Di Fondazione in Fondazione, fino alla vittoria

Meriti e demeriti di un libro sul dominio invisibile. Considerazioni sul recente libro di Marco D’Eramo, edito da Feltrinelli.
MICHELE MEZZA
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Scriveva un piccato e irascibile Carlo Marx, rivolgendosi alla platea dei socialdemocratici tedeschi della prima Internazionale, sempre rassegnati nelle scelte di contrasto al nascente potere industriale, che “i sudditi pensano di essere tali perché i Re sono re, mentre i Re sono tali perché loro sono sudditi.”

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Un aforisma che rovescia l’assioma su cui è costruito il documentatissimo libro di Marco D’Eramo Dominio, la guerra invisibile dei potenti contro i sudditi (Feltrinelli). Un reportage dettagliatissimo sulle forme dei poteri che le élite finanziarie hanno costruito mediante una sapiente strategia di condizionamenti e oppressioni culturali.

D’Eramo, studioso di lunga lena, un vero analista della semiotica del potere, brandisce una tesi che non teme di sfidare consolidate visioni ed evidenti fenomenologie delle nuove cartografie delle gerarchie sociali e della costruzione dei nuovi gruppi dirigenti del pianeta. 

Richard King Mellon, conosciuto come R. K. (1899-1970). La Fondazione che porta il suo nome e fondata nel 1947 ha sede a Pittsburgh

Sullo sfondo del dipanarsi del suo ragionamento, sempre supportato da testi e richiami documentali, il quesito sull’inversione di ruoli fra rivoluzionari e rivoluzionati. L’autore parte infatti da una citazione de La Politica di Aristotele che rimane in filigrana come cornice di tutto il suo libro:

 Coloro che vogliono l’eguaglianza si ribellano se pensano di avere di meno, pur essendo uguali a quelli che hanno di più, mentre quelli che vogliono diseguaglianza e superiorità si rivoltano se suppongono che, pur essendo diseguali, non hanno di più, ma lo stesso o di meno degli altri […]: in effetti quelli che sono inferiori si ribellano per essere eguali, quelli che sono eguali per essere più grandi. 

In questo dualismo fra i più che hanno meno e i meno che hanno più D’Eramo trova le basi filosofiche di quella rivoluzione delle élite contro i popoli che cerca di dimostrare per tutto il suo saggio e scrive in uno dei passaggi chiave del testo:

È una tesi illuminante, e sconvolgente. Perché ci apre orizzonti che prima ci erano nascosti, quelli di una rivoluzione non dal basso contro l’alto, ma dall’alto contro il basso. Aristotele ci dà un’indicazione in più: “Nelle oligarchie a rivoltarsi sono i più, ritenendo di essere trattati ingiustamente perché, pur essendo eguali, non hanno, come s’è già detto, gli stessi diritti degli altri, mentre nelle democrazie sono i notabili a rivoltarsi perché hanno gli stessi diritti degli altri pur non essendo eguali” (v, 1303b). Ci suggerisce che, a spingere troppo in là verso la democrazia, i dominanti reagiscono rivoltandosi contro i dominati.

Siamo oltre la rivoluzione passiva di gramsciana memoria, siamo a una vera e propria rivolta di classe dall’alto, dove ristretti gruppi di templari del capitalismo finanziario, infeudando le istituzioni del sapere grazie allo strumento delle Fondazioni, sbriciolano prima il tessuto dei partiti di massa, che aveva permesso al popolo di irrompere sulla scena della politica, recintando gli ambiti delle decisioni e privatizzando, nella nuova economia del sapere, proprio le fonti della conoscenza.

Una strategia estesa, articolata, capillare e totalizzante che, per D’Eramo, deve avere la caratteristica dell’invisibilità. Lui infatti parla di stealth revolution, citando la filosofa statunitense Wendy Brown, spiegando che

l’aggettivo stealth è ripreso dal linguaggio bellico, dall’aviazione militare: i bombardieri sono stealth se non si lasciano rintracciare dai radar.

