Il senso di Jhumpa per l’“altrove”

L’“altrove” come ricerca di un’identità o come approdo di un’illusione. È tra questi due poli che si articola l’inquieta, poetica ricerca della scrittrice d’origine bengalese Jhumpa Lahiri.
MARIO GAZZERI
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L’altrove come ricerca di un’identità o come approdo di un’illusione. È tra questi due poli che si articola l’inquieta, poetica ricerca di Jhumpa Lahiri, la scrittrice bengalese che vent’anni fa incantò i lettori di mezzo mondo con i suoi nove, magici racconti dell’Interprete dei malanni (The interpreter of maladies). Bengalese, nata a Londra e cresciuta negli Stati Uniti, sempre straniera in patria, Lahiri trova finalmente nella lingua italiana la chiave, la formula magica per entrare in contatto con quella personale identità nascosta, quasi di apolide nomade in terra incognita.

I suoi racconti e i suoi primi due libri scritti direttamente in italiano (Dove mi trovo e In altre parole, tutti editi da Guanda) ci restituiscono l’ideale biografia di una donna, bella e intelligente, pervasa da un senso di immateriale straniamento dal prossimo. L’Italia, il suo nuovo paese (vive ormai per sei mesi l’anno a Roma) è il suo primo grande amore che argina, contiene le ansie esistenziali di una donna che fu bambina nel suo paese d’origine dilaniato da guerre civili e conflitti religiosi.

Sono io e non lo sono, vado via e resto sempre qui. Questa frase scompiglia brevemente la mia malinconia come un sussulto che fa oscillare i rami, che fa tremare le foglie di un albero,

scrive in uno degli ultimi brevi capitoli di Dove mi trovo dopo essersi chiesta, facendo sfoggio di una padronanza ormai assoluta della nostra lingua,

esiste un posto dove non siamo di passaggio? Disorientata, persa, sbalestrata, sballata, sbandata, scombussolata, smarrita, spaesata, spiantata, stranita: in questa parentela di termini io mi ritrovo. Ecco la dimora, le parole che mi mettono al mondo.

Prigioniera di una sua esistenziale solitudine, Jhumpa Lahiri “guarisce” con lo studio dell’italiano. Uscendo dal guscio della sua infelicità, comincia a guardare con occhi diversi a un mondo che tuttavia sembra pur sempre abitato da estranee monadi.

Sradicata dal mondo indo-bengalese, Lahiri porta con sé, in silenzio, il fardello di una infanzia infelice in un paese poverissimo di cui gli occidentali sembrano ignorare pressoché tutto. La sua difficoltà di comunicazione, che si risolve in buona parte con la scrittura, non sembra tuttavia il frutto di una indagine di tipo pirandelliano sull’essere e l’apparire, sull’agire da protagonisti o da spettatori.

La cifra esistenziale di Jhumpa Lahiri risiede nello stupore, nello sradicamento dei senza patria, dei senza anima. Il grande successo dei suoi libri in America e in Europa sembra fortunatamente suggerire anche un diverso approccio degli occidentali verso problematiche identitarie universali, forse nascoste finora dai falsi miti di un benessere sul tipo dell’American way of life. La piccola orfana bengalese è diventata un’ammirata e invidiata scrittrice, la bambina che dopo la morte del padre visse lunghi anni con una madre depressa è stata capace di scavare nell’animo degli uomini dove spesso albergano vuoto e paura.

In apertura del libro In altre parole, la storia del suo vero e proprio “colpo di fulmine” per la lingua italiana e l’Italia, Lahiri cita una frase di Antonio Tabucchi, “…avevo bisogno di una lingua differente, una lingua che fosse un luogo di affetto e riflessione…”, riferendosi alla “conversione” letteraria dello scrittore italiano al portoghese. Ma l’altrove è anche il passato e la nostalgia è da intendersi nella più precisa etimologia della parola del greco antico, vale a dire “dolore del ritorno”.

Il presidente Obama conferisce una delle dieci National Humanities Medals a Jhumpa Lahiri, 10 settembre 2015

Il passato di Jhumpa Lahiri, ma certamente non solo di lei, è un mosaico fatto di attese, di incontri mancati, di cose non dette, di delusioni e magari anche di botteghe fallite con le serrande abbassate. Ma forse proprio qui sta la poesia della sua prosa, se ci è permesso definirla così, nel riproporre e riportare per un momento in vita ciò che non c’è più. Il non detto, in particolare, è nei suoi libri come il risultato di uno scrivere che procede quasi “per sottrazione” illuminando la trama ma lasciando appunto la nostalgia delle cose “che avrebbero potuto essere e non sono state”, come scriveva Guido Gozzano.

Ma non è certo ai nostri “crepuscolari” che Lahiri può essere minimamente accostata. Piuttosto, a momenti, alla scrittura asciutta e dolente di Giorgio Bassani. Ed è proprio un verso di una poesia dello scrittore ferrarese (Saluto a Roma) che l’autrice bengalese pone all’inizio del suo possente romanzo La moglie (tradotto dall’inglese The Lowland):

lascia ch’io torni al mio paese sepolto, nell’erba come in un mare caldo e pesante.


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Il senso di Jhumpa per l’“altrove” ultima modifica: 2020-12-12T20:30:38+01:00 da MARIO GAZZERI
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