L’intento era quello di evitare che Janez Janša prendesse le redini del governo. Il carismatico leader del centrodestra era un uomo solo. Alla vigilia delle elezioni del 2018 praticamente nessuno pareva disposto a consegnargli la poltrona di primo ministro e il suo partito non voleva trovare un altro nome a cui affidare il prestigioso incarico. La vittoria relativa dei Democratici quindi non servì a molto, tanto che non tentarono nemmeno di trovare una maggioranza.
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Janša era uscito dall’ennesima brutta avventura, che l’aveva persino portato in carcere. I giudici l’avevano condannato per una vicenda di tangenti legate a forniture militari all’esercito sloveno. Lui si era sempre proclamato innocente e aveva puntato il dito sui complotti orditi dalle “toghe rosse” legate al centrosinistra e ai poteri forti. Una sentenza strana, annullata dalla Corte costituzionale che rimandò tutta la vicenda al primo grado di giudizio. Janša chiese che si rifacesse il processo, ma la magistratura preferì chiudere la partita non concedendo deroghe alla decorrenza dei termini.

Alla vigilia del voto, il centrosinistra giocò la solita carta. Poco prima delle elezioni si formò l’ennesimo partito personale del premier in pectore. Questa volta si puntò su Marjan Šarec, sindaco di Kamnik, con un fortunato passato da comico e imitatore. Šarec se l’era cavata bene qualche mese prima alle elezioni presidenziali, quando era uscito sconfitto di misura al secondo turno. Nel centrosinistra erano convinti di aver pescato l’ennesimo coniglio dal cilindro. L’avevano fatto, con poca fortuna, già nelle precedenti tornate, quando avevano puntato prima sul sindaco di Lubiana, Zoran Janković e poi sul costituzionalista, Miro Cerar. Quest’ultimo aveva ottenuto una vittoria elettorale strepitosa. Mai nessun partito era riuscito a portare tanti deputati in parlamento. Il successo iniziale, però, non fu pari all’efficacia dell’azione del suo governo, prigioniero dell’inesperienza dell’ennesima infornata di volti nuovo della politica e delle bizze dei suoi alleati.