Proprio il ricorso a questa figura dell’invisibilità di poteri che agiscono nell’ombra è il segnale di una irrisolta fragilità dell’idea forza del libro.

Non possiamo infatti non chiederci se sia oggi possibile, nel mondo della disintermediazione dei poteri, dove le istituzioni sia politiche sia finanziarie sudano a tutte le latitudini del pianeta per la pressione di una disordinata – a volte inconcludente – ma ormai sempre incalzante opinione pubblica che preme e contesta ogni singola decisione, orchestrare il senso comune dei popoli dall’alto di scranni che rimangono invisibili?

La domanda rimane sospesa nella lettura. Scientemente ignorata, se non proprio respinta dall’autore, che procede di slancio nell’esibizione delle prove del grande complotto delle fondazioni dei ricchi, come potremmo chiamare questa lotta di classe al contrario.

In fin dei conti Cambridge Analytica ha alterato la democrazia americana, ma alla fine Biden è alla Casa Bianca, e Brad Parscale e Alexander Nix, i due dioscuri della manomissione, sono disoccupati.

Come diceva Churchill: è possibile imbrogliare molte persone per poco tempo, e poche persone per molto tempo, ma non è mai possibile continuare a imbrogliare tante persone per lungo tempo. O no?

La dichiarazione di guerra, l’atto che apre le conflittualità delle élite, più o meno è datata alla fine degli anni Settanta, quando entra in campo un inner circle di guru della politica, scienziati della comunicazione e magnati della finanza, che sotto l’ala protettiva di Ronald Reagan coltivano la strategia contro le intelligenze della democrazia. Scrive D’Eramo: William E. Simon (1927- 2000), già ministro del Tesoro con Richard Nixon prima di divenire presidente della Fondazione Olin, coniò pochi anni dopo il termine counter-intelligentsia (mutuato dalla nozione militare di counter-insurgency), perché

le idee sono armi – le sole armi con cui altre idee possono essere combattute.

Si rovescia qui il famoso paradosso enunciato nel film La Battaglia di Algeri, di Gillo Pontecorvo, quando, stretto fra la rivolta algerina e dall’agitazione degli intellettuali democratici francesi, il comandante del corpo di spedizione contro rivoluzionario ad Algeri, colonnello Mathieu si chiede “come mai i Sartre nascono sempre da una parte sola?”

La cultura e l’intelligenza cambiano campo, e iniziano a lavorare per i ricchi, sostiene di fatto D’Eramo, cogliendo cronachisticamente un dato di fatto: la destra diventa egemone anche culturalmente, cominciando a ruminare linguaggi, valori e interessi, allineandoli in un unico e omologato percorso. Ma perché ciò avviene? Perché dopo il decennio del ’68, quando l’egemonismo della sinistra sembrava contendere alla stessa borghesia più privilegiata i propri figli, s’invertono i ruoli fra i dominati e i dominanti?

La risposta del libro, che sintetizzo brutalmente, concentrando una corposa analisi di testi e di atti in poche battute, potremmo identificarla in una sorta di patto di cinque famiglie. Si legge infatti nella ricostruzione del testo:

le altre cinque famiglie che più incisero sulla controffensiva reazionaria furono i Mellon Scaife (Pittsburgh, Pennsylvania), i Bradley (Wisconsin), i Coors (Colorado), gli Smith Richardson (North Carolina), i Koch (Kansas).

La Lynde and Harry Bradley Foundation (LHBF), in precedenza col nome di Allen-Bradley Foundation, fu fondata nel 1942, a Milwakee, Wisconsin

Lo strumento della strategia di controllo delle democrazia fu la fondazione, meglio ancora il think tank, che viene così analizzato nei suoi effetti geopolitici:

