C’è stato un tempo – era la stagione della cosiddetta “primavera dei sindaci” – in cui i due erano sempre insieme, anche per ragioni d’ufficio: Francesco Rutelli era il “sindaco col motorino” e Walter Tocci il vicesindaco e assessore alla mobilità (prima di lui si chiamava assessorato al traffico e non era certo un buon auspicio). Ora, nonostante nessuno dei due voglia correre per il Campidoglio, sono tornati in campo, senza neanche farlo apposta, con due libri su Roma che mettono un po’ di sangue ossigenato (almeno nel dibattito che langue) nelle esaurite vene della capitale, condannata al ruolo di comprimaria di Milano e altre città italiane ben più fornite di economia e prospettive future, dopo il tracollo legato ai danni di Alemanno sindaco senza una classe dirigente (forse a cominciare da lui stesso) e poi alla tragedia greca (in senso drammaturgico vero e proprio) dell’ascesa, logoramento e caduta di Ignazio Marino. Sulle cui vicende si sta riaprendo un interessante capitolo giudiziario (e forse politico, anche se si tratta di un “cold case”) a seguito delle inchieste sul corpo dei vigili urbani da parte della trasmissione televisiva Report (un complotto vero e proprio in aggiunta all’insensatezza politica dei vertici del Pd romano e di Renzi contro lo stesso Marino?).

Senza contare i cinque anni quasi con Virginia Raggi, eletta a furor di popolo (votante, perché l’astensione fu la più alta della storia del Comune di Roma) e a furor suo ricandidatasi, nonostante gli oltre quindici assessori scappati, cambiati, licenziati; i bilanci di Atac e Ama quasi con i libri in tribunale; le ormai proverbiali buche (se ne chiudono una ti cambia tutta la mappatura mentale…), le Olimpiadi scacciate, lo stadio della Roma da utilizzare per la campagna elettorale e finito due settimane fa in una storia di ipoteca sui terreni e poi, naturalmente, le immondizie più famose del mondo (non solo sul Guardian o il New York Times ma anche su tv latinoamericane, per dire…).
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C’era un tempo, e non ci riferiamo al protolatino di Romulus di Rovere, che pure si capisce meglio delle politiche attuali del Campidoglio, in cui Roma con Rutelli e Tocci aveva riconquistato un certo lignaggio cosmopolita, aveva persino pareggiato i conti economici con Milano e discuteva di nuove opere, come l’Auditorium della Musica, la nuova Teca per l’Ara Pacis, piccoli e grandi sottopassaggi, la “cura del ferro” del treno e delle tramvie circolari, perfino di risanamento e potenziamento del trasporto pubblico…

Di quel tempo parla Francesco Rutelli nel suo libro Tutte le strade partono da Roma, in particolare nel capitolo su “Capitale moderna, fatiche contemporanee”. Rivendica con misura Francesco Rutelli, almeno per segnalare che Roma non è obbligata a vivere di passato e nel passato, e che se si vuole si può costruire anche nella legalità (suo il “piano delle certezze” propedeutico al quarto piano regolatore della Capitale dal 1871, approvato poi con la giunta Veltroni) e soprattutto che si può salvaguardare quel che resta dell’Agro Romano e della bellissima natura che è ancora, per fortuna, dentro e nei dintorni di Roma.
Rutelli ha scelto da anni di volgere il suo sguardo alla versione culturale di Roma, si occupa di Unesco e ambiente e, se è costretto a parlare del presente, lo fa solo per puntualizzare che gli strumenti per cambiare esistono e se c’è la volontà politica le scelte si possono fare invertendo la rotta.
Sembrerebbe non meno poetica la condizione di partenza di Walter Tocci, che nel suo Roma Come se. Alla ricerca del futuro per la capitale prende le mosse da Pasolini: “Non si piange su una città coloniale” – una poesia scritta nel 1970 per la “Meditazione orale” di Ennio Morricone, ovviamente un pezzo musicale, per il Centenario di Porta Pia.

Altri versi della poesia riecheggiano nell’introduzione e tornano nei capitoli di un bel saggio che diventa inevitabilmente più concreto ma non meno poetico e più finemente analitico nel resto dei capitoli, sia che si parli della ambigua o scarsa influenza delle avanguardie intellettuali e artistiche o ancor più nell’analisi della lingua: non il romanesco ma l’italiano romanizzato e le sue influenze nei mondi dell’audiovisivo, del cinema e della tv che a Roma – ferma l’edilizia – divengono il primo comparto produttivo. Per non parlare dell’analisi quasi crudamente autoptica, se non fosse riscattata da una visione utopica e sotto sotto piena di speranza e futuro, delle borgate e delle periferie romane, territori oggi autonomi e totalmente distinti della città e dalla città, anzi dalla loro stessa storia.
Diciamo subito che l’impronta di Walter Tocci (forse anche perché non ha subìto direttamente la mai troppo analizzata sconfitta inopinata di Rutelli contro Alemanno nel 2008, che oggi potremmo leggere come una inconsapevole “anticipazione” della vicenda Marino) è di natura filosofica e ci accompagna per la lettura di tutto il bellissimo libro con una triade hegeliana che si potrebbe applicare a ogni passaggio: tesi, antitesi, sintesi (mi perdonino i puristi e pure Walter per questa semplificazione).
Significa in breve che la lettura del verso pasoliniano è per Tocci un invito a non rassegnarsi al conformismo, al pensiero statico su una Roma perduta e irriformabile, per passare dallo sdegno inefficace all’indignazione che produce politiche nuove.