Šarec ci mise un po’ per mettere in piedi la sua maggioranza. Per trovare i voti necessari dovette raccogliere tutto quello che c’era nel centrosinistra, andando dalla sinistra radicale al centro moderato. Impossibile accontentare tutti, tanto che la Sinistra preferì rimanere fuori dai giochi, garantendo soltanto l’appoggio esterno all’esecutivo. La nuova compagine non nasceva sotto una buona stella, ma l’obiettivo era raggiunto: si era evitato che quello che veniva considerato dagli avversari “il principe delle tenebre”, ovvero Janez Janša, tornasse a guidare per la terza volta la Slovenia. Šarec alzò bandiera bianca solo un anno dopo. A staccare la spina ci pensò la sinistra radicale, che dopo l’ennesima richiesta cassata decise di togliere l’appoggio formale alla coalizione. A quel punto il governo non aveva più la maggioranza in parlamento, ma poteva comunque continuare a galleggiare, grazie ai “responsabili” disposti a garantire in aula i voti. Far cadere l’esecutivo, del resto, in Slovenia non è facile. Come in Germania, vige la regola della “sfiducia costruttiva”; quindi per mandare a casa un governo bisogna contemporaneamente eleggere il nuovo premier. L’operazione è riuscita solo in poche occasioni nella storia parlamentare slovena.
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A quel punto a rompere gli indugi fu proprio Marjan Šarec, che, sorprendendo tutti, forte dei sondaggi che davano in crescita il suo partito e convinto che si sarebbe mangiato le altre forze di centro, si dimise annunciando che si andava a elezioni anticipate.
Mai previsione fu più sbagliata. Il partito del Centro moderno e il Partito dei pensionati, di fronte all’ipotesi di venir cancellati dal panorama politico nazionale, non faticarono a trovare un’intesa con Janez Janša. A tirare un sospiro di sollievo furono anche molti parlamentari, che dopo un solo anno di legislatura non avevano proprio una gran voglia di andarsene a casa.
Quello di Janša è stato un ritorno in grande stile, proprio nel bel mezzo di una crisi sanitaria, in un paese che non pareva essersi preparato ad affrontare il Covid. Una situazione ideale per un uomo che passa per essere decisionista ed efficiente nelle emergenze. Lui ha fatto come sempre, procedendo immediatamente con una serie di rapidi avvicendamenti nelle posizioni chiave, partendo da servizi segreti, polizia ed esercito. Immediata la levata di scudi del centrosinistra e le accuse di voler portare la Slovenia sulla strada dell’Ungheria, usando la crisi sanitaria per instaurare una democrazia autoritaria su modello orbaniano. In un paese dove la fantasia e le innovazioni non sono una prerogativa della classe politica, anche l’opposizione non ha fatto che ripetere esattamente gli stessi schemi di sempre. Così, questa volta in barba alle disposizioni sanitarie, sono immediatamente ripartite le proteste di piazza, che hanno portato per molti venerdì i cittadini a sfilare, questa volta in bicicletta, per le vie di Lubiana. Inoltre, nella lotta al governo non sono mancate severe critiche per quasi ogni provvedimento preso per arginare il contagio.
Janša, del resto, non ha fatto nulla per rassicurare i suoi avversari, anzi ha gettato benzina sul fuoco con Tweet, lettere e prese di posizione. Alcune delle sue uscite hanno persino fatto conquistare alla Slovenia spazio sulla stampa internazionale, come ad esempio quando, dopo il voto americano, disse che era abbastanza chiaro che Trump aveva vinto le elezioni, senza mancare di prendersela con i media mainstream, che non volevano accetarlo.
Sta di fatto che per il centrosinistra Janša è un vero e proprio pericolo per la democrazia ed è anche probabilmente l’unico elemento unificante tra forze litigiose e in contrapposizione tra loro; un po’ come accadeva in Italia con gli oppositori di Berlusconi, che vedevano nell’ex cavaliere la fonte d’ogni male. Dopo qualche incertezza e qualche tentennamento, quindi, l’assalto al governo è ripartito a ottobre, quando i partiti dell’ex maggioranza hanno tentato di dar vita alla Coalizione dell’arco costituzionale, nella speranza di far tornare all’ovile anche il Partito del Centro Moderno e quello dei pensionati, o almeno di convincere i loro deputati di votare la sfiducia a Janša. La complessa operazione è sembrata prendere vigore a dicembre, quando alla guida del Partito dei pensionati è tornato Karl Erjavec. Una vecchia volpe della politica slovena, abile a fare il tergicristallo tra coalizioni di centrodestra e centrosinistra. Una sorta di Clemente Mastella in salsa slovena, spesso oggetto di scherno sia tra i suoi avversari sia tra i suoi alleati. Il centrosinistra si è immediatamente affidato a lui per defenestrare Janša, offrendogli la carica di primo ministro. Erjavec, che alle ultime elezioni non ha nemmeno ottenuto i voti sufficienti per farsi eleggere in parlamento, ha accettato di buon grado e ha immediatamente rotto l’alleanza del suo partito con il centrodestra, senza però riuscire a convincere tutti i suoi deputati a seguirlo.

Per farsi eleggere premier avrebbe bisogno di 46 voti. Al momento dovrebbe poter contare su 42 preferenze, ma per far cadere governo conta sui franchi tiratori. La mozione di sfiducia, presentata in parlamento alcune settimane fa, al momento è stata ritirata, visto che alcuni dei suoi sostenitori in paramento sono stati messi in isolamento a causa del Covid. Se ne riparlerà quando potranno uscire da casa, ma per più di qualche esperto l’azione oramai sembrerebbe esaurita.
Nel frattempo, Janša può dormire sonni tranquilli. Alla camera la sua coalizione non ha più la maggioranza, ma può contare sui voti dei nazionalisti e su quelli dei due deputati delle minoranze etniche. Lui, d’altronde, che a giugno si prepara a prendere in mano la presidenza di turno dell’Unione Europea, non pare proprio avere nessuna intenzione di dimettersi.

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