Sabato mattina, esco per fare la spesa al mercato di Rialto, scelgo le calli più “sconte” per potermi abbassare la mascherina e assaporare una parvenza di normalità. In realtà le strade sono ancora vuote. All’improvviso vengo sorpresa dal suono di un pianoforte e da una voce che impartisce inequivocabilmente lezioni di danza a qualcuno, “diritta, piegati, alza le braccia…” Sorrido, tra le case adibite a locazioni turistiche o semplicemente sfitte, ora forzatamente vuote, c’è ancora uno sparuto residente, una maestra di danza che continua pertinacemente a insegnare a un’allieva. Il pensiero mi riporta per analogia a Varsavia, al “pianista” di Polansky, alla musica nascosta in mezzo alle case chiuse e distrutte dal conflitto. Anche se in contesti assolutamente diversi, il paragone può starci.
ytali è una rivista indipendente. Vive del lavoro volontario e gratuito di giornalisti e collaboratori che quotidianamente s’impegnano per dare voce a un’informazione approfondita, plurale e libera da vincoli. Il sostegno dei lettori è il nostro unico strumento di autofinanziamento. Se anche tu vuoi contribuire con una donazione clicca QUI
In questi giorni in cui ci viene negata la normale quotidianità, faccio tante passeggiate solitarie per Venezia. È un modo per non “perdere il tono muscolare”, per stare all’aria aperta e per tastare il polso alla città. Impossibile non raffrontare questo secondo lockdown con il primo di marzo, rispetto al quale la desolazione è maggiore, perché all’incantesimo iniziale della città sospesa ora si sostituisce quello della città sconfitta, negozi non più semplicemente chiusi ma vetrine con cartelli di inequivocabile resa e fine attività.

Continuo a leggere libri e interventi sul destino di Venezia, tra utopie e moniti a “principi di buona amministrazione” che giustificherebbero, da ultimo, la chiusura dei musei in “assenza di sufficiente domanda”. Come se la domanda non la si potesse comunque creare.
È palese che il dibattito sul futuro della città si è definitivamente polarizzato in due posizioni inconciliabili. Quella dell’amministrazione comunale, legittimata dal consenso elettorale delle recenti elezioni amministrative, per la quale il destino della “città storica” è segnato, o meglio, è già quello del “parco a tema”. Quella di vari rappresentanti della cultura in generale che vagheggiano una sorta di città rinascimentale, una neo Pienza di Piccolomini dove armonia e sostenibilità ambientale sarebbero connaturati, considerando la morfologia stessa di Venezia e le sue tradizioni millenarie.
Se personalmente condivido l’idea che Venezia oggi più che mai abbia le caratteristiche della città “ideale”, dove “lentezza, prossimità, sostenibilità” – ora considerate valori imprescindibili da urbanisti e sociologi – sono non soltanto possibili ma l’essenza stessa della città, la domanda che mi pongo, molto più pragmatica, è la seguente: ripopolare Venezia è possibile? Quali sarebbero i nuovi veneziani (a prescindere da noi resilienti o semplicemente fortunati residenti in quanto fortuite o fortunate sono le circostanze che ci hanno consentito di restare?)
Una risposta alla prima domanda è necessaria per comprendere quali tipi di interventi si dovrebbero attuare. A Lisbona la municipalità ha preso in affitto le case dell’Alfama sottraendole alla locazione turistica per assegnarle a famiglie residenti a canone calmierato. Ai proprietari è stato riconosciuto un canone di mercato (ancorché, probabilmente, non esattamente equivalente ai proventi che avrebbero ritratto dall’attività turistica) ma in ogni caso ristoratore del mancato guadagno, tenuto conto del lockdown. L’esperimento sembra abbia avuto successo e il quartiere si è ripopolato.
Ammesso che nel caso di Venezia vi fossero i fondi per un analogo intervento, viene da chiedersi quante famiglie, ora residenti a Mestre o nei comuni vicini, sarebbero disposte a ritornare ad abitare la città storica.
Forse realmente poche. Ripenso alla franca risposta di un’amica di mia figlia recentemente trasferitasi a Marcon dopo 17 anni di nascita e residenza a Castello, che alla mia domanda “quanto ti manca Venezia?” ha risposto con un reciso “neanche un po’”, elencandomi i pregi della sua nuova vita: comodità di spostamenti, supermercati e centri commerciali a portata di mano, possibilità di andarsene a correre in tutta libertà o in bicicletta nei dintorni.
Considerando il buon livello di istruzione della mia interlocutrice, rifletto sul fatto che probabilmente il “modello Venezia” non è alla portata di tutti. Probabilmente i futuri veneziani, sempre in un’ipotetica ricerca di mercato del target a cui rivolgersi per un progetto di ripopolamento, sono da individuarsi in un’élite circoscritta, in grado di anteporre l’imprescindibile valore della “grande bellezza” a tutto il resto.
