#Pci100anni. L’innovazione mancata. Parla Tortorella

“Nella ricerca e nell’elaborazione di strategie e approcci sociali che rispondessero ai mutamenti in atto il nostro ritardo fu grande. C’era il timore che, usando strumenti culturali il cui sviluppo era in larga misura di origine americana, si manifestasse un cedimento in fondo al quale stavano in agguato strategie d’integrazione e cooptazione sociale della nostra parte politica”.
MICHELE MEZZA
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pubblicato il 24 marzo 2019

Incrocio Aldo Tortorella nel suo studio a Roma, al terzo piano, senza ascensore, di una palazzina  d’inizio Novecento del quartiere Monti. A novantadue anni è di per sé una dichiarazione di vitalità. Ogni giorno quelle scale, mi dice cogliendo il mio stupore, sono la mia palestra.  

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Una palestra fisica ma anche mentale. Infatti l’ex dirigente storico del Pci è appena reduce da un impegnativo intervento al convegno sui duecento anni della nascita di Carlo Marx. 

Davvero un lavoro faticoso e difficile, mi spiega, dinanzi a una platea di studiosi specializzati, ai quali non puoi certo raccontare banalità.

Il suo studio è un album di una grande famiglia, la scuola del Poi, che non indugia però alla nostalgia. I testi della nuova sociologia digitale fanno bella mostra accanto alle opere complete di Marx appena rinverdite.

Aldo Tortorella è forse uno dei massimi rappresentanti dell’antropologia politica di quel fenomeno, appunto, prima antropologico che ideologico , che furono i comunisti italiani. Giovanissimo, nel ‘43, partecipa a fondare la sezione milanese del Fronte della Gioventù, dove avviene il suo praticantato comunista, parallelamente a Rossana Rossanda, all’università. Va in carcere, evade. Partigiano – “Alessio” il nome di battaglia – continua a Genova la Resistenza. Aderisce al Pci di Togliatti e  comincia a militare nella macchina comunista, entra nella redazione dell’Unità, di cui diventerà poi storico direttore all’ombra di Pietro Ingrao. Ma la sua storia politica s’identifica con la sua inesauribile attività di organizzatore della strategia culturale del partito, che lo porterà sul finire degli anni Sessanta a diventare una delle figure iconografiche di Botteghe Oscure, accanto a Luigi Longo, prima, e a Enrico Berlinguer, di cui sarà uno dei pochi fidati ma non supini collaboratori, in dissenso dalle componenti più moderate, che si dicevano allevate da Giorgio Amendola: ma Amendola, tiene a dire Tortorella, era altra cosa dall’immagine che ne è stata diffusa, e il suo attaccamento all’Urss, ma non al sistema, era parte della sua volontà socialista.

Antonio Bassolino interviene al convegno organizzato da InfinitiMondi, “L’urgenza di una sinistra che non c’è”. Alla sua destra Pietro Folena, Gianni Cuperlo, Gianfranco Nappi. A destra, nella foto, Marco Fumagalli. 22 giugno 2018

Mi porta a lui la curiosità che m’ha acceso nel corso di un suo intervento a Napoli, proprio in uno dei forum con cui la rivista Infiniti Mondi sta ragionando sulla politica e la storia di questo paese nell’autunno scorso.

Al tavolo della presidenza, accanto al prestigioso testimone della storia cinquantennale del grande partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer, come si ritmava nelle piazze degli anni Settanta, gli ultimi dirigenti della Fgci, come Pietro Folena, Marco Fumagalli e Gianni Cuperlo, riuniti da Gianfranco Nappi che di quella esperienza dei giovani comunisti fu protagonista a Napoli. In quel contesto che avrebbe autorizzato il lasciarsi andare al rimpianto e alla commemorazione dei bei tempi andati, o, come in verità qualcuno fece, di accanirsi sulle responsabilità di questo o quel leader contemporaneo, Tortorella prese di petto l’approccio problematico sui nodi di fondo della cultura politica comunista che il dibattito aveva proposto, spiegando come i problemi drammatici di una sinistra oggi rantolante  venivano da molto lontano, proprio dal cuore di quei mitici anni Sessanta ricordati come la primavera del Pci.

