Una data destinata a passare alla storia, per il mondo del calcio e non solo: 15 dicembre 1995. Quel giorno, il centrocampista belga Jean-Marc Bosman si vide riconosciuto dalla Corte di Giustizia europea, cui si era appellato, il diritto di cambiare squadra a parametro zero, essendo scaduto da ben cinque anni il suo contratto con il Royal Football Club di Liegi, e fece così crollare i residui muri presenti nel sistema calcistico europeo, dando vita a una nuova era, meglio nota come globalizzazione.
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Dopo la sentenza Bosman, nulla è stato più come prima e vien da dire ad alta voce: per fortuna! Addio al limite di giocatori stranieri tesserabili, purché comunitari, addio allo strapotere delle società sui giocatori e benvenuti in un mondo completamente diverso, peggiore per molti aspetti ma senz’altro migliore sotto questo punto di vista. Del calcio contemporaneo, emblema di una globalizzazione mercificata, senza regole e basata unicamente sullo smisurato arricchimento dei pochi a scapito dei molti, abbiamo detto e scritto più volte tutto il male possibile.
Ci siamo opposti e continuiamo a reputare aberrante lo strapotere del denaro, delle televisioni a pagamento, dei procuratori e di alcuni personaggi bizzosi e infantili che pretendono di essere trattati alla stregua di divinità, con una vorticosa impennata dei prezzi dei cartellini e degli ingaggi, nonché delle pretese complessive di questi parvenu, che ha privato questo magnifico sport di gran parte della sua genuinità.
Fatto sta che la sentenza Bosman ha avuto l’enorme merito di far capire a tutti che nel Ventunesimo secolo frontiere e divisioni etniche non hanno più alcun senso. La Juve non è meno italiana se schiera meno italiani rispetto al passato e lo stesso vale per tutte le altre grandi compagini del calcio europeo: l’appartenenza alla propria nazione è data dalla storia e dalla collocazione geografica ma è bellissimo che un bambino cinese o americano possa innamorarsi di colori e fuoriclasse che può ammirare solo da lontano.

È l’aspetto migliore della comunicazione planetaria, della connessione fra continenti, di una globalizzazione in questo senso sì dal volto umano e capace di mettere in relazione miliardi di persone che nemmeno si conoscono, che probabilmente non s’incontreranno mai ma che sono accomunate dalla stessa passione e dalla stessa gioia nell’assistere a uno spettacolo ineguagliabile.
Dirò di più: sarebbe ora di far crollare l’ultima ridicola barriera e consentire alle società di tesserare anche gli extracomunitari nel numero che ritengono funzionale alle proprie dinamiche interne e al modello di gioco prediletto dall’allenatore, scongiurando nuovi casi Suárez e vincoli anacronistici e stupidi che contrastano con l’essenza stessa del pallone.
La magia del calcio, come sa chiunque lo ami davvero, consiste infatti nell’essere un linguaggio universale, nell’essere in grado di valicare ogni montagna, nel riuscire ad abbattere qualunque ostacolo e nell’accomunare persino i nemici più acerrimi: stati in guerra fra loro, popoli che si sono odiati e continuano a odiarsi ma in quei novanta minuti, sia pur contrapposti, riscoprono la meraviglia del loro essere stati bambini e del loro esserlo, almeno in parte, ancora.

La sentenza Bosman ci ha detto chiaramente che un calciatore è un ambasciatore di bellezza e che la sua forza risiede, più che mai, nella sua libertà, nel suo essere un messaggero di pace, nel suo essere in grado di andare al di là dei conflitti, dei fili spinati e delle battaglie, spesso insulse, che caratterizzano un ambiente, quello dei vertici pallonari, devastato dalle faide intestine e dal giro di interessi, non sempre puliti, che vi ruotano attorno.
Ama il calcio il ragazzino borghese che gioca in un elegante cortile di Roma o di Parigi e lo ama, a maggior ragione, il bambino poverissimo che insegue una palla di stracci in un campo brullo alla periferia del mondo, e magari un giorno s’incontreranno e saranno il Messi e il Ronaldo del futuro, due universi contrapposti, due modi radicalmente diversi di concepire la stessa meraviglia.

Talvolta siamo costretti ad ascoltare dei personaggi, a dire il vero assai patetici, che pongono l’accento sul fatto che una squadra italiana sia scesa in campo con undici stranieri. Qualcuno spieghi loro, cortesemente, che nel calcio non esiste il concetto di straniero perché si tratta di un linguaggio universale, proprio come la musica, in cui per comprendersi non servono le parole: basta uno sguardo, un tocco, la giocata di un campione che si capisce subito di che pasta è fatto ed ecco che si accende la passione popolare che rende quest’incruenta arena unica nel suo genere.
Pallone, e non solo.
Gli eroi del calcio e dello sport
raccontati da Roberto Bertoni

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