La pandemia di coronavirus è un evento epocale, senza precedenti. Un’involuzione probabilmente irreversibile, che mina la fiducia nel progresso e nelle capacità dell’uomo. Il virus ha rivelato tutta la nostra fragilità, il nostro essere malati, ancora prima che la malattia insorgesse. Di fronte a questo scenario inedito, servono chiavi di lettura nuove, per dare un senso alla crescente complessità che abbiamo di fronte, ma anche per inventare o, perlomeno, anche solo iniziare a immaginare, forme di vita e di convivenza radicalmente diverse, fondate sul riconoscimento della nostra comune vulnerabilità. È quello che Mauro Ceruti e Francesco Bellusci cercano di fare nel loro nuovo libro Abitare la complessità: La sfida di un destino comune, edito da Mimesis.
Con Mauro Ceruti, professore ordinario di Logica e Filosofia della Scienza presso la IULM di Milano, ytali ha provato a indagare la natura profonda della pandemia.

Mauro Ceruti, “Abitare la complessità” è il titolo del suo nuovo libro, scritto con Francesco Bellusci. In primavera, di fronte alla complessità della crisi virale, la politica ha abdicato al suo ruolo. Nella maggior parte dei casi, s’è limitata a seguire la direzione indicata dalla comunità scientifica. Quando ha cercato di fare differentemente, si pensi a Stati Uniti o Gran Bretagna, ha fallito disastrosamente, incapace di elaborare un piano. Come spiega questo blackout della politica, questa incapacità di condurre, di esprimere una leadership all’altezza delle sfide che abbiamo davanti? È sintomo di una politica animata da un pensiero debole o addirittura, da una totale mancanza di pensiero?
Sì. La politica era in crisi e continua a esserlo. Tuttavia nella crisi ha ritrovato un ruolo e uno spazio che erano scomparsi. Nella mia lettura voglio valorizzare questa opportunità. Io non ho visto e non vedo tuttora profilarsi il rischio di una “dittatura sanitaria” o il rischio di una classe politica ostaggio di quella medica. A cosa abbiamo assistito con la cosiddetta prima ondata del contagio, in varie parti del mondo, ma soprattutto nei sistemi democratici più avanzati? Nel volgere di poche settimane, la politica ha mostrato una capacità di azione inedita rispetto ai vincoli dell’economia e alla logica dei mercati e anche rispetto alla possibilità di prendere iniziative per contrastare il contagio. La politica si è trovata in difficoltà, e tuttavia ha spesso saputo prendere decisioni autonome e responsabili, nell’incertezza della risposta della scienza di fronte a un fenomeno ignoto e dinanzi all’incerta efficacia delle terapie mediche. Chi ha abdicato al proprio ruolo, semmai, sono stati proprio gli esperti. Da decenni erano consapevoli della possibilità molto concreta di nuove ed estese pandemie, e non si sono trovati per nulla pronti di fronte all’incedere di un fenomeno a grandi linee prevedibili.
Abbiamo visto una politica capace di assumere decisioni nell’immediato sfavorevoli agli interessi economici, di ignorare lobby economiche, in nome della protezione della salute dei cittadini… Semmai, si è mostrata debole e grottesca la politica, ma diremmo meglio l’antipolitica, espressa inizialmente da demagoghi come Trump, Bolsonaro e Johnson, che, facendo leva su un mix di diffidenza populista nei confronti della scienza e di sovranismo liberista, hanno addirittura giustificato in senso malthusiano la decisione di astenersi da provvedimenti restrittivi e di lasciare libero corso al virus. Particolarmente negli Stati Uniti e in Brasile questo laissez-faire ha fatto sì che il virus andasse completamente fuori controllo.
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Non è ancora chiaro se e come questa ritrovata e inaspettata centralità possa riconfigurare la politica e definire nuove e più adeguate relazioni tra i cittadini e lo stato. Tuttavia, di colpo, appare anacronistico e tragicamente minimalista che essa continui a oscillare tra, da un lato, il ruolo di adattare passivamente le società “nazionali” alle presunte leggi del mercato planetario, alla competitività esasperata, alla riduzione unilaterale dei cittadini alla funzione di “spettatori e consumatori” e, dall’altro lato, il ruolo opportunista di limitarsi a gestire o a fomentare demagogicamente le sacche di risentimento sociale, che nascono dalle contraddizioni del presente. Insomma, a oscillare tra neoliberismo e sovranismo, tra individualismo e populismo.