La mia sollecitazione è accolta senza reticenze, con una lucidità e soprattutto un’armonia fra ricostruzione storica e analisi specifica che ci costringe a una concentrazione severa.

Il vuoto di oggi è  figlio di un’insufficienza grave a cogliere ed elaborare una teoria e una proposta sulle trasformazioni dell’economia e della società, ha alle spalle lacune e sbandate anche e proprio in quel mitico dopoguerra  antifascista e progressivo,

esordisce predisponendo il campo del suo ragionamento.

Affrontiamo proprio il significato di quel mix culturale declamato come l’anima del prodigio rappresentato da quella giraffa che era il partito nuovo, come lo chiamò Palmiro Togliatti per definire una macchina politica con un corpo materiale ben radicato sulla terra e una testa in cielo, capace di guardare lungo, a un orizzonte lontano.

È la concezione dell’uomo che veniva da lontano e che fu propria di quel gruppo dirigente, spiega Tortorella, che non ci ha aiutato ad afferrare le evoluzioni del capitalismo,  ben più corpose e complesse di quanto non si potesse pensare.

Sotto il bisturi di Tortorella è proprio la proverbiale sequenza Spaventa-De Sanctis-Labriola-Gramsci, che era stata creata per definire l’italianità del progetto comunista e la sua derivazione dalla matrice hegeliana (Spaventa) ma forzando e deformando la reale personalità teorica di ciascuno. Quella filiera, argomenta Tortorella, voleva marcare, soprattutto nel suo passaggio finale Labriola/Gramsci, la scelta contro il meccanicismo positivista che fu la tendenza comune ai giovani intellettuali dell’inizio del Novecento, alcuni dei quali volgeranno al neoidealismo, altri allo spiritualismo, altri ancora – ecco i comunisti –  al volontarismo rivoluzionario.  Ma quella scelta se colpiva un pensiero che da scientista si era fatto dogmatico, contemporaneamente consegnava la lettura marxista a una tendenza di tipo storicista che mostrerà tutti i suoi limiti proprio nella difficoltà di intendere bene nel permanere del capitalismo le trasformazioni derivate dalla nuova rivoluzione scientifica e tecnologica.

Togliatti, nella sua straordinaria strategia culturale e politica, e nell’opera di costruzione di un gruppo dirigente nuovo – completa il suo ragionamento Tortorella –  espresse una visione lucida della storia d’Italia e delle sue contraddizioni  che divenne comune a gran parte dell’intellettualità del Paese ma, su questa base, coltivò più o meno direttamente la riduzione della vicenda umana alla sua storicità. Il che porta con sé una concezione dell’uomo che ne vede il divenire ma nasconde il permanere dell’individuo animale e sociale. 

Se l’uomo,  e di conseguenza la società, continua Tortorella, diventa appunto esclusivamente sequenza di una storia economica e politica, di cui la lotta di classe è il motore, ne viene una difficoltà estrema a vedere la molteplicità e la complessità dei fattori che definiscono sia l’uomo sia la società, di intendere il peso del simbolico e dell’immaginario nella determinazione dei sentimenti e delle tendenze di massa.

Le scienze umane, la sociologia, l’antropologia, la psicologia e la psicoanalisi eccetera – che per Croce erano soltanto pseudoscienze – aiutano a capire quella molteplicità e quella complessità e di esse si venivano giovando i centri intellettuali legati al grande capitale – per interesse o per passione – al fine di suggerire scelte adeguate alle situazioni mutate e mutevoli negli assetti produttivi e nella conseguente dislocazione delle classi.  Mentre a sinistra si stava fermi, il cervello capitalistico usava le scienze umane per affinare i suoi strumenti di persuasione e di controllo. Fra le nostre fila, annota con uno sguardo di retrospettivo rammarico, avevamo maestri della sociologia, dell’antropologia e di tutte le scienze umane, ma fu assai difficile e lento da parte nostra l’uso del loro sapere. 