Tocci ha il gusto di ripercorrere la storia amministrativa di Roma dalla nascita della città come capitale (con digressioni utili nelle riforme dei secoli precedenti) perché vuole rispondere ad alcune domande scomode: perché i sindaci “del cambiamento” non hanno reso questo cambiamento inevitabile e continuo? Come può vivere una città istituzionale e con connessioni così radicate dello Stato senza avere una statualità reale, efficace, riconosciuta? A che serve essere una “città simbolica” se questi suoi simboli cambiano di significato negli anni e anche le parole d’ordine tipo “ripartire dalle periferie” devono fare i conti con ben altre “periferie” culturali, morali e fisiche, completamente diverse? E infine: che senso ha avere una proiezione Urbi et Orbi se parliamo di una città che non regola i suoi rapporti nemmeno con la “ciambella” regionale artefatta al suo intorno, e nello stesso tempo vorrebbe parlare al Mediterraneo senza parlare con Marsiglia e Milano o Palermo o al mondo senza avere i segni distintivi del “moderno e contemporaneo”, ovvero nel 2020 il controllo dei suoi big data, dei suoi centri di ricerca e sviluppo, che ci sono ma spesso ignorati, e che potrebbero parlare essi solo, oggi, al mondo stesso ?
Tocci, nonostante inizi e termini con la poesia di Pasolini, mette il dito nella piaga vera della città, che poi è anche quello della politica italiana di oggi: un “presentismo” che uccide la politica come speranza di cambiamento per l’individuo e la comunità.

Il saggio di Walter Tocci non è aereo, entra nelle cose concrete, parla di trasporto pubblico e delle municipalizzate, di come si dovrebbero condurre gli appalti per una città che quando scava non può ignorare la sua storia; parla di rifiuti e come organizzare la sua raccolta; propone istituzioni come il Politecnico per rilanciare la proposta culturale e scientifica al mondo. E non dimentica certo, anzi ne è un contrafforte culturale, la questione della rendita immobiliare che ha prodotto secoli di costruzioni avventate e poi una stagione di immobiliarismo e palazzinari diventati proverbiali e purtroppo fonte di molti mali nella crescita disordinata della città, dello sfruttamento della campagna romana e, senza soluzione di continuità, della regione artefatta costruita attorno alla città.
Ci mette in guardia dalle soluzioni retoriche o semplicistiche, tipo aggiungere “Roma Capitale” sulle fiancate delle auto della polizia municipale senza introdurre realmente una strutturazione sostenibile dei servizi tra Roma e gli oltre 120 comuni della “Corona”.
Di tutto questo, della perorazione “light” di Francesco Rutelli e della poetica e filosofica concretezza dinamica di Walter Tocci, quanto esiste nel “dibattito pubblico” della città?
C’è bisogno di rispondere?
Tra le convulsioni su Calenda, e la determinazione del sindaco meno preparato della storia che si ricandida “comunque” (la Raggi), quanti imprenditori romani hanno capito che la rendita immobiliare è finita? Che uno Stato formale senza funzioni statuali non potrà salvarli dalla competizione mondiale?
Quanti dei circa 25mila dipendenti comunali e famiglie e relative connessioni economiche hanno compreso che è tempo di rendere un servizio qualitativamente valido, redistribuendoli sui Comuni Metropolitani oggi ancora municipi amministrativi e con una “testa” organizzativa e programmatica in Campidoglio? Quanti dirigenti delle quasi ottanta municipalizzate, alcune anche in Borsa come Acea, hanno compreso il ruolo e il valore di un’azienda di “servizio pubblico”?
E i cittadini? Roma non è famosa per la sua disciplina, ma come le vicende Covid hanno ricordato la città è un organo di natura biologica: se c’è un’indicazione chiara, neuronale se non genetica, la cittadinanza romana sa riscoprirsi comunità, stringere i denti, rispettare le regole.
Ma deve sentire una guida, un disegno, un destino futuro comune.
Di questo ancora nessuno parla eppure il prossimo anno questa sarà la battaglia politica per eccellenza.
Una battaglia non solo per i romani ma per il “cuore di Roma”. O almeno per non far vincere l’interpretazione della rassegnazione e dello sdegno nel leggere Pasolini. Non si piange davvero per una città coloniale, ma Roma potrebbe perfino scoprire di non volerlo essere più.
Copertina: “Il Mitreo di Corviale, nella periferia ovest di Roma, è uno spazio aperto a cittadini e artisti. Rischiava di chiudere per scadenza della concessione. Siamo riusciti a prorogarla fino a luglio. Avvieremo un percorso per dare continuità a questa esperienza” [da un tweet di @virginiaraggi]

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