Per Paolo Pablito Rossi, scomparso a soli sessantaquattro anni in questo dannato e devastante 2020, vale lo stesso discorso che abbiamo fatto appena poche settimane fa per Maradona: non è morto, al massimo è andato in trasferta. Eppure la sua mancanza s’avvertirà eccome, trattandosi di uno degli eroi immortali di quel Mundial spagnolo cui arrivammo da brutti anatroccoli e ce ne andammo da principi, con la coppa in mano, sollevata da uno Zoff di poche, pochissime parole e resa possibile dalla pipa pertiniana di un condottiero mite e determinatissimo come Enzino Bearzot.
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Pablito racchiude il nostro immaginario e lo condensa nell’estasi di un’estate, quella del 1982, quando prima stese il Brasile con una tripletta destinata direttamente a diventare leggenda, poi realizzò una doppietta alla Polonia di Boniek in semifinale e, infine, segnò il primo dei tre gol con cui battemmo la Germania Ovest, dodici anni dopo l’impresa messicana dell’Azteca, e ci issammo sul tetto del mondo.

Pablito è tutto lì, in quell’estate, nel coraggio partigiano di un allenatore che volle fortemente puntare su di lui nonostante i due anni di squalifica per via del Calcioscommesse e benché molti lo considerassero un pazzo. Scelse la sua rabbia, la sua voglia di riscatto, la sua ferocia agonistica e in un indimenticabile lunedì, in una Barcellona avvolta da quaranta gradi all’ombra e da un’umidità prossima al cento per cento, ebbe ragione lui. Ebbe ragione dei critici, degli scettici, dei disfattisti, di quanti consideravano l’Italia già finita dopo il pessimo girone eliminatorio disputato a Vigo (Galizia, Spagna atlantica) e persino delle battute di alcuni suoi punti di riferimento che ironizzavano sul sogno di mandare a casa il Brasile di Zico, il più forte dopo quello inarrivabile targato Pelé, e l’Argentina di un giovane ma già fenomenale Maradona.

E invece andò proprio così: non vinse la squadra più forte ma quella che ci credette di più. E vinse un uomo, Pablito per l’appunto, che quel 5 luglio 1982 mise in campo una grinta da alieno, segnando una tripletta a un Brasile sconfitto più che altro dalla sua presunzione, dalla sua convinzione di aver già vinto, bastandogli un pareggio, e dalla sua incapacità di prendere sul serio un’Italia che nel momento peggiore, quando la maggior parte degli osservatori la considerava ormai finita, trovò la forza di rialzarsi.

Pablito incarna l’icona di una rinascita, personale e collettiva, l’idolo di più generazioni, l’uomo che quasi quarant’anni dopo ha avuto l’umiltà di chiedersi quanto duri un attimo, ripensando al biennio che lo ha condotto dalla polvere all’altare, dalla squalifica di due anni agli elogi del mondo intero. Senza contare i suoi successi con le maglie del Lanerossi Vicenza e del Perugia ma, soprattutto, della grande Juve bonipertiana che, grazie a lui e a Platini, vinse la prima agognata Coppa dei Campioni dopo aver, ahinoi, gettato al vento l’occasione d’oro di Atene contro l’Amburgo. Vinse male, nell’inferno in Terra che conosciamo col nome di Heysel, e per questo la si può considerare una vittoria a metà; fatto sta che Pablito c’era, come tre anni prima nell’apoteosi di Madrid, sotto gli occhi di un Pertini tornato ragazzo, in mezzo a un gruppo di giocatori che, prima di tutto, erano uomini veri.
Pablito vinse accanto a personaggi silenziosi come Scirea, a inafferrabili geni tarchiati come Bruno Conti, al guizzante Cabrini e al Tardelli in versione Urlo di Munch che, insieme alla tripletta di Rossi al Brasile, rimane l’immagine di quel Mondiale e l’esempio di cosa può fare l’Italia quando crede in se stessa.

Apparteneva a un altro tempo, a un’altra stagione, prima dei lustrini, delle sponsorizzazioni eccessive, delle troppe chiacchiere, degli infiniti pettegolezzi e delle parole al vento che spesso feriscono e non costruiscono mai nulla. Apparteneva a un gruppo che decise il silenzio stampa e si cementò fino a diventare invincibile, e lui in quel contesto era quello che rischiava più di tutti, lo sapeva e si comportò di conseguenza.
Il 5 luglio, nel catino infuocato del Sarriá, Paolo Rossi ritrovò se stesso quando ormai era rimasto solo uno a credergli davvero e, per nostra fortuna, era Bearzot. Non serbò mai rancore, esultò e basta, conquistando poi il Pallone d’oro (uno dei quattro italiani a riuscire nell’impresa) e numerosi altri riconoscimenti. Sorridente, educato e gentile, ci ha accompagnato nei decenni successivi con un racconto garbato dell’epica dello sport. Ora starà gridando di gioia lassù, con l’ingenua innocenza di chi sa di essere sempre stato pulito.
Pallone, e non solo.
Gli eroi del calcio e dello sport
raccontati da Roberto Bertoni

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