L’avversione alla sociologia – conseguenza dell’influenza crociana nel gruppo dirigente – s’incontrava con un’analisi economica che era giustamente iniziata con una denuncia dell’arretratezza, ma manteneva centrale questa categoria anche quando la trasformazione del paese lo faceva in gran parte lontano dall’arretratezza e, anzi ben dentro la modernità. Di qui il ritardo nella comprensione di fenomeni nuovi che cercai di superare per quanto riguardava l’attività della sezione culturale, ad esempio per quanto riguardava il significato delle neo avanguardie.

Ma  nella ricerca e nell’elaborazione  di strategie e approcci sociali che rispondessero ai mutamenti in atto il ritardo fu grande. Comprendevamo bene, rivela Tortorella, che qualcosa si muoveva nel cuore dello schieramento avversario, ma credo che prevalesse  il timore che, usando strumenti culturali il cui sviluppo era in larga misura di origine americana, si manifestasse un cedimento in fondo al quale  stavano in agguato strategie d’integrazione e cooptazione sociale della nostra parte politica.

Il cedimento alla fine ci fu e l’integrazione anche ma proprio per la mancata capacità di pensare un’alternativa nei termini imposti dalle modificazioni della realtà. Va così spiegato l’apparente insensibilità al denso dibattito che già nel primissimo dopo guerra s’apre negli Stati Uniti, con il famoso saggio di Vannuvar Bush “As we may think” pubblicato nel luglio del 1945, prima ancora che la guerra si chiudesse con le due bombe atomiche sul Giappone.

In quel testo il grande sociologo americano pone il tema di una contrapposizione al modello sovietico basata sulla sostituzione del sapere al lavoro come matrice sociale. Solo dieci anni dopo la Rand Corporation organizza il primo convegno sul post fordismo e apre la strada alla terziarizzazione dell’Occidente. Quello è il vero atto di nascita del mondo digitale che ci circonda.

Non era certo incomprensione, molti di noi sapevano, leggevano, e ragionavano su questi stimoli. E ricorda che il suo maestro Antonio Banfi (il filosofo del razionalismo critico) avversava la presunta superiorità della cultura umanistica rispetto a quella scientifica e promuoveva, alla metà del Novecento, iniziative per la ricerca sociologica. Ma era difficile tradurre in dibattito politico  un linguaggio vissuto come estraneo e, al limite, nemico.

Anche perché il centralismo democratico riservava una forte capacità di interdizione alla cultura prevalente, ricorda Tortorella, che affronta uno dei temi caratterizzanti della nostra conversazione: l’evoluzione della centralità del lavoro. Il ragionamento diventa più caldo e il direttore dell’Unità e impresario della politica per la cultura del Pci per un  decennio si fa ancora più attento e preciso nella ricostruzione.

Si delinea proprio nel passaggio fra gli anni Cinquanta e Sessanta lo spartitraffico fra la destra e la sinistra del partito, dice.

Diego Bianchi su Twitter: “L’emozione di incontrare Aldo Tortorella, il partigiano Alessio, a Osimo, per il premio ”Renato B. Fabrizi” #25aprile …

Oggettivamente il nostro paese in quella fase era chiaramente caratterizzato ancora da ritardi e forme primitive di sviluppo, che lasciavano scoperte necessità e bisogni primari, ma era incontrovertibile che già alcune realtà del nord Italia ci segnalassero che persino il capitalismo italiano stava assumendo un altro passo e altre culture. Non a caso nel 1962 arriva il grande convegno dell’Istituto Gramsci sul neo capitalismo, che mette sotto la lente di ingrandimento proprio le evoluzioni globali del meccanismo economico sociale.

Ma quel dibattito, precisa chi ne fu testimone con l’occhio del giornalista allora, s’incrociò con i prodromi delle tensioni che già investivano la leadership di Togliatti. Discutendo di terziarizzazione e neo managerialità, dice Tortorella, la relazione del giovane Trentin fu davvero un fulmine a ciel sereno, si cominciava a ipotizzare un superamento dell’uniformità del gruppo dirigente attorno al mitico segretario generale. Ingrao e Amendola, con stili e determinazione diversi fra loro, cominciarono a rendere visibile sensibilità e anche proiezioni politiche divergenti.