Il think tank è un’entità peculiare, il cui uso estensivo risale solo al secondo dopoguerra: il 2019 Global Go To Think Tank Index Report enumera nel mondo 8248 istituti di questo tipo: il 52 per cento si trova in Europa (2219) e Nord America. Dei 2058 think tanks nordamericani, il 91 per cento (1871) è statunitense. Ma più interessante è che l’86 per cento dei think tanks è stato fondato dopo il 1950, che il loro numero negli Usa è più che raddoppiato dal 1980 al 2019 e che il decennio d’oro per la creazione di think tanks furono gli anni ottanta, quando vide la luce il 29 per cento di essi. Nell’ultimo decennio si ha invece un rallentamento della crescita negli Usa e in Nord America. 27 Per usare la terminologia di Louis Althusser, il think tank è un “apparato ideologico” di tipo nuovo, che si situa a monte degli apparati ideologici tradizionali (scuola, chiesa, indottrinamento militare) o anche più recenti (mass media, soprattutto radio, tv e oggi social network).

La combinazione dei due fenomeni – protagonismo politico delle grandi fortune finanziarie e penetrazione nelle istituzioni degli incubatori di soluzioni teleguidati dagli interessi – in Nord America sostituisce completamente la dialettica dei partiti, che diventano succubi delle lobby culturali, e tracima in Europa, diventando il sostitutivo della fragilità della forma partito.

La tesi, che, ripeto, poggia su una messe di richiami, citazioni e ricostruzioni storiche che colmano un buco nero nel dibattito italiano, sembra esplicitamente ignorare ogni aspetto della dinamica sociale. Solo in un capitolo, espressamente dedicato al controllo sociale digitale, affiora la variante tecnologica. Ma sempre intesa come strumento e coadiuvante della strategia “stealth” di manipolazione delle masse. Il saggio di Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, che suffraga abbondantemente le tesi sulla manipolazione delle nostre relazioni sociali da parte del famigerato GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft), come già solo il clamoroso caso di Cambridge Analytica dimostra, è però letto solo nella parte di denuncia degli eccessi predittivi e di profilazione che si concedono i monopoli della rete. Mentre, e questo mi pare il vero punto debole del libro, è del tutto ignorato l’effetto strutturale, di ridisegno sociale e di produzione “ideologica”, realizzato mediante l’adozione planetaria di una forma del tutto inedita di produzione del valore, basata sull’automatizzazione delle attività discrezionali grazie alla potenza di calcolo, degli algoritmi per intenderci, prima ancora che dei big data.

Proprio il puntuale riferimento al Marx dei Grundrisse più che del Capitale, che pure si trova nel testo, con la citazione del celeberrimo frammento sulle macchine, non spinge l’autore a una riflessione più aderente proprio a quella previsione marxiana che anticipa come il paradigma dell’industrializzazione, che ha generato per tutto il Novecento quella dialettica sociale che D’Eramo sembra così rimpiangere, sarebbe stato superato e stravolto da una nuova forma di produzione basata sul sapere.

Questo passaggio è del tutto assente nella disamina socio-storica che nel libro ripercorre l’intero dopoguerra. Non a caso, nella minuziosa esegesi di documenti e ricerche che scandiscono nel libro il crescendo della dittatura delle fondazioni, manca forse il tassello principale, che offre una base teorica e materiale a quel processo di guerra ideologica al protagonismo delle masse.

Mi riferisco al saggio di Vannevar Bush As We May Think, pubblicato nel luglio del 1945 su The Atlantic, dove il grande sociologo americano, rispondendo a un quesito del dipartimento di stato americano – siamo ancora a guerra in corso, notiamo – che chiedeva quale sarebbe stata la strategia migliore per contrastare il temuto egemonismo sovietico nel mondo occidentale, rispondeva con la prima e compiuta intuizione di un’economia basata sulle relazioni della conoscenza. Bush, infatti, traducendo in termini geopolitici la visione post-industriale che la sociologia americana aveva già abbozzato prima della guerra, e che poi sarebbe stata completata dalle visioni di Kenneth Galbraith sul consumismo, spiegava come un’ideologia basata sul contrasto diretto nei luoghi di lavoro poteva essere neutralizzata solo superando la centralità della fabbrica come motore della ricchezza.

Qui inizia la corsa del nuovo capitalismo immateriale che, sulla spinta delle ricerche belliche di Turing, Shannon e di tutto il filone cibernetico, arriva alla svolta degli anni Sessanta, con il primo nodo di rete nel ’69 e l’esplosione nel decennio successivo della microelettronica, per miniaturizzare la catena di montaggio.

