Investire nella scuola conviene

Mettere l’educazione al centro dell’agenda politica, e almeno arrivare alla media europea come organizzazione e struttura e al livello di spesa di paesi guida come la Germania.
GIOVANNI TONELLA
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1. Le difficoltà di questo inizio di anno scolastico, ancora una volta, ma in maniera più chiara e urgente, ci mettono di fronte ad alcuni problemi cronici del sistema scolastico italiano. Non ci riferiamo in questo momento a considerazioni legate agli indirizzi o alle tendenze didattiche, ai modelli, in vero sempre più astratti e burocratici, che stanno invadendo la scuola italiana. Ma ci riferiamo, in questa fase di crisi del Covid-19, a problemi di natura organizzativa, in particolare ad alcune emergenze che ogni anno si rinnovano senza che vi siano, se non in un alcuni casi, segnali di miglioramento. 

2. Innanzitutto è importante fare una premessa rilevante. Il sistema scolastico va inteso appunto come un sistema: ossia, secondo una metafora analitica che fa riferimento a un impianto sistemico-relazionale, si tratta di un sistema e come tale funziona in una logica di interdipendenza delle parti. Certamente il Ministero dà l’indirizzo e l’impulso più evidente e manifesto e porta con sé una grande responsabilità nei processi di riforma che in maniera frequente sono messi in atto (con una tendenza tipica del bias normativo della modalità di governo in Italia, per cui vi è un affastellarsi di riforme normative, con ritardi di attuazione che si sovrappongono), ma si deve comprendere che gli altri elementi del sistema assumono una grande rilevanza nei feedback di aggiustamento e soprattutto nella veste di agenti attuatori (e valutatori). La cosa è evidente anche quest’anno, quando sono gli Uffici regionali scolastici in stretta connessione con i provveditorati provinciali a determinare, ad esempio, la rilevazione e l’indirizzo sui posti di sdoppiamento di insegnanti Covid da richiedere al Ministero. Nel caso del Veneto senza sfruttare appieno le potenzialità di risorse a disposizione. Ma oltre a questa osservazione, va aggiunto che il sistema scolastico, con l’insieme di attuatori, che vede peraltro le singole scuole nella logica dell’autonomia protagoniste di questo processo, si rapporta anche con altri attori: ad esempio le Regioni con le loro politiche sul trasporto locale o come protagoniste nella definizione dei Protocolli di sicurezza (quante resistenze abbiamo dovuto constatare nell’indirizzo di permettere agli studenti di non adottare le mascherine in situazione statica, o nell’organizzazione di una mobilità non affollata), con le Province e i Comuni con le loro politiche di infrastrutturazione sulle scuole (e le conseguenti carenze non affrontate sulla potenza della rete a disposizione).


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Per inciso, questa fase di costrizione ad una rapida e massiva alfabetizzazione digitale ha messo in evidenza le carenze non solo sul lato della mancanza di dispositivi tecnologici, che i finanziamenti statali hanno affrontato celermente, ma appunto, soprattutto, sul lato della capacità della rete delle singole scuole. Da questo punto di vista servirebbe focalizzarci sulla rilevazione della mancanze delle varie scuole e su un piano nazionale articolato in lotti territoriali sul recupero sulla potenza della rete al servizio dei poli scolastici. Molte scuole di Treviso hanno problemi di capacità della connessione, e questo onestamente appare a questo punto veramente intollerabile! Recentemente è emersa invece ad esempio la capacità di parte della Regione Emilia Romagna di programmare con un surplus di investimento un piano regionale per la banda larga a favore delle scuole, un esempio ancora del differenziale di programmazione e implementazione che nel nostro paese di manifesta. 

3. Con la premessa sopra esplicitata, che colloca il problema in uno scenario in cui vi è una molteplicità di attori che deve essere coinvolta, andiamo a considerare alcune criticità da affrontare. In primo luogo il tema del reclutamento degli organici: in questa fase, seppure l’operazione delle GPS su piattaforma, adottata in via sperimentale in alcune Regioni, e in Veneto, abbia rappresentato un indubbio passo in avanti, al netto dei problemi di aggiustamento e correzione dei dati, ancora una volta sono emersi dei problemi di lungo corso. Peraltro il sindacato da tempo li ha segnalati, ma non sembra che l’agenda politica sappia affrontarli con la dovuta decisione, per non mettere in luce i ritardi delle stesse burocrazie scolastiche.