Guardare a ovest invece che a est, come si fece indubitabilmente nel convegno del Gramsci, era di per sé uno strappo. Il sovietismo, non dimentichiamolo, ci esorta Tortorella, era qualcosa di diverso da una ideologia identitaria, come si direbbe oggi. Togliatti aveva in sincerità creduto, e noi con lui, che l’Urss, per quanto criticabile, fosse l’inizio del socialismo nel mondo e usava il rapporto con essa (c’era, non dimentichiamolo, la guerra fredda) come assicurazione e conferma della missione socialista del nostro partito rispetto a tattiche politiche dettate dalle necessità del momento e alla costruzione di una nostra via originale al socialismo.

Essere e rimanere idealmente in quel campo, rappresentava un sorta di garanzia per la nostra piena dedizione alla democrazia rinnovata dalla Costituzione repubblicana, al pluralismo politico ed economico. Dall’altra parte c’erano i nemici del socialismo in azione, e più si faceva sottile e sfuggente il profilo del campo capitalista e più appariva minaccioso. Proprio la base del partito, detto in generale, avvertiva come positiva questa amicizia stretta con l’Urss.

Sollecito  Tortorella, in virtù di una comune dimestichezza milanese, a recuperare aneddoti e ricordi espliciti.

Milano, mi risponde, che pure era già la realtà più avanzata industrialmente e culturalmente, aveva proprio nel passaggio fra gli anni Cinquanta e Sessanta, che porterà la città poi ad avere la prima giunta di centro sinistra nel ‘61, aveva avuto più a lungo di altre federazioni comuniste un gruppo dirigente in maggioranza stalinista fortemente presente anche nel sindacato. Erano quadri con storie di  eccezionale dedizione e abnegazione personale, ma logicamente legati a un mondo che andava scomparendo e dunque tendevano a diffidare di ogni adeguamento della nostra cassetta degli attrezzi.

Ricordo, mi dice, momenti davvero di grande tensione fra la federazione del partito, guidata allora da Alberganti e Vaia, due compagni della lotta clandestina, e quel gruppo che faceva riferimento alla casa della cultura guidato da Rossana Rossanda, che paradossalmente proprio per la loro apertura culturale e la loro volontà rinnovatrice che ne farà riferimento della sinistra era considerato dai vecchi compagni la destra borghese.

Questo contesto, che Tortorella ci rende con la semplicità e la sincerità di chi ha vissuto e condiviso l’intera parabola di quella straordinaria esperienza storica, rende ovviamente  la ricostruzione del dibattito meno asettica e schematica, costringendoci a fare i conti con una temperie politica, culturale e psicologica che sarebbe davvero sbagliato ignorare. Ma che comunque non può certo assolvere ogni responsabilità e spiegare ogni insufficienza. Proprio il convegno del ‘62 rimane uno spartiacque essenziale da decifrare e analizzare. 

Rossana Rossanda nel suo libro di memorie La ragazza del secolo scorso, scrive che quella è stata

l’ultima occasione in cui il futuro camminava accanto a noi comunisti.

E in effetti in quella sede, anche rileggendo oggi i ponderosi atti, si ritrovano spunti e audacie che non ricorreranno neanche nelle successive elaborazioni più eterodosse di quei protagonisti. Spunti che non germinano piste di ricerca e neanche nei protagonisti di quelle relazioni lasciano scie significative. Trentin, reduce da alcuni anni di studio negli Stati Uniti, nella sua relazione apre una porta che avrebbe probabilmente condotto a un adeguamento decisivo delle capacità dell’intera sinistra di leggere il futuro se fosse stata mantenuta spalancata.  Significativo il suo passaggio sulle nuove figure neo manageriali che così il futuro segretario della Cgil fotografa:

Quest’ideologia, il neocapitalismo, manifesta però anche un’altra  tendenza: quella che ricerca l’emancipazione delle forze produttive dall’egemonia del capitale, quella che insegue, sia pure attraverso una  concezione mistificatoria del profitto, l’autonomia della tecnica e del progresso sociale  dall’ipoteca capitalista.