Al netto dei malefici delle fondazioni nordamericane, è in questo gorgo che si perde la negozialità sociale del movimento del lavoro, e con essa la centralità della politica come terreno di confronto dei partiti di massa. 

Tutta questa straordinaria riformulazione della società civile che diventa un pulviscolare sistema relazionale punto a punto che copre tutto il pianeta è sintetizzato da D’Eramo in poche righe, segnalando come 

lo smartphone, l’iPod, il tablet, i laptop portano con te la tv, il giradischi, la radio, i videogiochi, il telefono non più fisso. E tutto ciò che prima era disponibile in uno spazio ben definito (casa, ufficio, cinema) diventa perpetuamente accessibile ovunque. Ma l’altro lato della medaglia è che tu sei raggiungibile ovunque. E questo fatto da solo altera in modo irreversibile il tuo rapporto con lo spazio, col tempo, con il lavoro.

Una visione in vero troppo essenziale di un processo antropologico che come mirabilmente più di vent’anni fa Manuel Castells spiegava nella sua trilogia su La Società in rete

ciò che è cambiato non è il tipo di attività che impegna l’umanità, ma la sua abilità tecnologica nell’impiegare come forza produttiva diretta ciò che contraddistingue la nostra specie come eccezione biologica: la sua superiorità nell’elaborazione di simboli.

Questo è il buco nero in cui il movimento operaio è stato inghiottito con il corredo delle convenzioni, garanzie e tutele che aveva conquistato nella società precedente. Del resto è proprio Marx che rimprovera Proudhon di non accorgersi che “il mulino ad acqua è la società feudale, il mulino a vapore la società capitalista”. Quale società è disegnata dal mulino digitale?

Aggirando completamente questo spartiacque, D’Eramo sembra constatare, senza darsi ragione, come siano del tutto cancellate le lotte sociali nel pianeta, dove non esiste più attributo nei processi produttivi. E ne deduce che solo un imbarbarimento, che non può essere che indotto dal prevalere di barbari, può spiegare questo prodigio.

Senza lotte non ci sono buone leggi, dice l’autore, rifacendosi a messer Machiavelli:

Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma, e che considerino più a romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano; e che e’ non considerino, come e’ sono in ogni repubblica due umori diversi, quello del popolo e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà nascano dalla disunione loro […]. Né si possono per tanto giudicare questi tumulti nocivi, né una repubblica divisa […] perché li buoni esempi nascano dalla buona educazione, la buona educazione dalle buone leggi, e le buone leggi da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano; perché chi esaminerà bene il fine d’essi, non troverà ch’egli abbiano partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della pubblica libertà.

Ecco, conclude D’Eramo

Machiavelli l’ha detto: “le buone leggi nascono dai tumulti”.

Ma allora perché non ci sono tumulti se così sperequata e ingiusta appare la società contemporanea? Per la demoniaca azione delle fondazioni nord americane? Per il sequestro di sapere da parte di lobby e confraternite? E perché i Sartre non nascono più a sinistra? 

Tutte domande che sono espunte dal saggio che stiamo analizzando, e che invece sembrano in qualche modo previste dal solito Marx che così risponde:

in tutte le forme di società è una produzione determinata che assegna rango e influenza tutte le altre, come del resto anche i suoi rapporti sociali assegnano rango a tutti gli altri.

È sempre da qui che bisogna partire, da quel richiamo che Bertold Brecht rivolgeva ai suoi compagni socialdemocratici tedeschi che discutevano le ragioni ideologiche dell’avvento del nazismo: compagni, attenti ai rapporti di produzione. Tanto più se sono diffusi, immateriali e pervasivi. Esattamente come aveva previsto Vannevar Bush, che, forse per questo, non ebbe bisogno di farsi una fondazione.

Di Fondazione in Fondazione, fino alla vittoria ultima modifica: 2020-12-31T12:29:20+01:00 da MICHELE MEZZA
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