La pandemia di coronavirus sta cambiando l’esistenza umana sotto molti aspetti. La paura del contagio, che domina i nostri gesti quotidiani, è accompagnata da un contagio delle teorie del complotto, che si diffondono a macchia d’olio nella popolazione e sfumano irrimediabilmente la percezione condivisa della realtà. Trovare la verità oggi è più difficile. Dirla è più difficile. Come scongiurare l’avvento di un’epoca della post-verità, la quale, per dirla tutta, aveva cominciato a fare capolino ben prima della pandemia?
Questi mesi stanno ponendo una nuova sfida: come trovare forme trasparenti di sintesi tra il “dialogo degli uomini con i fatti” (la scienza) e il “dialogo tra gli uomini sul giusto” (la politica). Anche l’opinione pubblica ha potuto constatare come pure la comunità degli scienziati si basi non solo su osservazioni e sperimentazioni, ma anche sul dibattito e sul confronto per arrivare alle sue conclusioni, peraltro sempre provvisorie e “falsificabili”. È l’occasione per rigenerare lo spazio pubblico e rimettere al centro i valori della dimostrazione, della prova o dell’argomentazione come obblighi morali per chi vi partecipa. Ma è ovvio che l’antidoto più efficace per delimitare le aree di influenza dei professionisti di fake news e degli “avvelenatori del pozzo” è, nella scuola e nelle università, la strategia educativa allo spirito interrogativo e all’attitudine alla problematizzazione. D’altra parte, la proliferazione di fake news è il lato oscuro di un tratto in sé positivo delle rivoluzioni tecnologiche dei nostri giorni. Oggi, chiunque ha accesso, praticamente in tempo reale, a un insieme inesauribile di informazioni e di notizie che in passato potevano essere rese disponibili solo lentamente, e il più delle volte ai soli specialisti. E per molti sono saltati i filtri e le mediazioni capaci di distinguere le fonti valide da quelle inattendibili o consapevolmente complottiste. Per questo il ruolo dell’educazione è ancora più importante: per far sì che, fino ad un certo punto, ognuno possa esercitare da se stesso quel ruolo di filtro e di mediazione che in passato era inevitabilmente delegato agli “esperti”.

In questa emergenza virale i social media hanno una parte molto importante, nell’informazione come nella disinformazione, o, peggio ancora, nel connubio tra le due. Come entrano nella nuova complessità?
I social media esaltano quella più spiccata proprietà di costruire ambienti complessi che il medium digitale possiede rispetto ai mass media tradizionali. Per esempio, l’interattività e la ricorsività sia nella comunicazione sia nella creazione di contenuti. Ma pensiamo anche al rinvio continuo del tutto alla parte, della parte al tutto, che la fruizione dell’ipertesto consente… Per il resto, come tutte le innovazioni moderne, recano con sé effetti ambivalenti, sia emancipanti sia alienanti. L’orizzontalità della rete è qualcosa di positivo e straordinario nella diffusione di uno spirito democratico, ma ovviamente accentua i pericoli di manipolazione, di distorsione, di inganno. E questo ci riporta al problema della fragilità dello spazio pubblico e della necessità di rigenerarlo continuamente, anche attraverso nuovi investimenti nella formazione che puntino di più sull’educazione dei futuri attori della comunità, affinché possano essere dotati di una visione globale, e non solo sull’istruzione e sull’addestramento di futuri lavoratori specializzati. Si può pensare anche di introdurre esplicitamente moduli di “new media literacy” negli ordinamenti della scuola, come sta accadendo già nel mondo anglosassone. Questo consentirà di vivere con meno inquietudine la piena integrazione dei social media nello spazio pubblico democratico.
Anche la politica è inevitabilmente toccata da queste dinamiche. Nel discorso pubblico e politico sempre più entrano nel lessico termini che fanno riferimento a sfere diverse e distinte da quelle della razionalità, che è considerato il piano principale, se non l’unico, su cui si svolge l’azione politica e su cui trovano elaborazione le teorie politiche. Termini come “pancia”, “sentimenti”, paese “profondo”, sono spesso impiegati per spiegare comportamenti sociali, politici elettorali, altrimenti inspiegabili. Come si possono assumere questi piani, più legati all’inconscio, all’irrazionale, e porli in relazione produttiva con i piani più legati alla razionalità o, comunque, alla visione della realtà così come è avvenuto nel Novecento?