Uno scalpitante Lucio Magri, debutterà sulla grande scena estendendo di più il ragionamento di Trentin, rendendolo palesemente contrapposto alle accademiche prudenze amendoliane, che volevano lo sviluppo capitalistico comunque inchiodato a uno scenario pauperistico, con una lettura di sinistra del saggio sul consumo di Kenneth Galbraith, che era stato pubblicato proprio in quei giorni:

proprio perché tratta in inganno da quest’analisi insufficiente che la cultura marxista ortodossa ben ferma a ripetere con Marx  che i problemi decisivi sono quelli della produzione,ha respinto e relegato in secondo piano il problema della società opulenta e della deformazione del consumo

per poi concludere, rovinandosi definitivamente agli occhi del gruppo ideologico e politico  raccolto attorno ad Amendola:

la società opulenta non è dunque una forma nuova e particolare di capitalismo: è il capitalismo nella sua compiutezza, nella sua maturità.

Ne consegue, nel ragionamento di Trentin e Magri, e più tardi nella famosa conferenza operaia curata da Luciano Barca nel ‘65, che bisognasse adeguare le piattaforme di conflittualità sociale per contrapporsi non ad un capitalismo straccione che bisognava rigenerare ma ad una efficiente macchina di integrazione sociale che era indispensabile contrastare.

C’è molto di  quanto avverrà dopo e di quanto ci circonda oggi, c’è davvero poco di quanto seguirà la sinistra in quegli anni. Con indulgente pazienza Tortorella segue le mie circonvoluzioni postume, e le mie citazioni tratte dal personale album di famiglia, e s’addentra nel labirinto che gli propongo. 

Allora, ricostruisce, ero direttore dell’edizione dell’Unità di Milano, e potei seguire quel dibattito da lontano, ma con accesso diretto non solo a tutti i materiali, ma anche al clima che lo circondò. Amendola che, come ti ho detto, io considero non tanto, come la vulgata vuole, il leader di una destra liberale del Pci quanto l’esponente più intraprendente e originale di una possibile versione del togliattismo, voleva difendere l’insieme della pratica politica del partito e considerava le incursioni dei giovani che poi sarebbero stati i primi interpreti dell’ingraismo, come una minaccia politica prima che ideologica. Con lui, già l’ho accennato, era sintonizzata buona parte del quadro medio comunista, che vedeva nella sua visione molto maggiore aderenza alla realtà rispetto a ciò che appariva lontano da possibili pratiche immediate, e lascialo dire a chi ha attraversato molti sguardi di diffidenza verso la commissione culturale vista come un cedimento a un andazzo borghese e le figure intellettuali come ambigue, se non proprie insicure. Aggiungi  poi quel parlare di America e di sociologia americana, che inevitabilmente dava un sapore estraneo all’ordito del ragionamento. Potremmo dire che, mentre Gramsci usò la sua forzata separazione dal clima politico, nella cella e nelle sofferenze a cui la prigionia lo costrinse, per riflettere liberamente sulla costituzione della società e intuì, nel suo passaggio su Americanismo e Fordismo quali nuovi forme il capitalismo stava assumendo, nel dopoguerra  non sapemmo elaborare una continuazione di quel pensiero con un nostro pensiero su americanismo e consumismo, su neo capitalismo e trasformazione possibile. Quell’occasione fu persa.

Il valore di quel dibattito, insisto, sta anche nelle percezioni che alcuni degli intervenuti – insieme a Trentin e Magri, penso a Libertini, Foa , Banfi – ebbero di una sfaccettatura di Marx allora ancora inedita, che avrebbe poi avuto una propria consacrazione con la successiva pubblicazione per la prima volta dei Grundrisse, che sarebbero stati editati in Europa solo alla fine degli anni Sessanta. Quel testo di Marx , che doveva servire a una più compiuta preparazione del  Capitale, contiene una gamma di riflessioni e di combinazioni che oggi paradossalmente ci appaiono ancora più profetiche e illuminanti dello stesso tomo sul plus valore, con la sua inversione gerarchica nella determinazione del potere fra produzione manifatturiera e sapere, che impatto ha avuto nella formazione culturale dei gruppi dirigenti del  Pci?

