È morto a 87 anni Sheldon Adelson, re dei casinò e ventottesimo uomo più ricco al mondo, grande finanziatore del Partito repubblicano, di comitati politici conservatori, sostenitore e sodale di Donald Trump e di Benjamin Netanyahu, attivo anche in Israele, controllando diversi giornali conservatori. Nel 2012 scommise venti milioni di dollari su Newt Gingrich, che alla fine perse le primarie repubblicane contro Mitt Romney. Nel 2016 è stato il più grande donor di Trump e più in generale del Grand Old Party, con un esborso di 82 milioni di dollari – tre volte di più del secondo maggiore finanziatore individuale. In occasione delle elezioni di medio termine, nel 2018, avrebbe investito nei candidati. A questi vanno aggiunti 75 milioni di dollari investiti in “Preserve America”, la super-PAC a sostegno della rielezione di Trump.
Negli ultimi quattro anni, Trump ha ricambiato ampiamente il favore al suo maggior finanziatore. In termini simbolici, conferendo alla signora Adelson la medaglia presidenziale della libertà. Ma soprattutto in termini di politiche. Adelson è stato l’eminenza grigia dietro alle scelte più controverse dell’amministrazione Trump in materia di politica estera.
Adelson ha usato la sua fortuna, oltre che per difendere i suoi interessi personali – si pensi al tentativo di ostacolare la legalizzazione delle scommesse online, a tutela dei suoi casinò – anche per cause care alla destra, come la lotta contro la legalizzazione della marijuana.
C’è Adelson dietro all’abbandono dell’accordo nucleare con l’Iran così come lo spostamento dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, mossa simbolica molto importante per coloro che desiderano che Gerusalemme diventi la capitate israeliana internazionalmente riconosciuta. Si tratta di una delle promesse che Trump aveva fatto durante la campagna elettorale. Adelson ha partecipato alla cerimonia d’apertura dell’ambasciata nella città santa e ha acquistato la residenza a Tel Aviv dove abitavano gli ambasciatori americani, prima che avvenisse lo spostamento di sede.
L’annuncio su Gerusalemme capitale è dunque il compimento di quest’azione, tenace negli anni, incredibilmente finanziata e basata sulla congiunzione astrale di tre personalità: Trump, Netanyahu e soprattutto Adelson.
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Gli ebrei americani sono tradizionalmente democratici e anche nelle recenti presidenziali l’hanno confermato, dando il 75 per cento dei loro voti a Biden – come fecero con Hillary e con Obama – e ai candidati dem al Congresso. E molti donor ebrei spiccano tra i finanziatori della campagna dem.
Sul versante opposto, si sono mossi a sostegno di Trump pochi donor ma molto munifici, alcuni dei quali sono molto influenti anche in Israele, a favore di Netanyahu. Tra questi, appunto, Sheldon Adelson e la moglie Miriam. Sono gli stessi che hanno alimentato campagne ostili verso la presidenza Obama, gli stessi che, in combutta con i parlamentari della destra più oltranzista, organizzarono l’incredibile performance di Netanyahu di fronte al Congresso il 3 marzo 2015, un discorso contro il disgelo con l’Iran, un’aperta intromissione negli affari di un altro paese e in particolare nella politica della Casa Bianca.
Anche di Bibi, Adelson è un grande sostenitore e amico. In Israele è molto presente con affari e, soprattutto, con il controllo di pezzi importanti dei media israeliani, in particolare il quotidiano gratuito Israel Hayom, il numero uno per copie diffuse, di proprietà ufficialmente di un parente di Adelson.
Adelson aveva in passato, verso Israele, un atteggiamento di sostegno “neutrale” rispetto al governo in carica, tipico della maggioranza degli ebrei statunitensi attenti alle vicende israeliane. La posizione cambia radicalmente una decina d’anni fa, quando l’allora premier Ehud Olmert assume una linea nettamente orientata verso il negoziato di pace con i palestinesi – il cosiddetto Annapolis Process – ed è allora che Adelson diventa un sostenitore strenuo e generoso del Likud di Netanyahu e, in America, donor della destra oltranzista e alleato della potente coalizione delle chiese evangeliche. Adelson era convinto che la creazione di un’entità statuale palestinese fosse da ostacolare con ogni mezzo. Per Adelson i palestinesi esistono solo “per distruggere lo stato d’Israele”.

