Il passaggio dei poteri da un presidente all’altro è una fase fondamentale per la democrazia americana. Ha un carattere simbolico elevato – la pacifica transizione di potere da un partito all’altro, la riconciliazione nazionale dopo lo scontro elettorale, l’affermazione dello stato di diritto – ed un’organizzazione molto complessa. Un tempo la transizione dei poteri era una fase molto lunga che si concludeva spesso tra marzo e aprile. Oggi il presidente invece inaugura il proprio mandato il 20 gennaio dell’anno successivo alle elezioni. La procedura di transizione è regolata dal President Transition Act del 1963 ed è gestita dalla General Services Administration.
Per quanto regolata la fase di transizione non è così semplice ed è densa di ostacoli e di sorprese che il presidente uscente può porre al presidente eletto. È successo molte volte nella storia degli Stati Uniti, dalle nomine dell’ultimo minuto agli “sgarbi”personali.
Una volta terminate le elezioni, l’attenzione alle procedure di solito tende a sfumare in questa fase. Però non si tratta di mere formalità. E le vicende di questi ultimi giorni, con i tentativi della campagna di Trump di contestare il risultato elettorale, lo confermano. Un aspetto importante è quello della “Safe Harbor date”.
Secondo il US Code, gli elettori del Collegio elettorale devono riunirsi e votare per il presidente e il vice presidente il lunedì successivo al secondo mercoledì di dicembre. Quest’anno è il 14 dicembre. Le varie delegazioni statali si incontrano separatamente e nel proprio stato nei luoghi decisi dalle legislature statali.
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Tuttavia, sei giorni prima dell’inizio delle votazioni del Collegio elettorale, c’è un’altra data importante che quest’anno cade l’8 dicembre. Si tratta della cosiddetta “Safe Harbor”, la data limite per gli stati per contare i voti, risolvere qualsiasi controversia elettorale e certificare il risultato. Se gli stati infatti non riescono a contare i voti o a risolvere le controversie per quella data spetta al Congresso decidere il vincitore dello stato durante la conta dei voti elettorali il 6 gennaio.

Che cosa è la certificazione del voto?
Dopo che i cittadini hanno espresso il loro voto, le schede elettorali vengono prima “esaminate” e quindi certificate a livello di contea o di città. Una volta che sono certificate da un consiglio di contea, i risultati vengono inviati a un’entità statale di certificazione. A seconda dello stato, il vincitore della gara viene infine certificato dal segretario di stato o dal governatore.
Attualmente la maggior parte degli stati ha certificato o sta per certificare i propri risultati. In 33 stati, tra cui Georgia, Nevada, Pennsylvania e Wisconsin, le contee devono certificare i risultati entro due settimane dalle elezioni. In altri 13, tra cui Arizona e Michigan, i consigli di contea devono certificarli entro tre settimane. I restanti quattro stati, inclusa la California, concedono alle contee fino a quattro settimane per rilasciare le certificazioni. A seconda dello stato, la certificazione statale può richiedere uno o più giorni dopo la certificazione da parte di un consiglio di contea.
Sebbene sia un passaggio fondamentale nel processo, la certificazione statale è una semplice formalità quando i risultati delle elezioni sono chiari. L’Arizona non ha una scadenza per la certificazione in tutto lo stato, ma le contee dell’Arizona hanno tempo fino al 30 novembre per certificare i loro risultati. Infine, Nevada e Wisconsin devono rispettare una scadenza del 1° dicembre per certificare i loro risultati.
Anche dopo che i risultati delle elezioni sono stati certificati, i candidati perdenti possono ancora contestare l’esito delle elezioni in tribunale. Per garantire una rapida risoluzione, alcuni stati hanno scadenze per l’avvio e la conclusione dei ricorsi. In Arizona e Georgia, ad esempio, i candidati perdenti hanno fino a cinque giorni dopo che i risultati sono stati certificati per organizzare un ricorso, mentre in Nevada hanno cinque giorni dopo il riconteggio.