È molto interessante la sua domanda. Tocca un punto che mi sta a cuore. Stiamo sempre più prendendo coscienza, anche alla luce delle tragedie storiche e politiche del passato, che, come dice Edgar Morin, Homo sapiens è anche demens. Ci stiamo rendendo conto della complessità della democrazia, di come la fragilità della democrazia dipenda dal legame complesso che essa instaura e implica tra la dimensione psichica e la dimensione politica. Per molto tempo, abbiamo avuto un concetto riduzionista della democrazia, ci siamo rassegnati all’immagine di una democrazia come il metodo migliore, in ogni caso, per regolare la competizione tra gruppi dirigenti, oppure ci siamo concentrati sui problemi istituzionali della democrazia come regime poliarchico (centralismo o federalismo, rapporto tra Stato e parti sociali ecc.).
Si tratta di ripartire anche dagli individui, e dalla valorizzazione del mondo degli individui nella loro dimensione di soggetti autonomi, plurali, guidati da passioni calde e ispirati da obiettivi parziali, e che tuttavia danno senso ai loro percorsi di vita. Il che significa, secondo il punto di vista “complesso”, andare al di là di risposte del tutto inadeguate come l’individualismo basato su un’idea di libertà dannosa per la società (ricordiamoci come Margaret Thatcher diceva che la società non esiste, ma solo gli individui) o la tendenza a far sì che il soggetto eserciti i suoi diritti politici solo nelle finestre ricorrenti, ma molto episodiche, degli eventi elettorali. Salute psichica degli individui e salute di una democrazia sono strettamente connesse e gli istituti democratici devono dare valore alle persone, alle loro scelte nel contempo autonome e interdipendenti, e favorire l’autostima e il rispetto reciproco tra le persone. In caso contrario, si lascia il campo libero al cinismo, alla paura, all’insoddisfazione: in una parola, alla palude anomica dove sguazzano i demagoghi.
Vorrei aggiungere una cosa. Le attuali configurazioni elettorali del mondo occidentale, in cui vi è l’apparenza di una prevalenza delle scelte “di pancia” rispetto alle scelte ponderate, sono in buona parte un riflesso dell’indebolimento della coesione degli stati nazionali nei confronti delle reti e dei processi globali. Negli elettorati nazionali vi è infatti una crescente polarizzazione tra, da una parte, le persone e i gruppi “aperti”, che vedono nelle relazioni globali grandi opportunità individuali e collettive, e, dall’altra, le persone e i gruppi “chiusi”, che ne percepiscono soprattutto i rischi e si ripiegano su nostalgie per un passato unilateralmente idealizzato, su narrazioni sovraniste alimentate dai demagoghi di turno. Le recenti elezioni nazionali negli Stati Uniti sono l’illustrazione più chiara, quasi paradigmatica, del fenomeno. Praticamente tutti i grandi nuclei urbani del paese, anche in stati dall’orientamento politico diverso, hanno votato Biden; praticamente tutte le contee rurali hanno votato Trump. Ma la polarizzazione è chiarissima anche in Europa: Londra, Parigi, Berlino, Vienna, Monaco di Baviera, Zurigo, Milano votano in maniera opposta a quella dei territori circostanti.

Di fronte alla situazione eccezionale, i governi si sono attribuiti poteri eccezionali, aumentando il controllo sulla popolazione, in una maniera che sarebbe stata difficilmente concepibile in tempi normali, di pace. A sconfiggere più rapidamente e in maniera più efficace il virus, sono stati quei paesi che hanno agito in maniera più autoritaria, restringendo maggiormente le libertà. Si pensi alla Cina. Cosa significa questo per i nostri sistemi democratici? La democrazia va ripensata? Come?
Poteri non trasparenti e non sottoposti al controllo e alla critica di un’informazione libera e di un’opinione pubblica attiva ed esigente si rivelano alla lunga efficaci nel nascondere, non nel risolvere i problemi, proprio perché questi problemi non possono avere soluzioni univoche e definitive, in un contesto caratterizzato da irriducibile complessità e incertezza. A parte l’effetto indiretto di rafforzare il potere coercitivo di un regime autoritario, non conosciamo i prezzi sociali e psichici delle misure sanitarie rigide applicate dal governo cinese. Si è parlato di turni massacranti negli ospedali, e di infermiere, al nono mese di gravidanza, costrette a curare malati di Covid. In ogni caso, siamo sicuri che le politiche presenti e future del governo cinese sapranno prevenire o intercettare in tempo altri processi di zoonosi, che siano aperte ad apprendere dalle esperienze dei nostri giorni?
Certamente, la gestione di stati di emergenza e di crisi complesse, come quelle sanitarie e biologiche, espone al rischio di “tentazioni” tecnocratiche, paternalistiche o illiberali. Ma la via migliore in una democrazia è sempre rimanere ancorati a una strategia fondata sul mix di sorveglianza e di responsabilità individuale; una strategia volta anche al rispetto dei dettati costituzionali, che prevedono sì condizioni di emergenza, ma anche limiti ben precisi a queste condizioni.