Re dell’industria del gambling e alberghiera, il suo fiore all’occhiello era The Venetian. Adelson e Trump si conoscono dai tempi proprio dell’inaugurazione del grande hotel casino di Las Vegas, replica di Venezia. Un’idea concepita alla fine degli anni Novanta. Per realizzarla Sheldon Adelson trascorre lunghe e inutili giornate in un grande albergo veneziano nella vana attesa di essere ricevuto a Ca’ Farsetti da Massimo Cacciari. Al sindaco di Venezia il re dei casinò è ansioso di illustrare un suo progetto pazzesco, nella speranza di coinvolgere in qualche modo la città lagunare. La Serenissima avrebbe dovuto semplicemente “benedire” l’operazione, in cambio di una discreta remunerazione in termini di royalties. L’idea era di costruire nel deserto del Nevada, a Las Vegas, un megalbergo, con annesse immense sale da gioco, che replicasse perfettamente il cuore di Venezia, San Marco e Rialto. Che proposta volgare! Un’americanata. Manco a parlarne. Cacciari non volle neppure vedere Adelson.
Ma quel progetto si realizzò comunque. Anzi, The Venetian ha avuto pure un suo doppione, a Macao, la nuova capitale mondiale del gioco d’azzardo. E Adelson, da allora, ha fatto ancora più soldi. Tanti soldi. Da essere saldamente nel gruppo dei primi dieci miliardari d’America e l’ebreo più ricco del mondo.
Ed è uno che i dollari accumulati li ha usati. Li ha usati politicamente. Per piegare i sindacati, molto forti nel Nevada e legati al Partito democratico. Per consolidare il potere di Bibi Netanyahu in Israele. Per contrastare in tutti i modi Barack Obama e spianare la strada a Trump. Per far prevalere nel Partito repubblicano gli esponenti più conservatori. Come Newton Gingrich. E poi Donald Trump.
E pensare che la sua famiglia era di fede democratica. “Inutile dire che eravamo democratici”, ha detto lo stesso Adelson, figlio di una famiglia molto modesta, a Boston, feudo indiscusso dei dem. Gente, gli Adelson, che non poteva non riconoscersi nel partito nato per rappresentare i lavoratori e le fasce meno abbienti.

Sheldon Gary Adelson nasce più precisamente a Dorchester, un sobborgo proletario della metropoli del Massachusetts, da una famiglia ebrea osservante, originaria dell’Ucraina e della Lituania per parte di padre, Arthur, dal Galles per parte di madre, Sarah Tonkin. Arthur tassista, Sarah rammendatrice. Shel, ancora bambino, fa lo “strillone” del Boston Globe all’angolo della strada di casa.
A dodici anni ha già una sua edicola di giornali, una licenza pagata con duecento dollari chiesti in prestito a uno zio. È l’inizio di una folgorante ascesa imprenditoriale che a 35 anni lo vedrà miliardario e poi lo porterà nell’olimpo dei grandi tycoon del pianeta. La sua, ha detto a BusinessWeek, non è la storia dello straccione che fa fortuna. Perché la sua famiglia era “troppo povera pure per possedere degli stracci”.

La scommessa di Adelson che porterà alla nascita del Venetian si basava sulla convinzione che Las Vegas potesse diventare un importante polo congressuale, convegnistico e fieristico. Nel 1990 costruì il più imponente centro di convention del mondo, il Sands Expo Center, concepito per ospitare il più grande salone dedicato all’informatica, il Comdex.
L’idea di un iper-albergo scaturì proprio dall’intuizione di ospitare espositori e visitatori del Comdex. Infatti, quando rase al suolo il Sands Hotel, lasciò in piedi il Sands Expo Center, che successivamente vendette ai giapponesi.
Il Venetian fu aperto il 3 maggio 1999. È un albergo-spettacolo, a metà tra un’esperienza alla Disneyland e il lusso di un resort a cinque stelle. È architainment: architettura-intrattenimento. 3.036 stanze, poi divenute seimila con l’adiacente grande torre di 36 piani, un complesso che avrebbe cambiato il paesaggio della città, non solo quello urbano. Una riproduzione fedele, e al tempo stesso cervellotica, del cuore di Venezia. L’attenzione al dettaglio è notevole. L’effetto-Venezia è garantito. Gli oltre 50mila visitatori quotidiani dei tempi pre-Covid restano a bocca aperta di fronte a questi tesori, di fronte a questo concentrato di superlativi: tremila tonnellate di marmo, una quantità di cemento che basterebbe per unire con una superstrada Las Vegas e Chicago (2.500 km), 120mila metri quadrati di sale e saloni, otto milioni di cavi elettrici. Senza contare le 80mila statue, fregi, colonne.
Nei giorni dell’inaugurazione Shel Adelson dichiarava di avere speso “decine di milioni di dollari” per cercare di “replicare tutti i famosi tratti caratteristici di Venezia”. “Doveva essere vero”, andava ripetendo, “doveva essere proprio così, altrimenti non sarebbe stata Venezia”.

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