Vi è solo un unico
contrappeso
contro l’infelicità:
bisogna cercarlo
e trovarlo
e questa è felicità
Così scriveva Erich Fried, poeta austriaco infelice e fuggiasco, ebreo esule dopo l’Anschluss hitleriano della sua patria ormai perduta nel buio profondo del Terzo Reich. La versione originale di questi versi è più cupa e le parole risultano come scolpite nella durezza sillabica della lingua tedesca:
Es gibt nur
ein einziges
Gegengewicht
Gegen Unglueck:
das muss man
suchen
und finden
und das ist Glueck.
A un secolo esatto dalla sua nascita (1921, Vienna), l’intellettuale ebreo fuggito in Gran Bretagna nel 1938 assieme a tanti altri suoi compatrioti di fede israelita (alla malinconica e lunga tradotta verso l’esilio partecipò anche Sigmund Freud) viene riscoperto in patria e altrove per la carica di rabbiosa ira, il desiderio di risarcimento morale e l’avversione a ogni compromesso etico che vibrano nei suoi versi, in cui ribellione e coraggio civile si fondono in un’unica voce di denuncia.

Dopo la parentesi del cancellierato del mite e cattolicissimo conservatore Engelbert Dollfuss (1932-34) che, grazie all’esplicito e determinante aiuto di Mussolini, aveva sventato un primo tentativo di annessione alla Germania hitleriana, l’Austria si trovò improvvisamente, nel ’38, sull’orlo del baratro. Dollfuss era stato assassinato quattro anni prima da un gruppo di nazionalisti viennesi (omicidio probabilmente ispirato da Berlino, anche se Hitler negò ogni responsabilità tedesca nell’attentato che avrebbe poi spianato la strada all’annessione). Ma nel ’38 Mussolini, diplomaticamente isolato in Europa a causa delle ‘inique sanzioni’ seguite alla guerra d’Etiopia, non si mosse una seconda volta. L’amarezza del diciassettenne profugo Fried suonerà per molto tempo come un leitmotiv nella musica dei suoi versi:
Ricordare è forse
il modo più tormentoso
di dimenticare
e forse
il modo più gradevole
di lenire questo tormento.
(Erinnern / das ist vielleicht / die qualvollste Art / des Vergessens und vielleicht / die freundlichste Art / der Linderung dieser Qual)

Poeta e testimone della violenza e profeta, al pari di Joseph Roth e Stefan Zweig, dell’abisso in cui stava per precipitare l’Europa, Fried vide nell’imminente conflitto l’accelerazione delle paure che l’esilio e l’esclusione avevano generato tra i giovani di fede israelita e che, come lui, trovarono rifugio in Inghilterra o negli Stati Uniti o nell’America latina, come avvenne per Zweig, morto poi suicida in Brasile nel 1942. Il suo spaesamento, la sua incapacità di ritrovare le proprie radici furono la matrice della sua vena creativa.
Come ricorda il germanista Luigi Forte, Fried ebbe modo di
frequentare molti luoghi – anche mentali e culturali – ma non conobbe radicamento.
Il suo estraniamento dal mondo era profondo anche se in alcuni periodi
fu un po’ dappertutto: nella lingua tedesca, fra spezzoni di cultura danubiana, nella tradizione ebraica, in esilio, attorniato dai fantasmi di un passato che non si lasciavano congedare.

Finis Austriae
C’è da ricordare che per tre volte in meno di trent’anni (dal 1918 al 1945) l’Austria fu travolta da crisi epocali. La disgregazione e la dissoluzione dell’Impero Austroungarico nel ’18, l’annessione al Terzo Reich germanico nel ’38 e la sconfitta del ’45 con l’occupazione delle truppe vincitrici (la dura occupazione russa di Vienna terminò solo nel 1955) si tradussero in uno stress mentale collettivo, in una crisi depressiva nazionale solo in parte superata grazie al ruolo rigenerante e unificante della cultura, della musica, della letteratura, della poesia. Un periodo di rinascita in cui la cultura ebbe un ruolo “agglutinante”, come fu detto. Qualcosa di simile, almeno in parte, a ciò che accadde in Italia dopo la disfatta dell’ultima guerra, con il neorealismo nel cinema e un generale rifiorire delle arti e delle lettere.
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La poesie che Fried scrisse negli ultimi anni, prima della sua morte a Baden Baden nel 1988, segnano una cesura con i precedenti periodi e, rispetto ai versi tutti orientati alla ricerca di un’etica perduta, di una responsabilità comune dimenticata, il poeta di Vienna comincia a esplorare temi venati da un sempre maggior intimismo, da un sempre più convinto esame dell’uomo come singolo, della persona come individuo unico, soggetto-oggetto degli amori e degli affetti così come degli “strali dell’avversa fortuna” (per scomodare il Bardo…).
Dopo la raccolta di versi del ’79, dall’indicativo titolo Cento poesie senza patria, Erich Fried ripercorre con versi acuminati nella raccolta È quel che è (Es ist was es ist, con l’indicativo sottotitolo di poesie d’amore, di paura, di collera) l’itinerario di una vita di passioni politiche:
Chi è già provato dalla vita
continua a crucciarsi
di non saper rispondere
a domande mai poste...
E, ancora:
…e se accetto tutto questo
e non dico niente
non è colpa mia:
Io sono la foresta
che a forza di vedere alberi
non vede se stessa…
Ma in età ormai avanzata, come si diceva, Fried sembra riscoprire l’amore svestendo i panni dell’inquisitore. Ritrovando, a volte, lo stupore dell’infanzia:
Alla fine forse saluterò di nuovo gentilmente
come da bambino quando ero solo:
“Buon giorno, signor fiore, Buona sera signor albero.”
Inchinandomi e toccandoli con la mano li ringrazierò per avermi concesso il loro tempo…

Copertina: Chi vuole che il mondo rimanga com’è, non vuole che il mondo rimanga, Erich Fried [Resti del Muro di Berlino, dipinti sul lato est da artisti principalmente della Germania orientale dopo l’apertura. Bundesarchiv Creato: 25 luglio 1991]

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2 commenti
Grazie. Mi piace molto che una rivista italiana si occupi del nostro grande poeta austriaco – e in un modo cosi differenziato!
Sibylle Fritsch
Grazie a Lei, gentile Sibylle Fritsch. Le poesie di Fried hanno una loro drammatica musicalità…