Venezia “città vetrina” e il ruolo delle istituzioni culturali

Nei tempi nuovi che ci aspettano dopo la fine dell’emergenza pandemica, la delocalizzazione (o, per meglio dire, l’indifferenza ai luoghi di cui dicevamo all’inizio) potrebbe forse contribuire a trasformare ciò che oggi viene semplicemente esposto con qualcosa che ha legami permanenti con la città.
GUIDO ZUCCONI
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Quali prospettive apre a Venezia la fase di straordinaria criticità che sta vivendo la città? L’abbiamo chiesto a Gianpaolo Scarante, con l’idea di aprire una discussione sulla nostra rivista. All’intervento del presidente dell’Ateneo Veneto è seguito quello di Roberto Ellero. Ora è la volta di Guido Zucconi.

“Niente sarà più come prima!”. Questo ritornello, a metà strada tra speranza e minaccia, accompagna le nostre giornate di reclusi nel tempo della pandemia. Il refrain vale soprattutto per le attività intellettuali (quelle che una volta, con generosità, si chiamavano i “lavori di concetto”): in quell’ambito, l’immaterialità del prodotto rende secondario il problema del dove. Nel futuro, la questione potrebbe diventare addirittura irrilevante.

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Stanno nascendo, in questi mesi, nuove modalità per gestire programmi di ricerca, per offrire cicli di lezioni, per organizzare meeting, seminari, convegni. Le piattaforme “in remoto” hanno moltiplicato (a volte, anche in modo eccessivo) le occasioni d’incontro e di discussione. Tutto questo non cesserà il giorno in cui potremo uscire dall’emergenza: al contrario potrà offrire una base fondamentale per preparare una fase da gestire necessariamente in presenza. Qualcuno predice la morte dei convegni tradizionali, interamente sostituiti da sessioni on-line.

Qualcosa di analogo sta avvenendo nel mondo dell’arte; in questo caso sull’altro versante, quello del consumo. Di fronte all’attivismo di molte istituzioni, c’è chi sta teorizzando la fine dei luoghi tradizionali, come il museo e la galleria. La contemplazione in situ delle opere d’arte sarebbe completamente sostituita in un prossimo futuro da tour virtuali e, in generale, da una fruizione in remoto.

In materia di convegni (sul lato della produzione culturale) e di visite alle raccolte artistiche (sul lato del consumo), questo genere di previsioni (colorate di high tech) sembra ricalcare la stessa traccia percorsa nel momento in cui la registrazione sonora fece il suo ingresso nel mondo della musica. Anche allora, ad inizio Novecento, c’era chi decretava la scomparsa dei concerti dal vivo. In realtà i dischi permisero un ampliamento dei fruitori, ma non cancellarono le performance musicali. Lo stesso avverrà, molto probabilmente, nell’ambito delle attività che abbiamo prima descritto: una volta che la catastrofe sarà terminata e saremo liberi di incontrarci, aumenterà di molto la porzione on-line di meeting e convegni, ma senza per questo sostituire in toto una fase da gestire necessariamente in presenza. Analogamente, si moltiplicheranno le possibilità di godere delle opere d’arte a distanza, ma non per questo i musei chiuderanno i battenti.

La sala di lettura dell’Istituto Veneto in attesa della riapertura

Ovviamente, si colloca in prima linea il problema del come e del dove produrre (oltre che offrire) cultura, specialmente in un luogo come Venezia ove questi aspetti dovrebbero essere cruciali per definirne il destino. Sembrerebbe, di primo acchito, che la città insulare possa trarre profitto da una smaterializzazione del luogo ove si produce, si celebra o si consuma un evento o una serie di eventi legati all’arte e alla cultura. Là dove l’automobile non arriva, dove l’accesso continua a presentare difficoltà, grandi vantaggi potrebbero giungere proprio da questa condizione letta in un’ottica completamente ribaltata: se, nei decenni della modernità accelerata, le incongruenze della slow city facevano da freno, ora potrebbero costituire un vantaggio per l’insediamento di nuove attività. 

