che incoraggiò il Senato a votare a favore della proposta.
Nel frattempo, secondo il New York Times dell’epoca, almeno trenta stati sui trentotto necessari per far passare l’emendamento pensavano di approvare la proposta, se questa avesse ottenuto il sostegno anche del Senato. Sei altri stati avrebbero considerato la possibilità di votare a favore mentre quattordici si opponevano anche se con gradi diversi.

La battaglia (trasversale) al Senato
Al Senato la risoluzione di sostegno della proposta fu introdotta dal senatore democratico dell’Indiana Birch Bayh. Bayh è stato uno dei più importanti senatori democratici della storia recente. E uno dei più liberal, nonostante fosse originario dell’Indiana, uno stato non propriamente progressista. La commissione giustizia del Senato discusse la proposta tra le preoccupazioni di alcuni che il sistema federalista del paese potesse esserne danneggiato o che qualche cambiamento del sistema potesse avvantaggiare l’uno o l’altro partito. I contrari espressero il proprio punto di vista in una relazione. Vi si sosteneva che l’elezione diretta avrebbe distrutto il sistema bipartitico e ridotto il potere degli stati nella capacità di influenzare la politica nazionale. Soprattutto, secondo gli oppositori, l’elezione diretta avrebbe cambiato la natura della presidenza.
Il 14 agosto del 1970 la commissione giustizia però diede alla fine un parere favorevole all’emendamento con undici voti a favore e sei contrari. Tra i contrari vi erano tre democratici – James Eastland del Mississippi, John Little McClellan dell’Arkansas e Sam Ervin del North Carolina – e tre repubblicani – Roman Hruska del Nebraska, Hiram Fong delle Hawaii e Strom Thurmond del South Carolina -. Thurmond, il più importante dei sei, era il politico di riferimento del segregazionismo: candidatosi in rappresentanza dei democratici del Sud contro Truman nel 1948 passò nel 1964 tra le file repubblicane, in opposizione al Civil Right s Act del 1964 (è rimasto senatore per il suo stato fino al 2003).
Passato indenne il voto alla commissione, l’obiettivo di Bayh era di ottenere quei 67 voti necessari per evitare l’ostruzionismo e la fine della procedura legislativa. All’epoca infatti per porre fine alla minaccia dell’ostruzionismo erano necessari i due terzi dei voti dei senatori (oggi i tre quinti). Bayh telefonò quindi a Nixon per convincere i repubblicani incerti. Nixon appoggiò ancora la proposta di legge ma non promise alcun appello personale ai senatori repubblicani.
L’8 settembre si aprì quindi il dibattito al Senato dove la proposta fu presto oggetto di ostruzionismo. Al Senato infatti le regole del dibattito sono fondamentalmente libere e garantiscono un potere sostanziale ai singoli membri, alle coalizioni di minoranza e al partito di minoranza che possono compromettere la capacità di qualsiasi leader di maggioranza di controllare troppo strettamente il programma del Senato. In particolare se una minoranza è considerevole e disciplinata e detiene quarantuno voti, il numero di voti necessario oggi per aggirare qualsiasi mozioni di chiusura del dibattito, è in grado di bloccare qualsiasi legislazione. All’epoca per bloccare la legislazione erano necessari ancora meno voti: 34.
Tra gli oppositori vi erano prevalentemente senatori del Sud e conservatori – repubblicani e democratici – provenienti dai piccoli stati, che rischiavano di perdere tutta la loro influenza politica. Tra gli oppositori vi era anche Eugene McCarthy, senatore del Minnesota e soprattutto il principale esponente della sinistra dei Democratici, vicino ai sindacati e ai movimenti pacifisti. McCarthy con un collega scrisse una lettera a ciascuno dei novantotto senatori per annunciare la propria opposizione all’elezione diretta e a quello che avrebbe potuto essere “l’emendamento più radicale mai entrato nella costituzione”. Una posizione quella di McCarthy che creò scompiglio perché il senatore era stato uno dei sostenitori dell’emendamento e aveva successivamente cambiato idea.
Il 17 settembre fu quindi introdotta al Senato una prima mozione di chiusura del dibattito (e quindi dell’ostruzionismo), finita con 54 voti a favore contro 36, tra le numerose assenze, e pertanto non approvata poiché non aveva raggiunto il requisito dei due terzi dei voti. Tra i 36 che rifiutarono di porre fine al dibattito c’erano diciotto democratici e diciotto repubblicani. I senatori del Mississippi, Arkansas, North Carolina, Nebraska, Hawaii e South Carolina sostennero quello che già avevano detto in commissione giustizia: la riforma del collegio elettorale era complessa, si prestava a possibili scappatoie che avrebbero potuto produrre confusione, frodi elettorali, un sistema multipartito e la nazionalizzazione del processo elettorale. Quest’ultima una motivazione non da poco per gli stati del Sud che, seppure vincolati dal Civil Rights Act sulle procedure elettorali, utilizzavano altri sistemi – documenti d’identità, registrazione degli elettori – per continuare a limitare il diritto di voto degli africano-americani. Per gli stati piccoli invece il più esplicito era stato il senatore repubblicano del Nebraska Carl Curtis, vicino a Barry Goldwater e a Nixon e un sostenitore dei diritti civili, che spiegò di non essere disponibile a votare un emendamento che avrebbe notevolmente ridotto il potere politico del suo stato.
Nel frattempo Bayh pensava che tuttavia tra i dieci senatori assenti almeno sei fossero a favore della mozione di chiusura del dibattito, un numero però ancora molto lontano dai 67 voti necessari. Il senatore dell’Indiana si dichiarò pertanto aperto al compromesso con gli oppositori per conquistare quei senatori in più necessari a fermare l’ostruzionismo. Tra le promesse vi fu quella di consentire un dibattito più lungo. Bayh inoltre forse sperava in un intervento del presidente Nixon per convincere i repubblicani riluttanti. Il presidente però, pur non ritirando il proprio sostegno pubblico all’iniziativa, non spese ulteriore capitale politico nella battaglia parlamentare. In un anno erano cambiate già molte delle condizioni politiche che avevano favorito la procedura. Nixon infatti temeva che in vista delle elezioni presidenziali del 1972 non fosse una buona strategia inimicarsi troppo gli stati del Sud, danneggiando in maniera irreparabile la strategia repubblicana di sostituzione del democratici in queste aree. Secondo Gregory Cumming della biblioteca presidenziale di Richard Nixon, il presidente repubblicano divenne tiepido sul sostegno alla proposta perché Bayh nel 1969 aveva guidato l’opposizione alla nomina del giudice Clement Haynsworth alla Corte Suprema, terminata con il successo proprio di Bayh.