In una delle poche espressioni drastiche che Tortorella non è avvezzo ad utilizzare nel suo ragionamento risponde con un netto: nessuno. 

Anche in questo caso si fa ricorso al repertorio di ricordi e aneddoti per rendere più convincente e motivato il giudizio.

In quegli anni, ricorda Tortorella, si veniva delineando un arroccamento politico che appariva inversamente proporzionale alla ricerca di nuove strade, a cui il nascente centro-sinistra ci avrebbe dovuto sospingere. Proprio i mutamenti culturali erano i più ardui. In una riunione di direzione,  s’accese una disputa sulla mancata critica da parte della sezione culturale agli studiosi di sinistra di Nietzsche, come Massimo Cacciari, che ne andavano ripristinando il significato critico.

Amendola e Pajetta erano i più severi : vedevano messa in dubbio la loro lotta contro il superomismo nazista. Non era così. Per fortuna, in quanto responsabile della sezione culturale mi erano arrivati in visione gli appena ritrovati e stampati diari della madre di Pajetta, una donna straordinaria per acume e profondità di interessi culturali che nella Torino di inizio Novecento rivalutava proprio il ruolo di Nietzsche come critico dei luoghi comuni e dei dogmi di origine religiosa e cioè come stimolo ad una nuova apertura mentale. Fu un aiuto decisivo.

Ma la questione, come abbiamo provato fin dall’inizio di questa analisi, non è riducibile all’influsso di questo o quel dirigente, ma riguarda l’impianto politico culturale di quella potente macchina che fu il Pci.

Lo stesso Berlinguer, mi anticipa con tempismo Tortorella, era figlio di una logica profondamente togliattiana, e del corrispondente storicismo – e sarà duramente attaccato quando se ne verrà distaccando dopo la fine del governo di solidarietà nazionale. Ma vi era in lui una sensibilità umana diversa da altri.  A conferma di questo Tortorella ricorda il passaggio del  referendum sul divorzio, nel 1974, quando proprio questa  sensibilità porta il segretario a rompere gli indugi di una trattativa con il mondo cattolico per evitare il referendum, una trattativa che non finiva mai, e a schierare il Pci per il voto popolare. Così come invece, nel 1977, di fronte a un esplodere di pratiche e di culture che gli apparivano troppo estreme e distanti dal corso della sua storia Berlinguer riduce lo sforzo di elaborazione al tema dell’austerità, che gli pare moralmente più degno di quel ruminare culture, letture, sprazzi teorici, con i quali, soprattutto tra i giovani intellettuali  si andava ponendo in dubbio non solo la linea politica del Pci (era il tempo del governo monocolore democristiano sostenuto da quasi tutto il parlamento compresi i comunisti) ma le sue premesse teoriche e lo stesso primato del lavoro come valore sociale.

Qui Tortorella ritorna in campo con un ricordo che aiuta a dare l’esatta dimensione anche psicologica della fatica di misurarsi con il nuovo del grande partito.

Siamo nel citatissimo convegno dell’Eliseo, che proprio il responsabile della commissione cultura imbastisce fra incomprensioni e frenate. Bisogna rimettere in campo un pensiero politico del Pci sui temi della contemporaneità, dove forte risuonavano ormai scuole di una sinistra radicale soprattutto giovanile, che talora evocavano nuove ricerche e nuove culture talaltra si rifacevano a consunte parole d’ordine che porteranno sino alla tragedia della lotta armata.

L’orizzonte su cui misurarsi era davvero in tempesta. Il consenso popolare, dopo le prime misure governative, andava pesantemente diminuendo, la difficoltà del sistema produttivo avanzava, si veniva sgretolando la centralità delle grandi fabbriche, la stessa materialità del lavoro veniva lentamente diminuendo (già la teletrasmissione, ad esempio, stava drasticamente diminuendo il lavoro materiale dei tipografi, che poi con il digitale scomparirà come tanti altri mestieri).