I creativi, in primis, ma anche intellettuali, sportivi, ecologisti, o semplicemente individui alla ricerca di una soluzione abitativa diversa.
A tale ristretta minoranza si potrebbero aggiungere i “temporanei residenti”, coloro che in ragione di un pianificato resettlement di alte istituzioni (ong, centri culturali, sedi distaccate o principali di enti governativi, culturali e scientifici) o di imprese ad alto contenuto tecnologico (una sede di Google in centro storico?!) dovendo soggiornare a Venezia necessiterebbero di alloggio. Un’altra fetta di residenti temporanei è chiaramente costituita dagli studenti fuori sede.
Questa categoria di nuovi potenziali veneziani, proprio perché circoscritta a persone fortemente motivate ad abitare la città, importerebbe la riapertura, seppur parziale, di alcuni negozi di vicinato oggi inesistenti. Mi riferisco, per esempio, alle mercerie, scomparse in centro storico, così come a negozi di autentico artigianato. Penso a microdistretti come quello sotto i portici di Rialto, dedicato al design con prodotti accattivanti e originali. Un esempio di come la cultura “renda” e trasformi la città la viviamo tutti, del resto, durante gli intensi giorni delle vernici della Biennale, quando all’atmosfera elettrizzante si associa un innegabile incremento del fatturato per attività e servizi rivolti al bello in tutte le sue forme.
Il presupposto per la creazione di questa “comunità virtuosa” di nuovi residenti è, evidentemente, una politica sottratta alla competenza dell’amministrazione locale che – per quanto già sottolineato – non è espressione di alcuno dei soggetti che vi sarebbero coinvolti; non possiede, del resto, neppure le risorse finanziarie per poterla attuare. Va da sé che l’unica strada sarebbe quella dell’internazionalizzazione, dell’affidamento a un ente esterno incaricato e dotato di autonomia finanziaria in grado di coordinare le forze già presenti in città (sto pensando ad esempio ai vari comitati) e avviare il great reset, per usare un termine di moda.
Mi rendo conto che il ripopolamento di Venezia in queste forme importerebbe il crearsi di una comunità non certo ampia; non intravvedo, in ogni caso, i presupposti per un ritorno in centro storico di uffici e istituzioni a carattere locale, oggetto di un progressivo e inarrestabile trasferimento in terraferma. Asserite esigenze di “comodità” hanno indotto l’assemblea dei miei colleghi commercialisti a spostare la sede dell’ordine a Mestre, mentre si attende il definitivo trasferimento del tribunale di Venezia. Quando ciò avverrà l’area realtina si consacrerà definitivamente al turismo più deteriore e – probabilmente – chiuderanno anche i ragazzi della “caffetteria ai Dogi”, luogo di incontro di personale e utenza della vicina sezione civile e fallimentare, personalmente uno dei pochi momenti, insieme alla spesa al mercato del pesce da Gianni e Cristina, per sentirmi ancora a casa.
Con queste riflessioni, ho inteso chiarire – prima di tutto a me stessa – quali soluzioni concrete possano essere adottare per impedire che terminata l’emergenza epidemiologica la città ritorni, più di prima, il parco a tema che già da tempo è diventata.
Sono convinta dell’insufficienza dello sforzo collettivo della comunità locale, dei tanti gruppi di cittadini recentemente organizzatisi anche in movimenti partitici, per “invertire la rotta”. Al di là dei nostalgici che continuano a postare vecchie oleografiche fotografie di Venezia, tramonti lagunari in barena o le case colorate di Burano, serve una concreta volontà politica, un messaggio rivolto alla comunità mondiale, sostenuto da ingenti finanziamenti o da una politica di sgravi fiscali atta a incentivare il resettlement di enti e imprese sostenibili. Concetti che mi riportano agli anni Ottanta, al dibattito dell’Expo, dove tuttavia il concetto di sostenibilità ambientale non era ancora emerso.
Nelle mie riflessioni ho omesso di esplicitare un importante presupposto che ritengo pacifico: la coesistenza del turismo che è risorsa comunque essenziale per Venezia, ovviamente con caratteristiche sostenibili.
Copertina: da twitter @arialuce1

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!
1 commento
La prego, continui con questa idea di ripopolare Venezia anche con aziende straniere. Sono anni che ci penso. Se si trovasse la maniera di invogliare aziende internazionali a trasferirsi qui, con incentivi o gratuitamente! Venezia ha bisogno di residenti e se non sono ex-veneziani, pazienza!