Di norma i nostri editori si interessano agli autori dell’Est Europa ed ex Unione Sovietica solo se sono dissidenti o se scrivono opere di denuncia dei regimi comunisti. C’è però tutta una galassia di autori a noi sconosciuta ma di valore letterario non meno rilevante che è destinato a rimanere nell’oblio. Čyngyz Ajtmatov è uno di questi. Il suo nome non dice nulla a nessuno da noi. Invece dalle sue parti, il Kirghistan, è un monumento, e a ragione possiamo ritenerci molto fortunati se alcuni suoi romanzi sono stati tradotti, visto che chi lo conosce lo considera un grande della letteratura. Ora Marcos Y Marcos ha pubblicato un suo romanzo breve, Il primo maestro, in controtendenza ai gusti editoriali correnti, perché in qualche modo celebra degli aspetti positivi dell’epopea sovietica. Cioè la politica di istruzione di massa voluta da Mosca e la conseguente emancipazione dalla religione e dagli atavici usi contadini, nelle terre centroasiatiche.
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La chiave di Ajtmatov è sempre l’esplorazione del mondo adolescenziale, sulla traccia del suo capolavoro, Il battello bianco, sopraffina fiaba infantile che gli ha aperto la fama nel mondo, e con lui al suo mondo kirghiso, una terra di mezzo popolata dalle creature dei boschi del grande lago Issyk Kul e dall’immaginario della gente che lo abita. Ma qui l’obiettivo ideologico, anzi propagandistico, è molto più evidente.
Protagonista è una ragazzina a cui l’autore fa raccontare in un unico lungo flashback la sua incredibile battaglia contro il tradizionalismo per riuscire a frequentare la scuola e liberarsi dalle catene dell’ignoranza. C’è propaganda, certo: Ajtmatov è stato un esponente di primo piano della nomenclatura sovietica, diplomatico e addirittura ministro. Non lesina quindi la sua celebrazione e non nasconde la sua ammirazione per le conquiste del regime, soprattutto in quegli anni post rivoluzionari in cui la vicenda si svolge. Anni di grandi speranze e luminosi traguardi da raggiungere.

Il flashback raccontato da un’illustre accademica che ha ottenuto onori e carriera, è affidato a una lettera lasciata a un suo compaesano: la storia incredibile dell’infanzia al villaggio e di un uomo arrivato da Mosca che le ha cambiato la vita. A lui la donna deve la sua carriera e la sua fortuna, aprendogli la via dell’istruzione contro la miseria e l’oscurantismo della retrograda tradizione rurale, ancorata alle pratiche religiose e diffidente verso il nuovo e l’emancipazione delle menti.
Lui è il maestro elementare, arrivato in quelle terre remote e dimenticate dell’Asia centrale, per applicare le direttive della nuova società rivoluzionaria, che metteva al primo posto l’istruzione. C’è in tutto il lungo racconto di Ajtmatov la suggestione di quei luoghi in cui la natura ancora selvaggia e incontaminata condiziona ogni aspetto della vita e nello stesso tempo sembra coalizzarsi contro il cambiamento: l’inverno rigido e ventoso, le tempeste di neve, l’ululare dei lupi che obbligano la misera gente a rimanere isolata e chiusa in casa senza scambi sociali, sottoposta alle rigide leggi familiari.

E così sarebbe stato il destino anche della piccola Altynaji, la futura accademica, che come altri suoi coetanei era destinata a diventare una “tokol”, una seconda moglie. Questo volevano per lei la vecchia zia e lo zio, avversi ai propositi del maestro mandato dal partito per aprire la scuola, al punto di farla rapire. Simbolicamente, la parabola di Altynaij è rappresentata dai due pioppi gemelli che dominano la collina all’ingresso del villaggio, e che avevano un loro segreto. Erano stati piantati dal maestro, come simbolo della rinascita delle nuove generazioni che si sarebbero elevate verso un nuovo domani contro gli ostacoli posti dal destino e da chi voleva negare loro il futuro.
Ad ostacolarli sono anche i precetti dei mullah, in quelle terre kirghise, allora turkmene, sottoposte alla intransigente religione musulmana e dei suoi ministri che detenevano la trasmissione del sapere e dell’educazione. Al villaggio gli anziani non vogliono il nuovo maestro, non lo vogliono il vecchio zio e la zia di Alttynaij. A loro non interessa la scuola. Ma “io non sono un mullah, sono un komsomolec” cioè un organizzatore di giovani comunisti, dice il maestro. “E d’ora in poi ai bambini insegneranno non i mullah, ma i maestri”.
Anche ne Il battello bianco il piccolo eroe, oppresso da una famiglia tradizionalista e da uno zio tiranno, e che sogna di trasformarsi in un pesce di quell’immenso lago, cerca nella scuola la strada per il suo riscatto e la sua felicità. Ancora è l’istruzione che sta in cima ai pensieri dello Stato e di Ajtmatov, simbolicamente rappresentata anche in una cartella che il nonno guardiano delle foreste – dalla sua parte come il maestro di Altynaij – gli regala per il primo giorno di scuola.

La cartella non è un oggetto inanimato per il piccolo, diventa un interlocutore e un amico a cui confida le sue paure e le sue speranze. Ma il finale di questa favola sociale, diversamente da ll primo maestro, è amaro, ben lontano dalla fiducia assoluta del realismo letterario di regime sulle magnifiche sorti e progressive dell’umanità.
I deboli sono sopraffatti dai più forti, il bambino e il nonno buono soccombono ai malvagi. Un finale desolato ed eretico che fa di Ajtmatov un autore ancora più grande, fedele al sistema in cui crede, ma che non rinuncia alla sua originale e pessimistica visione del mondo.


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