La risposta dovrà essere quella di spostare e tenere mobile la linea di confine tra tecnocrazia e democrazia, tra sistemi esperti e deliberazione collettiva, sorveglianza e privacy. Per gestire crisi complesse occorrerà una “democrazia complessa”, una rinnovata fiducia tra governanti e governati, non la riduzione sic et simpliciter dei suoi spazi d’intervento a favore degli esperti o dell’azione taumaturgica dei nuovi autocrati.
Per le sue radici storico-culturali e per la sua propensione alla pluralità e al confronto, che oggi hanno nelle sedi comunitarie anche un luogo istituzionalizzato, l’Europa è sicuramente il laboratorio politico e giuridico più avanzato, nel mondo, nella direzione della democrazia complessa. A una condizione ovviamente: dovrà uscire dalla stagnazione degli ultimi anni, continuare ad affrontare con determinazione questa crisi in modo solidale e riprendere il cammino dell’integrazione che, a questo punto, può avere solo un orizzonte politico.
Dobbiamo anche aggiungere che, alla fine, non solo la Cina, ma anche Taiwan e la Corea del Sud (cioè stati relativamente democratici) sono stati molto abili nel contenere la pandemia. È evidente che, al di là dei regimi politici, esiste una “via asiatica” alle relazioni fra individuo e società a cui non possiamo e non dobbiamo ispirarci. Al contrario, riflettendo sulle differenze culturali fra le varie aree del mondo, dobbiamo ispirarci e approfondire la “via europea”, basata irriducibilmente sull’idea degli individui come soggetti autonomi, responsabili nelle loro scelte personali, talvolta ispirate, ma mai rigidamente trasmesse, dall’alto, e capaci di fertili interventi anche dal basso.

Che effetto ha sull’uomo, animale sociale per eccellenza, il distanziamento sociale, imposto o in molti casi, auto-imposto, dalla paura del contagio? L’essere connessi, virtualmente, può sostituire l’essere in contatto? Andiamo verso un nuovo tipo di socialità, che rischia di avere conseguenze rivoluzionarie su ogni ambito della vita umana, incluso quello professionale?
È un distanziamento fisico, non sociale. Il bisogno di socialità e di relazione ha trovato nuove vie di realizzazione, per esempio, nella comunicazione telematica. Si pensi anche all’esplosione dei webinar. Nelle condizioni del distanziamento obbligato, la comunicazione telematica è diventata compensativa o addirittura ha permesso di reintegrare, con efficaci piani di emergenza, quelle relazioni della cui polverizzazione veniva accusata. Il timore di diventare “solitudini connesse” c’era anche e soprattutto in epoca pre-covid, quando Zygmunt Bauman scriveva che i cellulari consentono a chi se ne sta in disparte di tenersi in contatto e a chi si tiene in contatto di restarsene in disparte… Paradossalmente, la situazione di oggi ci porta a correggere il punto di vista distopico, tecno-apocalittico degli ultimi decenni. Mi lasci passare l’ottimismo: oggi riusciamo a restare in contatto anche se siamo “costretti” a restare in disparte e senza che il nostro desiderio di un contatto diretto venga meno. Anzi, stiamo comprendendo appieno come la socialità sia davvero un elemento definitorio della specie umana, come del resto tutte le prospettive evoluzionistiche ci hanno fatto ampiamente comprendere.
Il virus ha aggravato il divario tra i più forti e i più deboli, tra protetti e indifesi. Anche se in Europa da questo punto di vista stiamo un po’ meglio che nel resto del mondo, la spietatezza del sistema capitalista è di nuovo sotto gli occhi di tutti. La parola giustizia ha ancora un significato in un mondo che sfida apertamente questo concetto? La giustizia va ripensata? Come?
Ha un senso perché, a livello delle comunità nazionali, la giustizia sociale è il fondamento anche per uno stato di diritto democratico durevole. E ha una senso perché è il terreno per ripensare la globalizzazione e rilanciare una governance globale. Serve un rafforzamento della cooperazione internazionale, fondato sulla tutela sovranazionale di beni comuni, a cominciare dalla salute e dalle biodiversità. Dopo la pandemia, continuare con un mondo diviso come prima sarebbe una tragedia. È l’occasione per rompere il circolo vizioso di una finanza globalizzata e deregolamentata che asservisce la politica, che, a sua volta, asservisce la civiltà alla finanza, per riprendere le parole del mio amico e compianto Luciano Gallino. “Civilizzare” e “definanziarizzare” l’economia mondiale e l’intero sistema-mondo è l’obiettivo di cui l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile può essere il prologo.
