Ma sono i cinesi che comprano o i veneziani che vendono?

Sui media locali ha rilievo la notizia della resa di Venezia ai commercianti cinesi ai quali è imputata evasione fiscale e la proliferazione di migliaia di esercizi commerciali destinati al turismo più deteriore.
ANTONELLA BARETTON
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Da qualche giorno sulla stampa locale, subito ripresa dalle reti televisive a fini sfacciatamente elettorali, è la notizia della resa di Venezia ai commercianti cinesi ai quali è imputata evasione fiscale e la proliferazione di migliaia di esercizi commerciali destinati al turismo più deteriore. La prima riflessione è che il fenomeno non si è certo creato nell’ultimo periodo, la seconda è che se queste attività hanno potuto svilupparsi e crescere è perché i veneziani stessi le hanno cedute al miglior offerente, trasformandosi da commercianti in rentiers.

“It’s the economy, stupid!”, commenterebbe un liberal: banalmente, la legge della domanda e dell’offerta.

Il veneziano, si sa, non ha mai avuto pregiudizi razziali o religiosi. “Pecunia non olet”, per passare al latinorum. Verrebbe da aggiungere che alle transazioni con la comunità cinese da identico tempo si affiancano quelle con albanesi e bangladesi, mentre mi resta inspiegabile l’incremento delle postazioni ATM gestite dalla società americana Euronet, condotte in locazione anche in assenza totale di turismo.

Ancora, per dirla tutta: non è che il commercio veneziano, fatte naturalmente le debite eccezioni, abbia particolarmente brillato prima dell’era del dragone.

Da veneziana oramai attempata ripercorro la genesi merceologica della gran parte dei negozi della città storica: da venditori di poco probabili “specialità veneziane” (vogliamo parlare dei farlocchissimi servizi “tre fuochi”, tanto orribili quanto apprezzati da intere generazioni di nipponici, convinti di portare a casa un autentico capolavoro di maestria muranese?). Poi sono intervenuti i negozi di maschere. Inizialmente effettivamente prodotto autenticamente artigianale, poi come sempre degenerato in mero gadget turistico; la globalizzazione ha fatto seguire tutto il resto. “It’s the market, baby”.

Questa introduzione è la premessa per un’ulteriore riflessione sulle soluzioni prospettate per riportare i negozi di vicinato in centro storico.

Leggo sul giornale le dichiarazioni dell’assessore al turismo Costalonga che promette incentivi fiscali per chi investe in qualità, continuando a ignorare la semplice regola di mercato: è la domanda che crea l’offerta, non viceversa.

Quando i miei cugini hanno ceduto ai cinesi il loro storico “biavarol”, ora trasformatosi in un emporio da me ironicamente ribattezzato “Baletton”, hanno giustificato la loro resa con la semplice considerazione che quell’attività non aveva più margine: supermercati e drastica diminuzione dei residenti avevano avuto la meglio. Allora in un tale contesto, peraltro aggravatosi nell’attuale periodo, la politica di incentivi fiscali ed economici concentrata esclusivamente sull’offerta, non si rivelerebbe sufficiente a invertire il trend del commercio “spazzatura”; l’intervento dovrebbe supportare contestualmente la creazione di un’adeguata domanda per prodotti di qualità.

Vengono in mente concetti di keynesiana memoria eppure incomprensibilmente ignorati. Il problema è che la domanda la creano i consumatori con la loro capacità di propensione all’acquisto. Esercizi di essenziali di vicinato esistono in quanto ci sono i residenti. Microdistretti di prodotti di qualità sorgono se e in quanto esista un’adeguata domanda in tal senso.

Il problema allora si allarga al dibattito circa il ripopolamento di Venezia e su che tipo di turismo favorire. Sull’onda di una pressione mediatica che sollecita un turismo sostenibile doverosamente rispettoso della fragilità della città, l’amministrazione pubblica locale sembra ora farsi portatrice di istanze atte a favorire il vero artigianato locale, promuovere i vecchi mestieri e bla bla bla…

Ma da colloqui intercorsi con taluni commercianti veneziani l’impressione è che più o meno tutte le categorie, piuttosto che cogliere l’opportunità di un cambiamento, stiano semplicemente attendendo che le cose ricomincino come prima e più di prima. Chiaramente se l’emergenza epidemiologica dovesse protrarsi oltre i prossimi sei mesi, le cose comincerebbero a complicarsi. Finora chi ha scelto di uscire definitivamente dal mercato lo ha fatto perché – evidentemente – non aveva oculatamente investito o gestito i profitti accumulati.

Allora mi permetto di non considerare meramente casuale questo improvviso sdegno per la città svenduta ai cinesi; lo considero piuttosto un estremo tentativo, da parte dei concorrenti locali, di preservare le loro rendite di posizione, quanto meno fino a che l’emergenza non sarà finita e le cose potranno riprendere come prima.

Ma sono i cinesi che comprano o i veneziani che vendono? ultima modifica: 2021-01-19T23:08:17+01:00 da ANTONELLA BARETTON
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