La scuola soffre infatti di problemi di carenza di organico e di qualificazione dell’organico. Un doppio problema che non può continuare a essere affrontato come negli ultimi anni lo è stato: c’è un problema non solo di mancanza di programmazione – che molto spesso si scontra con la tendenza incrementale del processo di formazione del bilancio pubblico – ma anche di considerazione del corpo insegnanti e in generale del corpo impiegato nella scuola. Lo Stato vuole costruire un corpo di servitori pubblici, di funzionari, portatori di una funzione universale, oppure vuole gestire un aggregato di lavoratori con una logica di bassa considerazione sociale e concependoli come un esercito di lavoratori con gerarchie interne e segmenti di riserva, con una logica di risparmio e di esternalizzazioni di alcuni negatività sugli stessi insegnanti e sulle famiglie? Si ripropone qui una discussione sui modelli organizzativi in cui riemerge la dialettica tra tendenze autoritarie, burocratiche (alla Crozier) verticiste e tayloriste, e invece tendenze innovative che puntano alla qualità del benessere organizzativo, alla promozione di motivazione intrinseche e di gruppi di lavoro efficaci. È banale affermare che si dovrebbe puntare sul secondo polo di questa dialettica, e ciò permetterebbe di giocare fino in fondo la carta delle risorse cognitive e del giacimento cognitivo che rappresentano le Scuole dell’Autonomia.

4. Qui si tratta di comprendere a fondo l’impostazione generale che si intende assumere. Ebbene si tratterebbe, per uscire dalle odierne difficoltà, di operare una svolta profonda – e forse qui servirebbe anche partire dalle strutture dirigenziali, dalla loro cultura organizzativa e dalla loro mentalità politica. Forse un problema di fondo sta proprio lungo tutta la filiera di chi si occupa di scuola: a) i partiti non hanno dipartimenti altamente vocati e specializzati, in collegamento con un retroterra di studio scientifico nelle università e nei centri di ricerca; b) i sindacati o le associazioni professionali, pur essendo di fatto ormai l’ultimo baluardo di riflessione sulla scuola, sono però indeboliti da una marginalizzazione sempre più forte negli ultimi decenni oppure da tendenze corporative di corto respiro; c) le burocrazie sono da tempo costruite secondo una logica di sedimentazione di personale, selezionato secondo criteri “privatistici” e di legame politico, in cui prevale una logica di rendicontazione verso i padrini politici, e con la sempre più marcata prevalenza di attitudini opportunistiche. Ciò non produce una leva di funzionari con senso dello Stato, ma di servitori di assetti politici particolaristici, che non rispondono ad una visione generale e nemmeno a criteri di efficienza; d) inoltre non possiamo trascurare che questi decenni di costruzione differenziata dei reclutamenti e di riforme sugli indirizzi e le classi di abilitazioni – in rapporto anche con gli interessi formativi delle Università, interessi anche qui spesso di natura particolaristica – hanno prodotto segmenti di precariato in balia dei mutamenti organizzativi, con una dimensione sempre più cronica e, per la logica della sopravvivenza personale, poco rappresentabile in maniera unitaria. Un precariato quindi molto differenziato negli interessi e nelle aspettative, in tendenziale non facile composizione con alcune necessità di specializzazione e di qualità. D’altro canto la considerazione pubblica della funzione docente richiama anche un livellamento e forme di autoselezione tendenzialmente rinforzanti questa considerazione pubblica; e) infine non possiamo dimenticare il resto della società, la sfera pubblica, che appare distante dalla scuola o fuorviata da stereotipi e letture spesso superficiali sul mondo della scuola.

Tra l’altro uno dei mali dell’Italia è una certa modalità del dibattito che è puramente denigratoria o di denuncia, a volte ideologica, in senso deteriore, senza offrire soluzione pragmatiche, senza comprendere che la scuola è l’istituzione formale centrale insieme all’università in una società per garantirne un futuro, e che la dimensione educativa e formativa regge se tutta la società riflette consapevolmente sulla sua funzione educante. Da questo punto di vista non si deve sottovalutare – seguendo la lezione di Dewey, e non solo – che il campo dell’educazione in realtà è un campo conflittuale, in cui si misurano interessi e opzioni sociali differenti, più o meno coerenti con il Progetto democratico (progressivo, almeno dal nostro punto di vista), e non è un caso che nella scuola si possono rinvenire luoghi di tensione tra logiche diverse, se non contrapposte, e logiche che rispondono a “teste” diverse (come leggere in maniera diversa il nevroticismo organizzativo sull’educazione civica che convive con l’esasperazione della logica delle competenze?).

