Il dissenso cinese ha già nostalgia di Trump

L’opposizione democratica di Hong Kong vede l’ormai ex-presidente come una figura quasi messianica che ha finalmente dato il giusto peso alla lotta contro la dittatura del partito. Di Biden, novello “Chamberlain”, si fidano poco.
NICCOLÒ FANTINI
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In un recente articolo su questa rivista Claudio Landi analizza tre punti salienti che saranno, per forza di cose, al centro dell’attenzione della futura amministrazione Biden-Harris. Landi menziona il tema del commercio, della tecnologia e delle banche centrali. Andrebbe aggiunto quello del conflitto ideologico, che in un certo senso può essere collocato al di sopra, o meglio, tra le righe delle altre variabili nella relazione.

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Per comprendere meglio il modo in cui le politiche sino-americane stanno riverberando sempre più a livello globale e ideologico basta dare un’occhiata a un fenomeno sorprendente: i dimostranti pro-democrazia di Hong Kong, che dallo scorso anno lottano senza sosta per il suffragio universale e i loro diritti fondamentali, hanno acclamato Trump e tifato per la sua vittoria su Biden, arrivando perfino ad accusare le autorità americane e i media di brogli e favoritismi. Sembra a dir poco una contraddizione.

Com’è possibile che i sostenitori di princìpi come democrazia e uguaglianza siano allo stesso tempo ardenti sostenitori di una figura controversa come Trump, che ha ripetutamente dato segno, come nel caso della vicenda ucraina, di ignorare e calpestare le norme costituzionali del suo paese? Com’è possibile che uno come Trump, che invitò un dittatore come Kim Jong-un a sedersi al tavolo negoziale e che, attraverso il suo strumento preferito, twittava di come avesse una speciale bromance con il generale nord-coreano?

La relazione tra Stati Uniti e Cina è andata oltre la semplice realtà, ed è entrata in una dimensione molto più complessa ed estremamente delicata: quella del conflitto ideologico. La linea pro-Trump dei dimostranti a Hong Kong è dettata da uno scopo ben preciso: il rovesciamento del regime comunista in Cina. Trump è visto come una figura quasi messianica che ha finalmente dato il giusto peso alla lotta contro la dittatura del partito e ha riconosciuto il pericolo che esso pone non solo nei confronti della Cina ma per il resto del mondo, Stati Uniti compresi. È in questi termini che sono interpretate le iniziative intraprese da Trump e dalla sua amministrazione, Mike Pompeo in primis, nei confronti del Pcc e di aziende cinesi. Vista attraverso questa lente, la guerra commerciale diventa ben più che un problema economico e assume tutti i contorni di una dicotomia culturale e ideologica. Poco importa, secondo questa visione, se nei suoi intenti Trump era più che altro occupato a fare campagna elettorale e a garantirsi un costante sostegno della Rust Belt americana.

Questa visione non si limita ai dimostranti di Hong Kong. Il dramma ideologico e la lotta tra sistemi stanno raccogliendo proseliti ovunque, specialmente a Taiwan e tra la comunità di emigrati cinesi, i quali spesso sono fuggiti dal regime di Pechino e ora lo additano come una crescente minaccia esistenziale. Lentamente, ma inesorabilmente, la questione ha raggiunto l’apice del governo americano, a cui ancora in molti, in tutto il mondo, fanno affidamento.

Il problema di come gestire le relazioni sino-americane è stato un tema centrale della recente campagna presidenziale. Due sono le opzioni, ognuna delle quali esclude l’altra e comporta un’interpretazione diversa delle circostanze alla base.

Da un lato vi è la strategia liberale, che richiama gli Stati Uniti e la Cina a un dialogo costruttivo, svolto all’interno di solide strutture cooperative internazionali. Questa è la linea che più si potrebbe associare con Biden e i democratici, i quali per lungo tempo si sono opposti con fermezza alla guerra commerciale condotta da Trump e hanno spesso criticato le scelte isolazioniste e talvolta retoricamente aggressive dell’amministrazione repubblicana.

Dall’altro invece troviamo una posizione ben più realista, bene o male perseguita da Trump e i suoi fedeli, che rifiuta la possibilità di una cooperazione basata su regole comuni e investe invece su un approccio condensato da The Donald in slogan quali “fire and fury” e “America First”. È questa strategia, che Trump ha portato avanti con azioni come la messa al bando di TikTok e la campagna contro Huawei, che i dimostranti di Hong Kong sostengono con convinzione, sventolando le bandiere americane. Per loro, e per i loro sostenitori negli Stati Uniti, è la via per piegare il partito di Pechino e vincere una battaglia essenzialmente ideologica che andrà a determinare il futuro dei due paesi e del mondo intero.

Si potrebbe perfino parlare di un nuovo standard generale dell’Occidente nei confronti della Cina, che si è fatto sentire con forza in Europa dopo l’impatto di Covid-19. Lo stesso Biden ha dovuto fare marcia indietro a metà campagna, puntando il dito con più forza e con più vigore contro Pechino, temendo che il suo retaggio di politico in buoni rapporti con la Cina avesse potuto pregiudicare la sua vittoria. E ancora molti, soprattutto a Hong Kong, si chiedono se Biden sia “the right man for the job”. Alcuni hanno perfino parlato di un “Momento Chamberlain”, nel quale l’Occidente perde l’ultima opportunità di riconoscere il rischio posto dalla Cina di Xi Jinping.

Il dissenso cinese ha già nostalgia di Trump ultima modifica: 2020-12-22T08:17:51+01:00 da NICCOLÒ FANTINI
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