Nonostante la prevalente cultura del pianto, Venezia offre un eccezionale panorama di centri e di istituzioni dedicate all’arte e alla storia, in una parola alla cultura: oltre ai due atenei (addirittura cinque se aggiungiamo l’Accademia, il Conservatorio e la Venice International University) può contare su di una lunga serie di istituzioni private e semi-private, come la Fondazione Querini-Stampalia, l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, la Fondazione Giorgio Cini, l’Ateneo Veneto, la Biennale, la Fondazione di Palazzo Grassi. Alcune si dedicano alle sole attività espositive, ma la più parte dispone di un poderoso armamentario costituito da biblioteca, spazi per convegni e per mostre, oltre a una propria capacità editoriale. Vi sono, in certi casi, anche cospicue collezioni d’arte.

Una recente riunione a distanza della Venice International University

Poche città in Italia possono vantare una struttura di queste dimensioni e di questa vivacità. Il problema è, secondo me, di altro genere: come contribuire a fare sì che questi importanti hub culturali non funzionino da semplici vetrine per iniziative prodotte altrove? Alcune, come la Fondazione di Palazzo Grassi, sono statutariamente consacrate a questa sola funzione; altre, come la Biennale, lo sono diventate nel tempo. Dopo il 1945 e fino agli anni Sessanta del Novecento esisteva infatti un forte legame tra la Biennale e la “scuola veneziana” (con pittori quali Vedova, Santomaso, Pizzinato per citarne solo alcuni): vi erano poi strette connessioni con galleristi di respiro internazionale come Carlo Cardazzo. Un colpo mortale arrivò, dopo il 1968, dal pur nobile intento di cancellare i risvolti mercantili, affinché l’arte potesse emergere in tutta la sua virginale purezza. Il risultato è stato che, durante e dopo le Biennali, le trattative commerciali si svolgono a Londra e a New York (e in minima parte a Milano). Con motivazioni analoghe, a Venezia non si acquistano i diritti dei film proiettati durante la rassegna settembrina, mentre a Cannes sì e questo costituisce una delle ragioni della sua supremazia nel mondo dei festival.

Eppure nei giorni dell’inaugurazione, a Venezia, oltre a un buon numero di artisti di spicco, ci sono tutti i direttori dei principali musei d’arte contemporanea, i principali critici, i maggiori mercanti e collezionisti. Lo stesso vale per il mondo della celluloide: anche in questo caso, una volta chiuso il sipario, tutto il milieu cinematografico giunge nella città lagunare, per poi passare senza lasciare alcuna traccia, come l’acqua sulle pietre.

Installation view, Stanze del vetro (ph. Enrico Fiorese)

Come fare perché Venezia non funzioni da semplice vetrina? Come possono le tante e solide istituzioni culturali contribuire a fare sì che iniziative di livello mondiale lascino un segno nell’esistenza ordinaria della città? Come possano favorire nuove, permanenti iniziative nei rispettivi campi? Una piccola ma significativa esperienza viene dalle “Stanze del Vetro”, spazio espositivo nato di recente nell’ambito della Fondazione Cini: le mostre hanno un forte legame con la storia e la tradizione locale, anche di quella a tutt’oggi attiva. Le iniziative hanno perciò il merito di valorizzare, oltre che fare conoscere e contribuire a rilanciare straordinarie produzioni muranesi. Oggi le “Stanze del Vetro” rappresentano un riferimento internazionale per tutti i collezionisti, per gli esperti e per i musei impegnati su questo fronte, ma senza per questo perdere il legame con la cultura locale.

Nei tempi nuovi che ci aspettano dopo la fine dell’emergenza pandemica, la delocalizzazione (o, per meglio dire, l’indifferenza ai luoghi di cui dicevamo all’inizio) potrebbe forse contribuire a trasformare ciò che oggi viene semplicemente esposto con qualcosa che ha legami permanenti con la città.

Venezia “città vetrina” e il ruolo delle istituzioni culturali ultima modifica: 2020-12-20T20:14:45+01:00 da GUIDO ZUCCONI
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1 commento

ytali. - Il futuro ibrido delle istituzioni culturali. Il caso di Venezia 5 Gennaio 2021 a 17:33

[…] del presidente dell’Ateneo Veneto sono seguiti quelli di Roberto Ellero , Guido Zucconi, Franco Avicolli. Ora è la volta di Giuseppe […]

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