5. Pertanto, tornando al problema rilevato, serve assolutamente aprire una riflessione. La frequenza dei concorsi è incompatibile con il precariato prodotto fino a questo momento? Si riesce ad operare una programmazione di smaltimento del precariato storico, avendo il coraggio di porre dei limiti al suo assorbimento, anche magari prevedendo passerelle verso il mondo amministrativo o ATA? Si riesce, in riferimento alla crescente richiesta di specializzazione per seguire studenti H (e anche BES in tutte le varie articolazioni) ad operare finalmente, con il coinvolgimento delle Università, per programmare in maniera realistica i posti di perfezionamento SSOS? E soprattutto si fa in modo che specializzarsi nella didattica, avendo accessi meritocratici, non sia un modo per recuperare profitti sulla pelle degli aspiranti docenti, operando ingiustizie di natura sociale su chi non ha risorse e risparmi da investire, ma un modo di investire su un corpo di insegnanti specializzato e con un senso alto della propria funzione? Quanti meritevoli in questi anni che hanno superato le prove di accesso hanno rinunciato per problemi economici? Quanti non hanno nemmeno tentato di accedere ai corsi di perfezionamento e specializzazione alla didattica? Non è forse una selezione censitaria poco coerente con i principi costituzionali? Non si comprende che uno Stato che ha un atteggiamento più da “sfruttatore” che da investitore in riferimento al corpo docente appare come uno Stato che non dà reale valore all’istruzione? Non appare forse uno Stato poco legittimato a chiedere sacrifici o a pretendere qualità, quando è il primo a non cercarla? Non si comprende che si deve riconoscere e non usare strumentalmente il progetto di vita delle persone? Non appare forse uno Stato che lancia un messaggio di ripiego a volte rispetto alla funzione docente, con la stessa logica di bassi salari, a cui corrisponde una bassa aspettativa in termini di lavoro? Tra l’altro, nel corpo vivo della scuola italiana, sta crescendo una richiesta puramente burocratica verso la funzione docente, non si alimenta né una logica di reale valutazione, né una logica che intravede nella scuola una grande risorsa in termini di giacimenti potenziali di comunità di studio e ricerca attivabili, anche in favore delle comunità di riferimento. 

6. Insomma, ad esempio, nella concretezza di queste settimane, partendo dalla rilevazione dei bisogni della scuola veneta di docenti di sostegno, in una situazione di carenza strutturale e di impossibilità di dare risposta alle famiglie, appare urgente che la programmazione sui posti di specializzazione di sostegno muti di segno, sia in termini quantitativi che qualitativi: che siano aumentati i posti (perché ci sono i fabbisogni) – e quindi superai i numeri chiusi di questi anni – e che vi sia programmazione di inserimento in ruolo in maniere celere a partire dai prossimi anni! Serve attivare le università e le risorse pubbliche per cambiare il paradigma: investire in un corpo di docenti formato, che abbia fin da subito la sicurezza di una immissione in ruolo, che sia seguito da strutture di formazione e aggiornamento strutturate, con un riconoscimento economico e sociale elevato. Nel concreto da subito si deve ampliare il numero di posti di specializzazione, deve essere una priorità per l’Usr del Veneto. Si tratta di una impostazione che dovrebbe essere seguita anche per i posti comuni e comunque per tutte le varie classi di abilitazione. Su questo versante, poi, servirebbe una ricognizione più puntuale, per recuperare su settori in cui ormai le stesse graduatorie sono assolutamente insufficienti. Ma non si può permettere che questa operazione sia una delle tante di routine di un sistema che accavalla ritardi e punti di blocco, per carenze di organico anche a livello amministrativo, serve una priorità nella ricerca di efficienza su questo piano: viceversa potrebbe diventare sempre più montante un meccanismo che individua nelle singole scuole i soggetti di reclutamento o nelle articolazioni territoriali.