Per tutto questo l’obiettivo che proponevo, dice Tortorella, riguardava un tema allora decisivo, quello delle “forze motrici” della trasformazione sociale.

Non rinnegavo il possibile ruolo della classe operaia, ma esaltavo quello dell’intellettualità diffusa  (dagli insegnanti ai tecnici d’ogni tipo ecc) divenuti orai nerbo del sistema. La sera del giorno prima delle conclusioni del segretario, quando s’annunciava una presa di posizione politica forte su tutti i temi più attuali, ma anche un riferimento alla nuova composizione di classe Tortorella ricorda che Berlinguer, nell’anticipargli i passaggi del suo intervento conclusivo, gli annuncia che concentrerà la sua attenzione sul tema dell’austerità.

Su quella scelta forse influì l’ascendente di Franco Rodano, il capo dei cattolici comunisti, che sosteneva lo spostamento dei consumi dal privato al sociale. Ovviamente, dice Tortorella, quella scelta di Berlinguer, non aveva niente a che fare con il pauperismo o con l’austerità a senso unico, come fu detto, ma voleva essere l’invito a forme diverse di sviluppo ma spostò l’attenzione dall’esigenza di affrontare le modificazioni della realtà produttiva e sociale. Ed era anche figlia di un bisogno del segretario di stare su tematiche che sentiva più note e più  affini, cosa che non erano invece le sfide che venivano dal mondo giovanile in quei mesi.

Ma qualche anno dopo, rivela Tortorella, lo stesso Berlinguer, siamo nel 1981, accetta la proposta di un comitato centrale sui temi della cultura e mi sollecita a ritornare in particolare  sul ruolo dell’intellettualità di massa. Ma purtroppo erano passati quattro anni e le sfide culturali e politiche hanno tempi cogenti.

Forse la principale di queste sfide a cui alludi, chiedo, era proprio l’affacciarsi  di quel partito comunista sui nuovi scenari tecnologici che stavano delineandosi per cogliere come stava radicalmente mutando il panorama del lavoro e la stessa incidenza delle figure sociali che per tutto il secolo animarono il conflitto  e  sostennero la base sociale dello stesso partito, cambiamento  che comportavano effetti clamorosi,  fra cui lo stesso collasso dell’Urss?

Su questo punto della caduta del blocco sovietico il dibattito è stato  carente, se non proprio volutamente distorto. Io continuo a pensare che l’Urss crolla perché il sistema non riesce a rispondere alle più elementari esigenze della popolazione, come il cibo e i servizi primari alla persona. L’assenza delle libertà democratiche era stata determinante per la degenerazione del sistema e della stessa attività produttiva ma diventa esplosiva dinnanzi al crollo economico.

L’Unione Sovietica non aveva più il grano per il pane. Allo stesso tempo l’avanzare per quanto lento della modernità comportava  un calo di rappresentatività dei ceti del lavoro, e in particolare della classe operaia delle grandi imprese, che in quel sistema aveva una collocazione di relativo agio ma scarsa produttività. Su questo tema su cui mi solleciti e su cui so che sei particolarmente interessato, pur prendendo atto, come ho detto, di spettacolari trasformazione dei modelli produttivi che mutano analisi sociali e prospettive politiche, continuo a ritenere che, soprattutto su scala planetaria dove gli operai non sono mai stati tanto numerosi, sussista un protagonismo del mondo del lavoro che non possiamo ignorare né abbandonare. Anche se oggi, ancor più del tempo dei miei “intellettuali massa” del convegno dell’Eliseo, sia diventata una realtà corposa e ineludibile quella diffusa geografia di figure sociali dell’immateriale. Figure che richiedono un aggiornamento profondo delle categorie analitiche e delle stesse modalità di organizzazione e di rappresentanza di questi mondi che è clamorosamente mancato.