Dobbiamo dare una prospettiva storica al discorso. Il mondo è sempre stato un luogo sommamente ingiusto, pieno di ingiuste disparità. Se oggi ci indignamo per molteplici situazioni è perché le disparità e gli atti di ingiustizia sono diventati molto più visibili e trasparenti, grazie alla presenza dei media; e perché assistiamo, anche nelle nostre società relativamente affluenti ed equilibrate, a gravi regressioni e involuzioni. L’indignazione certo non basta, ma è un punto di partenza. Non dimentichiamo che l’obiettivo di “civilizzare” la Terra è ancora un obiettivo che dà senso al nostro presente e al nostro futuro.
Una volta di più, il virus ha dimostrato che “siamo una comunità di destino” globale. Lei usò questo termine già in un’intervista che le feci due anni fa. Il virus lo ha dimostrato in maniera violenta, brutale. In questo modo, tuttavia, ci ha ricordato che nessuno si salva solo. Come salvarci “insieme”? Come evitare che una volta di più l’egoismo e gli interessi di una parte trionfino sulla solidarietà e sull’interesse collettivo?
Ci si potrà salvare insieme, non solo perché ci sentiamo e ci sentiremo minacciati tutti allo stesso modo e nello stesso momento da pericoli incombenti o imprevedibili, ma anche perché capiamo e capiremo che il nostro singolare è valorizzato dal plurale. È questo il “salto mentale”, a cui facciamo resistenza a causa del persistere del paradigma della semplificazione. L’appeal della semplificazione ha radici storiche e culturali profonde. Ha rappresentato il paradigma di pensiero dominante nei secoli della modernità, dal seicento al novecento. La sua logica non ha modellato solo il discorso scientifico e l’attività scientifica (quanto meno fino alle “rivoluzioni scientifiche” della fisica quantistica e relativistica, della biologia evoluzionista, della cosmologia del Big Bang), ma anche i discorsi e le pratiche sociali, politiche, istituzionali. Tracciare confini, fissare la propria identità nell’opposizione all’alterità, così come trovare una soluzione univoca, semplice, astratta, quantificabile, rintracciare sempre una causalità lineare nei fenomeni, hanno intessuto un abito mentale talmente radicato da far apparire estraneo e difficoltoso un altro modo di pensare, come quello complesso. Abitare la complessità richiede pertanto la capacità di indossare un “abito” diverso, la capacità di innescare narrazioni alternative e più feconde. Per questo, è sul terreno cruciale dell’educazione che si giocherà la partita per realizzare il cambiamento di paradigma che il nuovo tempo esige.

Nel buio della crisi si scorgono i segni di quella che potrebbe essere la via d’uscita, la via verso un mondo nuovo. In questo senso, particolarmente interessante è il caso dell’Unione europea, che di fronte all’epidemia, dopo una reazione iniziale stonata, che ne ha messo alla prova l’unità, ha saputo mettere in campo le sue migliori risorse e decidere di rispondere al virus con uno sforzo economico collettivo senza precedenti. Ancora più interessante è che buona parte delle risorse economiche che saranno messe in campo saranno dedicate alla transizione ecologica. Al Green Deal, il “nostro uomo sulla luna”, come lo ha definito Ursula von der Leyen. In un mondo che si dice post-ideologico, l’ecologismo è destinato a essere la prossima grande ideologia?
Non parlerei tanto di ideologia, ma di cultura planetaria e di umanesimo planetario, che sarà fondato sull’idea di indivisibilità e pluralità dell’umanità, e di indivisibilità della vita umana, da intendersi, allo stesso tempo, terrestre, biologica, psichica, sociale, culturale. La ricerca di un rapporto positivo e costruttivo degli umani con tutti gli attori del mondo, viventi e non viventi, è la precondizione per la nostra stessa sopravvivenza, per la possibilità di delineare un futuro vivibile e fecondo. Proprio per questo le preoccupazioni ambientali oggi costituiscono un discorso trasversale, che può avere la funzione di connettere, e non già di separare, le inevitabili diversità dei punti di vista delle diverse culture, e delle diverse parti politiche. In una risposta globale positiva alle impellenti sfide dell’ambiente sta il nucleo della comprensione di un’umanità che si può finalmente autodefinire una e molteplice, una perché molteplice, molteplice perché una.

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