La vittoria dei piccoli stati e dei segregazionisti
Senza il sostegno di Nixon, la battaglia politica al Senato divenne sempre più intensa. Nel 2011 Bay ha ricordato che il senatore del South Carolina, Strom Thurmond, condusse una battaglia molto accesa. “Thurmond” dichiarò Bayh “era antisemita e razzista ma era anche profondamente contrario al voto popolare”. Il senatore del South Carolina contattò tutti i senatori dei piccoli stati così come i rappresentanti dei gruppi di pressione legati al mondo ebraico e african-american affinché quest’ultimo facessero pressione sui rispettivi senatori per impedire il passaggio di un emendamento che, diceva Thurmond, avrebbe ridotto la loro capacità d’influenza sulla macchina dei partiti politici.
Il 29 settembre fu presentata una seconda mozione di chiusura, anche questa non approvata (53 voti a favore contro 34). Il leader repubblicano del Senato, il senatore Mike Mansfield del Montana, decise quindi di accantonare temporaneamente la proposta per poter avanzare con gli affari correnti del Senato. Ma il “temporaneamente“ divenne definitivo con la fine del 91° Congresso. Infatti una proposta di legge deve cominciare e terminare nei due anni di legislatura congressuale, pena dover ricominciare tutta la procedura.
La vicenda dell’emendamento Celler-Bayh ci racconta della complessità della politica americana e della velocità di mutamento di posizioni politiche. Cinquant’anni fa il sostegno alla modifica del Collegio elettorale era bipartisan ma incontrò resistenza in entrambi i partiti, sulla base di varie motivazioni. Dal punto di vista dell’opinione pubblica l’eliminazione del Collegio elettorale ebbe però ancora molto supporto per tutti gli anni Settanta e Ottanta, con maggiore favore tra i democratici e un po’ meno tra i repubblicani. Ma, per quest’ultimi, sempre ben al di sopra del cinquanta per cento. Con gli anni Novanta si assistette ad una leggera divaricazione tra il supporto democratico e repubblicano all’abolizione, ma entrambi rimasero sopra il cinquanta per cento. Sono le elezioni del 2000, quelle di Bush contro Gore, che segnano un primo punto di svolta con un drastico calo di supporto tra i repubblicani e un conseguente discreto aumento di supporto tra i democratici. Poi il sostegno risale ancora tra i repubblicani e scende tra i democratici e prosegue in questo modo fino al 2016.
I dati raccolti da FiveThirthyEight indicano chiaramente che la discussione sulla riforma del Collegio elettorale è molto dipendente da chi vince o perde. Ovvero i perdenti tendono a trasformare la questione della riforma in una questione politica centrale. Ma si tratta soltanto di una posizione contingente. Un segno che ogni discussione sulla riforma è ormai oggetto di “partigianeria”: il Collegio elettorale è da abolire se danneggia il proprio schieramento, ma è da mantenere se lo avvantaggia. Il che rende molto difficile presentare la riforma del Collegio elettorale come una questione “non-partisan“, come fu fatto nel 1969.


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