Siamo alla stretta finale. Tortorella , pur mantenendo fede a quel patto di lealtà con la memoria della sua esperienza e dell’azione di un gruppo dirigente a cui si sente obiettivamente legato, ha provato ad aprire spazi per una ricerca più spregiudicata sulle dinamiche e incapacità di una sinistra che sembrava perfetta e che oggi ci appare come inadeguata a cogliere il nuovo del capitalismo con cui si voleva contrapporre proprio nella sua stagione considerata eroica.

Torniamo allo spunto che ci ha portato a discutere con Tortorella: il Pci comincia a perdere colpi proprio negli anni Sessanta, quando forte era la sua presa politica sull’insieme delle sinistre, e d era influente la sua presenza nel quadro politico nazionale.

L’errore che Tortorella individua è la concezione di un’umanità troppo limitata alla sua storicità, in cui il dualismo capitale lavoro rimaneva l’unico motore, e dove il modello sovietico era considerato un aggancio solido per poter operare con libertà nel sistema occidentale. L’ accortezza, la finezza, culturale e politica, e la capacità tattica ha permesso ai comunisti italiani, innervati su una piattaforma sociale di grande ramificazione, come era il mondo del lavoro dipendente e dell’intellettualità diffusa nell’Italia del dopo guerra, di rimanere centrali fino all’esaurimento dei due stralli portanti di quella piattaforma: la rilevanza assoluta  del lavoro operaio, e lo sfondo strategico dell’Urss.

Quando proprio alla fine degli anni Settanta, si delinea un cambio di paradigma sociale, con l’emergere del nuovo sistema smaterializzato e digitale, e, parallelamente si viene disfacendo tramonta il mosaico sovietico, quel partito si disfa teoricamente e socialmente, prima che organizzativamente. La Giraffa si trova con un collo corto perche è il suo corpo che si scompone.

È questa la discussione che ancora langue a sinistra, più che l’elenco delle recriminazioni sugli errori, comunque marchiani, dei vari leader che si sono sovrapposti al partito.

Come uscirne? Anche a questa domanda Tortorella non si sottrae. Ci parla di un lavoro in atto sia sul piano della ricerca teorica, e per questo ancora si sforza di tenere in vita Critica Marxista, la testata che è riuscito a salvare dal falò degli strumenti di comunicazione del Pci, e ci dice dell’azione politica volta a una rigenerazione della sinistra, per la quale sollecita l’Associazione per il rinnovamento della sinistra che cerca di animare dall’inizio del nuovo millennio. Al centro un tema da declinare politicamente, ci dice: una nuova alleanza fra lavoro e sapere. Un progetto che non deve in alcun modo essere soffocato da continuismi culturali e ideologici.

Il cambio di struttura sociale, dice, che abbiamo sotto i nostri occhi è davvero imponente e ormai ogni soggetto sociale è composto da individui che s’aggregano per omogeneità, per le quali la differenza prevale sulla convergenza, come le dinamiche in rete ci dimostrano.

Sono molto colpito, osserva, da come in rete siano oggi valorizzate le singole, anche più eccentriche, pericolose e perfino delinquenziali , community. La rete, continua, è una lente d’ingrandimento che eccita e moltiplica proprio le specificità, anche le più assurde o eticamente spregevoli (il riferimento è ai molti maniaci delle più varie specie). Questo, gli dico, ci parla di quanto siano mutate le pretese  e le dinamiche nelle relazioni sociali, dove appunto il tema è come connettere e attraversare queste filter bubble, le bolle separate, che compongono la nuova opinione pubblica.

Ecco un obiettivo per una nuova sinistra, conclude Tortorella, bucare queste bolle e connettere e contaminare segmenti sociali separati. Diciamo, ricomporre quello che la rete separa, parafrasando un vecchio slogan del ‘68 che non gli dispiace.

Più volte, aggiunge, lo stesso Berlinguer fu incalzato e richiamato a un’ortodossia culturale dallo stesso Amendola che vedeva con preoccupazione crescere fremiti di innovazione ideologica proprio su Marx.

Da Infiniti Mondi, bimestrale di Pensieri di Libertà, n. 8/2019

#Pci100anni. L’innovazione mancata. Parla Tortorella ultima modifica: 2021-01-21T15:46:32+01:00 da MICHELE MEZZA
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