George Best sta lì, seduto accanto a Diego, nella sezione speciale del Paradiso che accoglie i fuoriclasse, con i suoi dubbi, i suoi tormenti, la sua divina grandezza e la sua sregolatezza caratterizzata da un maradonismo ante-litteram. Se ne sono andati a quindici anni di distanza l’uno dall’altro, con la sola differenza che il leggendario numero 7 dello United non è riuscito nemmeno a festeggiare i sessant’anni. Del resto, Rimbaud non poteva vivere a lungo, come non poteva farlo Best, il quinto Beatles o, forse, l’ultimo poeta maledetto, un altro che usava i piedi al posto della penna ma componeva ogni volta versi immortali. Di Best sono rimaste impresse molte immagini ma è soprattutto un racconto che rende bene l’idea di chi sia stato questo funambolico irlandese, nato in una Belfast che sarebbe diventata, nei decenni successivi, teatro di violenze e attentati terroristici ma che rimarrà sempre, nell’immaginario collettivo, la città del mito inafferrabile.
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Una volta, durante una sfida con l’Olanda, ne combinò una delle sue e la raccontò così:
Era il 1976, si giocava Irlanda del Nord – Olanda. Giocavo contro Johan Cruijff, uno dei più forti di tutti i tempi. Al quinto minuto prendo la palla, salto un uomo, ne salto un altro, ma non punto la porta, punto il centro del campo: punto Cruijff. Gli arrivo davanti, gli faccio una finta di corpo e poi un tunnel, poi calcio via il pallone, lui si gira e io gli dico: “Tu sei il più forte di tutti, ma solo perché io non ho tempo”.

Del resto, aveva una tale considerazione di sé che era arrivato addirittura a dire che se fosse nato brutto, non avremmo mai sentito parlare di Pelé. Di Pelé ne avremmo sentito parlare eccome, ma una cosa è certa: George Best è stato l’interprete ideale degli anni Sessanta, con i loro sogni di libertà, di emancipazione, di progresso e quella pazzia tipica dei ragazzi di allora, la generazione di Praga e di Allende, della Sorbona occupata e delle barricate di Parigi, del Vietato vietare e dei proclami altisonanti che, col passare degli anni, si sono trasformati nella triste recita di tante maschere adagiate e fiere di essersi rassegnate al declino. Se Maradona fosse nato negli anni di Best, forse sarebbe stato al fianco del Che in Bolivia. Se Best fosse nato negli anni di Maradona, forse sarebbe stato al posto di Bobby Sands, anche se era un tipo troppo festaiolo, troppo ridanciano e troppo innamorato della vita mondana per lasciarsi travolgere dai grandi ideali.
Diciamo che non sarebbe stato capito né apprezzato perché il divino numero 7 dei Diavoli rossi aveva senso solo in quell’Inghilterra non ancora thatacheriana, non ancora sfrenatamente liberista, in cui ancora esistevano i minatori e avevano un senso le lotte operaie, e nella sua Irlanda fragile, disperata, sola, eppure combattiva, indomita, ferita ma mai arresa, proprio come il suo eroe che, tuttavia, a un certo punto non ne aveva più. Best è stato fenomenale, svagato, indolente, donnaiolo, un alcolista nato e un provocatore di prim’ordine, folle in campo e fuori, irriverente ai limiti dello stucchevole, dissacrante e geniale nei tunnel come nelle uscite verbali, fino al tardivo pentimento per un’esistenza letteralmente dissipata e spezzata dagli eccessi che ce ne hanno privato quando ormai il suo fisico non ne poteva più.

Solo Gigi Meroni, la farfalla granata, il nostro Best, investito da un’auto a ventiquattro anni dal futuro presidente granata Attilio Romero, suo grandissimo tifoso, l’ha eguagliato per stravaganza. Sono stati entrambi un poderoso calcio all’ipocrisia borghese, ai buoni costumi e al perbenismo di un decennio che è sfociato nella rivolta globale, nel desiderio corale di infrangere gli schemi, in tante catene finalmente spezzate, anche nel calcio, e nell’emancipazione di costumi divenuti oggettivamente insopportabili. Nel celeberrimo ’68 il Rimbaud in maglia rossa conduceva i Diavoli di Busby sul tetto d’Europa, regalandosi il Pallone d’oro e una notorietà senza precedenti. Sarebbero dovuti trascorrere quasi trent’anni prima che un altro irregolare del suo stesso calibro, ossia Cantona, ne prendesse il posto nel cuore dei tifosi, prima di cedere il passo al glamour di Beckham e al divismo planetario di Cristiano Ronaldo. Niente a che spartire, sia detto con il dovuto rispetto, con George “the Best”, partito dall’umile Irlanda e in grado di costringere all’inchino i maestri inglesi negli anni in cui esplodevano le bombe dell’IRA e una domenica di gennaio del ’72 si tingeva amaramente di sangue.

Scrisse Rimbaud in Ma bohème:
Camminavo, i pugni nelle mie tasche bucate;
anche il mio cappotto era divenuto ideale;
camminavo sotto il cielo, o Musa!, ed ero un tuo fedele;
Oh là là! Che splendidi amori che ho sognato!
La mia unica mutanda aveva un largo buco.
Piccolo Pollicino sognatore, sgranavo nella mia corsa
delle rime. La mia locanda era l’Orsa Maggiore.
Le mie stelle in cielo facevano un dolce frou-frou.
Best, come Diego, come il Grande Torino e altri eroi indimenticabili, non è morto: al massimo, è andato in trasferta.
Pallone, e non solo.
Gli eroi del calcio e dello sport
raccontati da Roberto Bertoni

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