Valcareggi e Bearzot. Quando il pallone aveva le rughe

A dieci e quindici anni dalla loro morte, i due allenatori icone degli anni Settanta e Ottanta ci ricordano che un secolo se n’è andato e che il calcio di ieri ha poco o nulla da spartire con quello dei divi hollywoodiani che siedono sulle panchine contemporanee.
ROBERTO BERTONI BERNARDI
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Ad accomunare Valcareggi e Bearzot non c’è solo l’azzurro dell’Italia, cui entrambi hanno donato gioia e sfide memorabili, ma soprattutto la regione d’origine. Giuliano di Trieste l’uno, friulano di Aiello del Friuli (Udine) l’altro, appartenevano a quell’Italia del Novecento che aveva tanto vissuto e altrettanto sofferto, pianto, patito, gridato e infine sognato, quando si era tornati a un minimo di normalità che consentisse anche agli animi irrequieti di una terra irredenta di trovare un minimo di pace.

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Zio Uccio, l’uomo del ’70, della staffetta fra Mazzola e Rivera, del mito dell’Azteca e, prim’ancora, della rivoluzione a cavallo fra la prima e la seconda partita contro la Jugoslavia agli Europei casalinghi del ’68, era un uomo di quercia con un istinto latinoamericano, una perfetta mescolanza di Bora e realismo magico, un uomo che aveva attraversato tutti i diluvi del “Secolo breve” e, per questo, era pressoché impossibile da piegare, come del resto tutti gli uomini di frontiera che si erano misurati col fascismo, con la guerra e persino con le foibe titine, l’esodo e il dramma, fino al ’54, di non potersi considerare pienamente italiani.

Enzino era, invece, un friulano tipico: poche parole, molti fatti e la testardaggine che lo condusse a puntare sui suoi ragazzi, sul suo gruppo, sui suoi pupilli e, più che mai, sul suo Pablito, eroe d’Argentina, mela marcia per due anni per via di un discutibile coinvolgimento nel Calcioscommesse e, infine, mito planetario dopo aver ballato una tarantella a suon di gol al cospetto dei maestri brasiliani, già ebbri di protervia, samba e capoeira.

Valcareggi e Bearzot avevano i volti tirati, segnati dalle rughe, levigati dai venti, aspri come le gole carsiche e l’animo di due uomini di trincea, di due soldati esposti al plenilunio, di due personaggi ungarettiani il cui cuore era il paese più straziato, come se la loro guerra, fatta di scarpini lubrificati col grasso di foca e odore d’erba, fosse durata non un quadriennio ma una vita intera. Del resto, solo gli uomini di frontiera possono essere tanto sfrontati da avere il coraggio di mettere in discussione tutto, a cominciare da se stessi, attraversando ogni burrasca con lo stoicismo dei condottieri che hanno navigato in ogni mare, loro che erano venuti dal freddo di una terra emblematica di mille sofferenze, contesa, mai del tutto italiana, al centro di violenze e propagande d’ogni sorta, in cui persino gli scrittori profumano di vino e d’osteria, figuriamoci gli uomini di sport che, come i boscaioli, si rifugiano a tarda sera al caldo di un buon bicchiere di rosso di quelli d’annata.

Ci hanno detto addio, rispettivamente, quindici e dieci anni fa ma del loro calcio che, come ha scritto Gigi Garanzini ne Il romanzo del Vecio, “nasce all’oratorio e muore in osteria”, di quel calcio fatto di terra, di ginocchia sbucciate, di scarpe rotte e di immani sacrifici è rimasto poco o nulla. Così come i loro volti, scarni, scavati e meravigliosamente antichi, poco o nulla hanno a che spartire con quelli dei divi hollywoodiani che siedono sulle panchine contemporanee. Forse nessuno come Valcareggi e Bearzot ci ricorda che un secolo se n’è andato e noi siamo rimasti qui, a domandarci se, al netto dei suoi drammi, sia stato un bene o un male. 

Valcareggi e Bearzot. Quando il pallone aveva le rughe ultima modifica: 2020-12-15T11:18:34+01:00 da ROBERTO BERTONI BERNARDI
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