“Il giornalismo è l’arte di arrivare troppo tardi il più in fretta possibile. Io non la imparerò mai”. La paradossale boutade non è, come si potrebbe forse pensare, di Ennio Flaiano o di Leo Longanesi, ma del più famoso e amato giornalista svedese, inviato speciale e testimone dell’apocalisse che si abbatté nel 1945 su una Germania distrutta e spettrale, tormentato oppositore di ogni dittatura ma anche di ogni democrazia borghese.
Stig Dagerman, comunista e quindi anarco-sindacalista, un’infanzia infelice e una vita segnata dalla depressione, ebbe il modo di imporsi come uno dei più attenti osservatori del suo tempo, di cui denunciò gli egoismi e le ingiustizie sociali, la prepotenza dei vincitori e l’umiliazione dei vinti, prima di morire suicida a soli trentun anni d’età.

Grazie a una piccola ma raffinata casa editrice (Iperborea), le opere di Dagerman sono state pubblicate in Italia a partire dall’ormai lontano 1991. In “Il nostro bisogno di consolazione”, già l’incipit assume le cupe tonalità di un testamento emozionale:
mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa.
Quello che nella sua lucida prosa può erroneamente essere interpretato come cinismo è in realtà il risultato di un profondo conflitto personale tra bene e male, tra libertà e schiavitù delle passioni, tra aspirazioni e delusioni politiche (interessanti, al riguardo, i suoi scritti raccolti nel libro La politica dell’impossibile).
Come in una lettera definitiva, Dagerman scriveva (Il viaggiatore, inedito del 1951):
Lascio sogni immutabili e relazioni instabili. Lascio una promettente carriera che mi ha procurato disprezzo per me stesso e unanime approvazione (…) lascio un’attitudine vacillante rispetto ai grandi interrogativi del nostro tempo, un dubbio usato ma di buona qualità e la speranza di una liberazione.
Aggiungendo, a mo’ di epigrafe:
Qui riposa / uno scrittore svedese / caduto per niente / sua colpa fu l’innocenza / Dimenticatelo spesso.
Ma l’opera più drammatica e disperata, nella sua spietata cronaca, è la raccolta di articoli inviati all’Expressen nel 1946 da una Germania piegata, punita, rasa al suolo, e pubblicata col titolo di Autunno tedesco.
Leggendola si entra in una sorta di ideale comunione con l’autore e di una non sempre anaffettiva partecipazione al muto dolore dei vinti, gli umiliati e offesi tra le rovine di Essen, Amburgo, Colonia, Hannover, Berlino.

Torna automaticamente alla memoria l’incipit del primo articolo che, in altri tempi e sotto altri cieli, il grande Giampaolo Pansa scrisse al suo arrivo a Longarone all’indomani del disastro del Vajont: “Vi scrivo da un paese che non esiste più”.
I reportage del giovane inviato (nel ’46 aveva soltanto 23 anni) sono memorabili per la loro carica emotiva e scorrono sotto i nostri occhi come una serie di muti fotogrammi di un’apocalisse in bianco e nero, parole come istantanee di un incubo, di un inferno in terra che neanche Goya avrebbe forse saputo rappresentare.
Dagerman incontra e parla con diversi sopravvissuti:
questa è la Germania, signor D. un cimitero bombardato, in Germania ogni luogo è il peggiore. Berlino ha i suoi campanili amputati e le sue file di interminabili edifici governativi distrutti (…) Essen è un incubo fatto di nude e gelide costruzioni di ferro, i tre ponti sul Reno di Colonia sono affondati e il duomo si innalza cupo, annerito tra un cumulo di macerie (…) le piccole torri medievali di Norimberga sono precipitate nei fossati,
scrive Dagerman.
Ogni luogo è il peggiore, ma tra tutti è Amburgo a detenere il triste primato:
Non una città in rovina, ma un paesaggio di rovine più desolato di un deserto, più selvaggio di una montagna e fantastico come un incubo angoscioso.

Ma le ferite dell’anima sono palesi nelle strade delle città distrutte. A Berlino, vicino alla stazione del Tiergarten (il giardino zoologico)
un vecchio cieco sta seduto al freddo suonando un piccolo armonium, il capo scoperto e l’orecchio malinconicamente teso al tintinnio delle rare monete che gli vengono gettate.
Sulle banchine accanto alle rotaie sostano povere ragazze affamate e mal truccate in cerca di soldati americani o inglesi. Dagerman ricorda
un soldatino inglese ubriaco seduto tra due bionde disfatte, con i sorrisi irrigiditi che sembrano appartenere a facce sbagliate.
Gli americani, non attaccati sul proprio territorio da Hitler, sono i meno vendicativi, gli inglesi sono invece animati da una sorda furia per i bombardamenti della Luftwaffe su Londra e Coventry. A est i soldati dell’Armata rossa, sfibrati da anni di guerra, vengono incitati via radio dal giornalista e scrittore Ilya Ehrenburg a “uccidere, razziare, stuprare”.

Un giorno, ad Amburgo, un gruppo di cittadini chiede a un alto ufficiale britannico un aiuto degli Alleati per la ricostruzione di alcune stazioni ferroviarie ottenendo la risposta che ci riferisce Dagerman:
perché aiutare voi tedeschi a rimettervi in piedi in tre anni, quando potete benissimo mettercene trenta?
Forse si è tentati, in certi momenti, a dar ragione a Curzio Malaparte quando (La pelle) ebbe a scrivere, paradossalmente: “è una vergogna vincere la guerra”.

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