La cosa potrebbe apparire sempre più una risoluzione ottimale dal punto di vista organizzativo e potrebbe rivelarsi in effetti una soluzione, con il rischio però che si producano meccanismi di distorsione locali sulle forme di reclutamento, con tentazioni discrezionali. Il tema del reclutamento dell’organico pertanto diventa sempre più centrale. Servono concorsi frequenti, anche gestiti regionalmente se necessario, ma dentro una logica di standard di qualità! Ma servirebbe soprattutto una costruzione seria di un percorso professionalizzante, nella funzione docente, che parta da corsi universitari inseriti nell’offerta universitaria, come specializzazione, permettendo anche un recupero delle risorse umane non assorbite dalla ricerca universitaria (ad esempio, sembra un controsenso l’alimentare il “puntificio” per le graduatorie legato ad alcuni corsi di formazione, quando non si riconosce peso alla pubblicazioni scientifiche – magari valutando la qualità delle riviste e dei meccanismi di pubblicazione!). 

7. In conclusione, questa breve riflessione vuole cercare non solo di dare una indicazione di urgenza su qualcosa che si deve fare subito, nell’immediato nella programmazione, ma anche di riportare nel dibattito pubblico al centro il tema della scuola, del suo buon funzionamento e del suo significato sociale e democratico per una società. Certamente si tratta di approfondire altre questioni (una fra tutte quella degli indirizzi didattici) e sviluppare i punti solo toccati, ma non svolti, da questa riflessione (organizzazione interna dei cicli scolastici, organizzazione e valorizzazione delle strutture intermedie e delle funzioni strumentali, obsolescenza o meno degli indirizzi, riformabilità delle classi di concorso, presenza di altre professionalità nel mondo della scuola, dagli educatori agli psicologi, il tema della valutazione dell’azione didattica, la questione della lotta alla dispersione scolastica esplicita o implicita, i livelli di competenze, preoccupanti, individuati dalle prove Invalsi ecc.). 

Meriterebbe poi un approfondimento a parte l’integrazione della didattica in presenza con quella a distanza come opportunità – stimolante e corretto in questo il contributo di Gianpaolo Sbarra sulla questione della DAD, e soprattutto il ritardo conclamato dell’Italia, certificato dall’indagine del giugno 2020 della Commissione europea con il Digital Economy and Society Index (DESI), in cui l’Italia appare ultima, precedendo solo Romania, Grecia e Bulgaria, in condizioni di connettività, disponibilità di capitale umano e competenze adeguante, uso dei servizi di internet, integrazione delle tecnologie digitali e servizi pubblici digitali (si veda P. Bianchi, Nello specchio della scuola, il Mulino, Bologna 2020, pp. 53-55). È un allarme che si deve raccogliere, altrimenti l’Italia nel nuovo mondo velocemente farà perdere le proprie tracce e non vi sarà nessun Prometeo da liberare, per richiamare il celeberrimo saggio storico di D.S. Landes!

Si tratta soprattutto di comprendere che il futuro di una società passa per una vasta alleanza che metta al centro l’educazione, nella sua dimensione di istruzione e di formazione complessiva del cittadino. La scuola, in quanto infrastruttura della riproduzione e produzione dei saperi e delle competenze legati a questi (senza invertire pericolosamente la gerarchia fra queste due dimensioni, perché si rischia una deriva al ribasso) è proprio importante e decisiva, e non possiamo accantonarla tra le cose irrilevanti. La scuola infatti è leva fondamentale per lo sviluppo economico, ma anche per la comprensione della realtà e la sua gestione, come per il futuro stesso della democrazia. Pertanto l’investimento in educazione diventa centrale, e non si può non registrare con preoccupazione quanto negli ultimi anni in Italia, come rileva il saggio di Bianchi, sopra citato, a partire dal 2009 vi è stata una contrazione significativa della spesa in educazione, almeno di sette miliardi (si veda P. Bianchi, Nello specchio della scuola, cit., pp. 95 ss). Su questo punto peraltro si potrebbe aprire una riflessione su quanto sia miope a volte fermarsi ad una concezione superficiale che non valuta appieno la strategicità di una certa spesa corrente, oltre al fatto che manca una spesa in conto capitale in infrastrutture. Come mi pare giustamente afferma Bianchi almeno sarebbe necessario arrivare alla media europea o al livello di spesa di paesi guida come la Germania. In ogni caso serve riportare la scuola al centro dell’agenda politica. 

Investire nella scuola conviene ultima modifica: 2020-12-04T20:17:22+01:00 da GIOVANNI TONELLA
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