Bagliori d’oro nel buio di Covid

“L’età dell’oro” di Fabrizio Plessi rompe la costrizione e l’isolamento da noi tutti subita in un periodo delicato com’è quest’emergenza sanitaria, che ci è improvvisamente piombata addosso costringendoci all’isolamento dagli altri e allo straniamento con noi stessi.
GIOVANNI LEONE
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L’opera d’arte è il mezzo di comunicazione grazie al quale il segnale dell’artista/stazione trasmittente raggiunge l’osservatore/stazione ricevente, con esiti cangianti in rapporto alle sensibilità e alla ricerca di sintonia che apre all’interpretazione individuale, anche distante dall’intenzione e dalla volontà dell’artista ma sempre e comunque legittima. L’età dell’oro, l’opera installata da Fabrizio Plessi sulle finestre dell’ala napoleonica, mi è parsa efficace ed eloquente, capace di rompere la costrizione e l’isolamento da noi tutti subita in un periodo delicato com’è quest’emergenza sanitaria, che ci è improvvisamente piombata addosso costringendoci all’isolamento dagli altri e allo straniamento con noi stessi, per l’incontro con un sé ignoto che ci ha reso viandanti stranieri in un nuovo mondo da esplorare.

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È un’interpretazione personale ma di grande efficacia mi è parsa l’estroversione dello spazio espositivo, l’opera messa in mostra provoca un ribaltamento spaziale, a sottolineare la natura d’interno del salotto veneziano. Il distanziamento sociale tra il pubblico dell’inaugurazione riportava lo spazio alla sua dimensione abitata, non s(n)aturata da una folla invadente. Sembrava quasi che il Museo Correr rifiutasse di chiudersi in sé aprendosi alla città, come a dire che quel museo non è altro dalla città, senza con ciò dire che la città è un museo.

L’età dell’oro è opera complessa e corale: con l’oro liquido che scorre nelle cascate installate sulle finestre, scorrono le note della colonna sonora di Michael Nyman, diffondendosi intorno con discrezione, mentre appare la scritta Pax Tibi, rimando alla frase rivolta dall’Angelo apparso in forma di Leone alato al Santo, naufrago in laguna: “Pax tibi Marce, evangelista meus. Hic requiescet corpus tuum” (Pace a te, Marco, mio evangelista. Qui riposerà il tuo corpo) preannunciandogli che qui avrebbe trovato riposo il suo corpo.

Quelle cascate dunque non velano ma svelano. Plessi spiega che “è d’oro, materiale incorruttibile, come questa città che attraversa il tempo”, oro a cui ieri si è fatto ricorso nelle decorazioni dei palazzi veneziani per ostentare ricchezza e oggi rimanda ai fasti di un tempo che non è più. Oro che non è colore ma luce, materia immateriale che si materializza miracolosamente, come la città, terra d’acqua lagunare.

Soluzione analoga viene riproposta per l’albero di Natale collocato tra le colonne con il Todaro e il Leone, quasi a cercare difesa nell’astrazione della tecnologia per dimenticare la Natura che ci presenta ormai il conto per gli abusi subiti. Di quest’opera ho visto i bozzetti in studio da Fabrizio e, memore delle emozioni delle cascate, mi è sembrato un progetto intrigante anche perché suscitano perplessità gli alberi sottratti al bosco, tenuti in piedi artatamente con funi e tiranti, per questo ero curioso di vedere come la natura dell’artificio avrebbe dato forma al dialogo tra Natura e artificio.

Venendo dalla torre dell’orologio l’impatto è notevole, sembra che un mucchio di regali sia cresciuto fino a farsi albero. A distanza, venendo dalla torre dell’orologio, fa un bell’effetto, un fuoco prospettico di luce vibrante che si staglia sul cielo plumbeo di questi giorni piovosi. Giunti in prossimità e se ci si sposta dall’asse c’è motivo di delusione, l’opera, schermo di schermi, si rivela appiattita su due fronti contrapposti con i fianchi scoperti. Dai due lati porticati della piazzetta si presenta come una scultura che si fa Giano bifronte, incapace di svilupparsi a tutto tondo. In qualche modo richiama compositivamente il classicismo gerarchico dei palazzi veneziani, con i due fronti principali monumentali e quelli laterali secondari. Il risultato stride con la smagliante modernità del classicismo palladiano di San Giorgio sullo sfondo.

A quella innovazione compositiva avrebbe potuto far riferimento l’opera d’innovazione tecnologica; invece anche a Rialto si fa ricorso alla logica dello schermo, che qui è “espressionista” (va dall’interno all’esterno) e lì “impressionista” (dall’esterno senza neanche raggiungere l’interno, fermandosi come fa in superficie). Inoltre, appare ridondante sommare alla geometria scomposta degli schermi variamente orientati lo scorrimento dei flussi d’oro liquido in direzioni diverse.

Come ha detto il maestro in un’intervista di Vera Mantengoli su Repubblica:

Il mio albero rompe gli stereotipi sul Natale e l’ho realizzato in nome della tolleranza e della convivenza perché sarà fatto di ottanta flussi di luce che vanno in ottanta direzioni diverse proprio per sottolineare l’intreccio secolare di culture che c’è sempre stato a Venezia, caratteristica della città.

Ma due eccezioni non fanno una regola. Il risultato è un’articolazione frammentata, mentre la diversità e la varietà che caratterizzano di Venezia la storia e il paesaggio urbano qualificano l’insieme in un’unità plurale.

Torna alla memoria il contrasto che ha opposto i due esponenti del neoplasticismo determinando il tramonto del movimento Der Stijl: Piet Mondrian non accetta e contesta le opere in cui Theo Van Doesburg ruota a 45 gradi la maglia che per il maestro olandese rappresenta un continuum matematico e per questo non può presentarsi ruotata, può invece ruotare l’inquadratura, finestra aperta su un sistema ordinato, come fa Mondrian in una serie di opere in cui ruota il quadro a 45 gradi ma il sistema di linee interno si presenta rigorosamente ortogonale.

Il tempo della rottura va superato, lasciamocelo alle spalle e costruiamo nella vita nuovi ordini fondati su dialogo e confronto di uomo e Natura, di eccezione e regola, di solidità e flessibilità.

Bagliori d’oro nel buio di Covid ultima modifica: 2020-12-05T13:29:05+01:00 da GIOVANNI LEONE
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