Che cosa succede dopo l’8 dicembre?
Se gli stati non hanno terminato di certificare il voto a causa dei ricorsi, potrebbe accadere che alcuni stati nominino degli elettori per il Collegio elettorale in contrasto con la volontà degli elettori.
Non si tratta soltanto di teoria. Nel 1960, durante le elezioni che videro John F. Kennedy contro Richard Nixon, inizialmente sembrava che il candidato repubblicano avesse vinto nello stato, poiché era in vantaggio di 141 voti dopo il primo conteggio. Un riconteggio ordinato dal tribunale era ancora in corso quando il governatore repubblicano delle Hawaii attribuì i tre voti elettorali dello stato a Nixon. Lo stesso giorno, gli elettori democratici rilasciarono invece un certificato di voto che assegnava i voti a Kennedy. Il riconteggio finale indicò che Kennedy aveva effettivamente prevalso, costringendo il governatore a firmare il secondo certificato dagli elettori democratici. Entrambi i certificati però erano arrivati nel frattempo a Washington quando il Congresso si riunì nel gennaio 1961, con l’allora vicepresidente Nixon incaricato di presiedere la sessione congiunta per certificare la propria perdita elettorale. Senza che vi fossero obiezioni, Nixon ordinò che il certificato democratico fosse quello da contare e ignorò il certificato repubblicano di accompagnamento, anche se portava anche la firma del governatore come richiesto dalla legge federale.
Ma l’episodio storicamente più rilevante accadde nel 1876 quando si affrontarono il democratico Samuel J. Tilden e il repubblicano Richard B. Hayes. Dopo un primo conteggio dei voti, Tilden aveva ottenuto 184 voti elettorali contro i 165 di Hayes, con 20 voti da quattro stati irrisolti: Florida, Louisiana, South Carolina e Oregon. Tilden aveva anche vinto il voto popolare. Le elezioni furono segnate, soprattutto nei primi tre, da enormi brogli e frodi elettorali: in South Carolina per esempio la partecipazione elettorale fu del 101 per cento. Molta confusione dipese anche dal fatto che i partiti stampavano le schede elettorali e in alcuni stati i democratici avevano stampato schede elettorali a sostegno di Tilden con sovraimpresso il voto di Lincoln, il fondatore dei repubblicani. Gli stati contestati inizialmente attribuirono il loro voto ai democratici ma poi le commissioni elettorali statali – dominate dai repubblicani perché il Sud era “occupato” dal Nord – hanno successivamente assegnato i voti elettorali a Hayes. Tuttavia la confusione era molta: furono firmate diverse certificazioni elettorali da parte degli organi statali, anche in contraddizione tra loro, e la controversia fu risolta dal Congresso che creò una commissione apposita. La commissione assegno poi la vittoria a Hayes, in cambio della fine dell’occupazione militare del Sud.

E Trump?
Quello che sta tentando di fare Trump, senza successo, è proprio quello di ritardare la certificazione del voto in modo che le legislature statali repubblicane degli stati chiave gli attribuiscano i voti elettorali. O che almeno contestino la certificazione ufficiale in modo che sia poi il Congresso a risolvere il problema. Ad esempio qualche giorno fa il presidente ha incontrato la leadership repubblicana dello stato del Michigan presumibilmente per verificare se vi erano gli elementi per procedere alla selezione di elettori favorevoli al presidente. I repubblicani del Michigan, uno stato che Biden ha vinto con 150,000 voti di distacco (furono 11,000 quelli che portarono Trump alla vittoria nel 2016) si sono rifiutati.
Perché la strategia di Trump possa funzionare il presidente avrebbe bisogno della collaborazione dei legislatori statali repubblicani, che ad oggi non sembrano molto disponibili. Dovrebbe anche affrontare controversie collaterali su chi dovrebbe certificare gli elettori: se il governatore di uno stato o la legislatura statale.
Se ci fosse un numero sufficiente di contestazioni e nessun candidato riuscisse pertanto a ottenere i voti necessari per diventare presidente, la scelta spetterebbe al Congresso. Anche se i democratici hanno la maggioranza alla Camera per la scelta del presidente e del vice, la Camera vota per delegazioni statali: 26 sono repubblicane e 24 sono democratiche. Al Senato la maggioranza è attualmente repubblicana ma se i democratici vincessero le elezioni senatoriali in Georgia il 5 gennaio vi sarebbe parità.

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