Esattamente cent’anni fa, nel 1921, in un momento produttivamente non troppo felice per il cinema italiano, arrivava nelle sale un film irresistibilmente attratto dalle origini di Venezia, solitamente trascurate al cinema, anche in seguito. Quelle medesime origini – comunque incerte e sempre poco definite – che porteranno il comune di Venezia a celebrare in pompa magna il prossimo 25 marzo i mille e seicento anni della città, sulla scorta di vulgate (il Chronicon Altinate, in particolare) mai davvero validate dalla odierna storiografia, in assenza di plausibili riscontri. Il 421, dunque: anno più anno meno, si dirà, e per analogia secolo più secolo meno… Si sa: per gli anniversari celebrativi, specie così remoti, va bene tutto e la Storia, specie al cinema, può ben dare i numeri.
Il film, comunque, ovvero La Nave, dal poema adriatico di Gabriele D’Annunzio, già edito e portato in scena con successo nel 1908, con un primo adattamento cinematografico “corto” nel 1912 (regia di Edoardo Bencivenga, sceneggiatura del navigato Arrigo Frusta), poi anche in musica per le cure di Italo Montemezzi, nel 1918, con tanto di prima alla Scala. Nel 1919, dopo il successo di tanti film “storici” (a cominciare da Cabiria) e sulla scorta di un’esclusiva dannunziana in essere con la Ambrosio Film (quantunque oggetto di parecchie vertenze legali), l’idea di una più spettacolare e sontuosa ripresa cinematografica del medesimo soggetto, per la regia stavolta del figlio d’arte Gabriellino e il personaggio centrale dell’intrigante Basiliola affidato a una diva del calibro di Ida Rubinstein, danzatrice cresciuta alla scuola di Diaghilev, personaggio mondano di prim’ordine, russa francesizzata della diaspora. Raccomanda il Vate: riprese rigorosamente dal vero in laguna, Torcello, Sant’Elena, San Nicolò, la bocca di porto del Lido da cui la nave alla fine salperà per andare incontro alle sue italiche fortune.

