Leggere papa Francesco è sempre interessante e stimolante. Quando parla di sport, almeno ai miei occhi, ancora di più. Non c’era mai stato, infatti, un pontefice così sinceramente appassionato e partecipe delle vicende sportive, così determinato a manifestare il proprio interesse e a testimoniare concretamente la propria passione per tutto ciò che è popolare e vicino alle masse. Il che dimostra, ancora una volta, l’unicità di Francesco, la sua visione politica e civile, la sua idea di società e di mondo.

Lo sport come fattore decisivo di inclusione e valorizzazione dell’essere umano, lo sport come esempio di globalizzazione dei diritti, lo sport come educazione alla lealtà, al rispetto reciproco, all’accettazione delle regole e all’attenzione nei confronti degli altri. Il calcio, in particolare, è nel cuore di Sua santità, gran tifoso del San Lorenzo de Almagro e innamorato del gioco e della sua bellezza. Francesco è figlio dell’Argentina profonda, l’Argentina dei campi di terra e di fango, in cui una pelota de trapo, una palla di stracci, è il sogno di ogni bambino, la speranza di riscatto degli ultimi, il giocattolo preferito nelle periferie disperate, un elemento di uguaglianza, forse l’unico, nel regno della disuguaglianza e dell’ingiustizia.
E poi le Olimpiadi, con la loro Carta che, come ha ricordato il pontefice, in un passaggio recita:
Contribuire alla costruzione di un mondo migliore, senza guerre e tensioni, educando i giovani attraverso lo sport praticato senza discriminazioni di alcun genere, in uno spirito di amicizia e di lealtà.

Nella lunga e bellissima intervista rilasciata alla Gazzetta dello Sport, una sorta di enciclica laica su un tema che, ribadiamo, nessun predecessore aveva mai trattato con tanta cura e attenzione, papa Francesco ha delineato anche la sua strategia di lungo periodo, volta all’inclusione, alla lotta contro ogni discriminazione, al ripudio della violenza, all’affermazione degli ideali di giustizia e libertà, a una concezione in cui la dimensione spirituale e quella materiale si prendono per mano, al rifiuto dell’onnipotenza del mercato e del denaro come uniche basi in grado di regolare il nostro stare insieme, alla rivendicazione dello spirito di sacrificio come ideale superiore e all’esortazione a non arrendersi mai di fronte alle difficoltà, comprese le peggiori.

Francesco è un utopista concreto, un sognatore che ama la vita e non ha paura di confessare le propria fragilità, le proprie incertezze, le infinite fatiche che è costretto ad affrontare ogni giorno. Nello sport, e nel calcio in particolare, incontra la poesia delle masse che si fanno popolo, l’aggregazione nel senso migliore del termine, quella fratellanza universale che è alla base della Fratelli tutti, il senso stesso della sua missione evangelica e pastorale e una potente molla per indurre ciascuno a dare il meglio di sé.

Insomma, una metafora del mondo come dovrebbe essere, incarnata dai cinque cerchi olimpici che si sovrappongono e, Covid permettendo, illumineranno la prossima estate in un paese, il Giappone, martoriato da due atomiche nel ’45 e dalla tragedia di Fukushima nel marzo di dieci anni fa. Nessuno si salva da solo: questa è la frase che riassume meglio di ogni altra il significato del suo impegno quotidiano, il concetto su cui si fonda la sua intera vita. E poi il perdono, l’accettazione della sconfitta, l’orrore nei confronti del doping e delle vittorie sporche, la comprensione della propria dimensione umana anche quando si hanno i piedi di Maradona, l’immensità di Bartali, Giusto fra le nazioni per aver salvato centinaia di ebrei dalla deportazione nei lager: Francesco, all’inizio di un anno che si preannuncia tutt’altro che semplice, ci ha regalato un manifesto che parla di sport ma va ben al di là, rivelandosi l’indicazione di un cammino e un intenso messaggio di pace e apertura. Nell’estrema difficoltà che stiamo vivendo, ne avvertivamo il bisogno.

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raccontati da Roberto Bertoni

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