Un intero capitolo del prezioso e curioso volume di Gino Damerini D’Annunzio e Venezia (pubblicato nel 1943, poi Ateneo Veneto/Albrizzi Editore, 1992, con postfazione di Giannantonio Paladini) è dedicato all’opera dannunziana e al suo incrollabile “irredentismo adriatico”, aprendosi con le parole con cui lo stesso D’Annunzio comunica finalmente “compiuta”, da qualche settimana, la sua “tragedia adriaca”:
[…] Opera singolarissima, foggiata con la melma della Laguna e con l’oro di Bisanzio, e col soffio della mia più ardente passione italica; che si cruccia (siamo nel 1908, ndr) di non poter varare una grande armata contro la quarta sponda e di non poter piantare sulla prua dell’ammiraglia una Vittoria fusa, non di bronzo ma d’un metallo di miniera intentata. La mia sorte, forse audace, forse crudele, vuole che dalla compagnia degli attori sia attesa in Fiume la prima lettura, in quella Fiume tanto misteriosa alle mie imaginazioni (sic) infantili quando ne tornava col carico il nostro brigantino o la nostra goletta… E la lettura è attesa per il 23 ottobre. E mi partirò da Venezia, forse con l’anello del Doge, sopra un legno inerme.
L’ossessione fiumana, già allora. E destino vuole che le riprese del film coincidano con l’impresa dei legionari (settembre 1919 – dicembre 1920), con Gabriellino a far la spola fra la laguna e il Carnaro per aggiornare il padre circa gli avanzamenti della lavorazione del film e magari per ricevere ulteriori illuminanti istruzioni. L’occupazione di Fiume finirà prima della pellicola, che esce a vittoria ancora “mutilata”, Giolitti momentaneamente gongolante, D’Annunzio e i legionari sopraffatti, Mussolini tentennante e spesso spiazzato dagli eventi ma con le squadracce fasciste già in piena azione un po’ ovunque. E Gramsci a riflettere più volte su quell’impresa, forse già pensando al peggio che verrà: la marcia su Roma, anziché su Fiume. Insomma, il film esce nei mesi della confusione post legionaria e della montante marmaglia squadrista, accolto senza lode né infamia, forse patendo lui stesso i postumi di un irredentismo adriatico andato momentaneamente per traverso. Una volta di più “l’amarissimo Adriatico”, per dirla con parole care proprio a D’Annunzio.
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Ma com’era poi La Nave? Il film, conservato e restaurato tempo fa dalla Cineteca Italiana, è a disposizione. Vale la pena darci un’occhiata, trattandosi, a modo suo, di un “unicum” veneziano. Così il suo incipit:
Il pubblico Arengo, il cuore operoso della città novella che il popolo libero dei Profughi – sfuggito al ferro e al fuoco dei Barbari, francato dalle leggi della patria illustre – costruisce… col legname delle foreste e col pietrame delle ruine… Ferve il lavoro delle maestranze intorno alla Basilica, lungo le palafitte, sotto i loggiali, sugli scali scoperti… Una nave salpa l’ancora per far vela…
Riprese aeree di ambienti lagunari e poi quel lembo di terra, fra le acque, dove un popolo industrioso lavora alacremente. Un’altra didascalia informa che siamo nell’anno 552, e dunque un secolo abbondante dopo la presunta fondazione di Venezia. Più che l’oro di Bisanzio, parrebbe essere ancora la “melma della Laguna” a primeggiare. Tutti cristianissimi, la lotta è all’ultimo sangue tra Faledri, favorevoli all’Imperatore d’Oriente, e Gràtici, devoti alla Chiesa di Roma, con relative fazioni – masse consistenti di comparse – sempre in cagnesco, più per questioni “tribali” che teologiche, c’è da credere.
Deposto il tribuno Orso Faledro, abbacinato al pari di quattro suoi figli (il rito dell’abbacinamento, caro ai bizantini, è più volte ripreso in dettaglio), al giudicato ora aspira Marco Gràtico, mentre suo fratello Sergio non fa mistero di ambire al pallio vescovile. Ma ci sono ancora pericolosi Faledri in circolazione: il primogenito Giovanni, che comanda un manipolo di soldati a cavallo in marcia per la laguna, e soprattutto Basiliola, anch’essa figlia di Orso (la Rubinstein, femme fatale da par suo, spesso in lamé ed eternamente ingioiellata), che verrà con le sue trame fascinose e vendicative ad intorbidire le già malsane acque dei primordi. Sotto i suoi raggiri cade il vescovo, che rinnova l’agape con riti profani degni dei migliori baccanali pagani. E Basiliola dà il meglio di sé nella “danza dei sette candelabri”. La misura è colma, irrompe il popolo che non approva, interviene lo stesso Marco, che alla fine uccide in duello il vescovo fratello.
Messa ai ferri, Basiliola potrebbe ancora tentare di sedurre Marco, ma desiste, accetta di uscire di scena imprimendo la propria faccia nel fuoco. Olocausto purificatore. La diaconessa Ema, madre dei Gràtici e donna devota, che tutto aveva forse visto e previsto (vaticinando anche la Venezia futura, che a un certo punto irrompe fra le nebbie con le immagini della Basilica di San Marco e del Palazzo Ducale, curiosissimo flash forward già quasi turistico), trova una soluzione anche per il figlio fratricida, che vorrebbe bandirsi dalla “patria sua”: “Ad Alessandria! Riscatta il corpo dell’Evangelista! Questa è l’ammenda.” E la nave – Totus Mundi, giusto per non farci mancar nulla – finalmente salpa. Fra saluti romani forse in uso, casuali o al contrario forieri.

Gino Damerini, ancora lui, ottima penna, gran conoscitore di D’Annunzio e uomo di spirito, ricorda che il poeta ebbe a leggersi tutto quel che gli era stato possibile per contestualizzare le vicende storiche della tragedia teatrale e poi del film: il Romanin e il Molmenti, la citata Cronaca Altinate e Cassiodoro, salvo riservarsi le licenze romanzesche del caso. E anche qualche anacronismo:
Come è noto i resti mortali dell’Evangelista vennero portati a Venezia da Alessandria nel terzo decennio del secolo nono, poco meno di trecento anni dopo la data fissata dal poeta agli eventi della Nave. Ma l’anacronismo è solamente apparente; gli isolani invocano bensì dal tribuno la conquista della santa salma, non è detto però in alcun punto della tragedia che tale conquista fosse per avvenire: si tratta di una meta ideale assegnata ai novelli argonauti della nave Tuttilmondo e una meta niente affatto in contrasto con le aspirazioni del tempo.
Secolo più, secolo meno, una volta di più. Quanto al film, poco apprezzato dalla critica anche postera, vale l’originalità di uno sguardo certo immaginario ma verosimile sulla genesi di Venezia. Che proprio dal nulla non nasce e non di solo pesce si nutre. Lotte fratricide più che dispute teologiche, trame di potere e ferocità tipiche di quei secoli sospesi che stanno tra la fine di Roma e l’avvio della modernità: Venezia barbara e Venezia invitta. Volendo, storie a non finire anche per un seriale televisivo del terzo millennio.

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