Il 5 gennaio Sogin, la società di Stato incaricata dello smantellamento degli impianti nucleari italiani e della messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi, ha pubblicato la Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee. Si tratta del primo passo verso l’identificazione del territorio che accoglierà il Deposito Nazionale, ovvero un’infrastruttura che permetterà di mettere definitivamente in sicurezza i rifiuti radioattivi italiani. Questi sono oggi stoccati all’interno di decine di depositi temporanei, sparsi nel territorio nazionale e prodotti dall’esercizio e dallo smantellamento degli impianti nucleari e dalle quotidiane attività di medicina nucleare, industria e ricerca.
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Sono trent’anni che si attendeva la Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee. Più volte annunciata e poi rinviata, con essa inizia il processo che mira a chiudere definitivamente la stagione del nucleare italiano, sgravando molti territori da situazioni precarie e potenzialmente pericolose. Un’operazione tutt’altro che facile, di cui abbiamo parlato con Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola, protagonista e testimone della storia recente dell’ambientalismo italiano, a partire proprio dalla battaglia antinucleare.

Ermete Realacci, la mappa dei siti potenziali segna davvero la fine della stagione del nucleare italiano?
Dopo tanti anni, la mappa offre finalmente un po’ di trasparenza. È un documento di cui si conosceva da tempo l’esistenza. I criteri e i dati che impiega, le aree che identifica, erano abbastanza noti. La mappa tenta di sanare una situazione sicuramente inaccettabile: in Italia esistono al momento una ventina di siti di stoccaggio, spesso inadeguati per la sicurezza. Essi contengono rifiuti che da anni attendono una ricollocazione definitiva, sollecitata anche dalle associazioni ambientaliste e dai ripetuti richiami dell’Unione europea, che ha avviato una procedura di infrazione contro l’Italia.
In alcuni siti di stoccaggio sono conservate o dovrebbero tornare scorie ad alta attività, eredità del nostro passato nucleare. Queste pongono un problema gravissimo, che nessun paese al mondo è riuscito finora a risolvere in maniera definitiva, perché le scorie ad alta attività vanno vigilate in condizione di massima sicurezza per cento-duecentomila anni. Un tempo paragonabile a quello che ci separa dall’uomo di Neanderthal. Ora la sfida sarà identificare uno o più siti adatti a ospitare il Deposito Nazionale. Per evitare che le forze politiche e sociali del sito individuato dicano “no” all’unanimità, come sta avvenendo, servono alcune precondizioni.
Quali?
Innanzitutto, va detto con chiarezza che le scorie ad alta attività vanno mandate all’estero. Su questo la normativa europea è chiara. Essa prevede la possibilità di creare depositi sovranazionali, in particolare per i paesi che hanno poche scorie ad alta attività e non ne produrranno più perché hanno interrotto l’avventura nucleare. È il caso dell’Italia, ma anche dell’Austria ad esempio. Dare vita a un deposito per scorie ad alta attività in Italia non ha senso, costerebbe tantissimo. Così come non ha senso temporeggiare su questo tema, che pone un ostacolo enorme all’individuazione del Deposito Nazionale. Ricordiamo quanto accaduto a Scanzano Jonico nel 2003.
Come sbloccare la situazione?
Serve un intervento diretto del Governo. Il dialogo e il confronto con le istituzioni e le popolazioni locali non può essere condotto da Sogin, che può occuparsi del supporto tecnico. Del resto in questi decenni la Sogin, nonostante le ingenti risorse provenienti dalle bollette degli italiani, non è stata in grado, anche per motivi indipendenti dalle sue attività, di avviare a soluzione il problema.
Inoltre, è sempre il Governo che deve aprire un tavolo con i nostri partner internazionali. Ci vuole un accordo tra governi per trovare una collocazione all’estero, possibilmente entro dieci anni, per tutte le scorie ad alta attività italiane.
E poi?
Eliminate le scorie più pericolose, la politica deve assumersi le sue responsabilità. Lo Stato deve dare garanzie. Innanzitutto sulla ulteriore messa in sicurezza dei siti di stoccaggio esistenti. Le popolazioni e le istituzioni locali vanno poi informate e rassicurate: le scorie a media e bassa attività sono ben diverse da quelle ad alta attività. Ad esempio, tra le scorie a bassa attività che continuiamo a produrre, ci sono anche quelle della radiologia sanitaria, che sono meno pericolose di molti rifiuti industriali.

Sembra essere un percorso che prenderà molto tempo.
È così, difficile che si concluda entro il decennio. I siti individuati rispettano molteplici criteri di esclusione. Sono sessantasette le aree potenzialmente idonee a ospitare il Deposito Nazionale, presenti in sette regioni (Basilicata, Lazio, Piemonte, Puglia, Sardegna, Sicilia, Toscana). Si tratta ovviamente di realtà distanti dai maggiori centri abitati, lontane dai corsi d’acqua, geologicamente stabili.
Nei prossimi mesi si terrà una consultazione pubblica, di coinvolgimento dei territori, con l’obiettivo di arrivare a una soluzione concordata con le comunità locali. È l’inizio di un percorso che durerà anni e che vedrà una conclusione solo se lo Stato avrà il coraggio e la forza di guidarlo.
È ottimista?
Dobbiamo chiudere definitamente un capitolo. L’abbandono del nucleare è stato una fortuna per l’Italia, anche dal punto di vista economico. La tecnologia nucleare è ormai fuori mercato. Il costo delle energie rinnovabili, invece, è sempre più competitivo. Anche se la tabella di marcia resta ancora incerta, è ormai chiaro che l’Europa e il mondo hanno intrapreso il percorso della transizione ecologica. Nell’agosto 2020 un impianto fotovoltaico in Portogallo ha proposto un prezzo di 11.1 € al MWh, un quarto del prezzo medio del termoelettrico in Italia. E in Gran Bretagna il nuovo nucleare con tecnologia Edf a Hinkley Point prevede un prezzo di 113 € a kWh.
Quanto conta il fatto che negli Stati Uniti ora c’è una nuova amministrazione?
Nei giorni scorsi l’inviato per il clima americano, l’ex segretario di Stato John Kerry, ha detto delle cose molto impegnative in occasione di un incontro di preparazione al G20. Tra l’altro, ha espresso la volontà di moltiplicare per dieci la produzione delle rinnovabili. Sono scelte considerate anche come un volano per l’economia e l’occupazione, perché, come ha fatto notare Kerry, prima della pandemia i due settori che producevano più posti di lavoro negli Stati Uniti erano il solare e l’eolico.
In Italia a che punto siamo?
Noi abbiamo intrapreso questo cammino da tempo. Il passaggio che portò a fermare il piano nucleare italiano e le centrali esistenti, in cui fu determinante l’incidente di Chernobyl, ha creato le condizioni perché la nostra ENEL iniziasse un’avventura che l’ha resa più forte. Sotto la guida di Francesco Starace ha scelto di puntare sulle rinnovabili e sull’azzeramento delle emissioni nette di CO2 entro il 2050, prima ancora che l’Europa assumesse questa decisione. Ora ENEL è il più grande produttore mondiale di energia rinnovabile e l’utility elettrica privata più quotata in borsa in Europa.
Mi fa piacere ricordare che, dopo Chernobyl, l’Italia ha saputo anche dimostrare una grande solidarietà: circa il cinquanta per cento degli ottocentomila bambini bielorussi ospitati in tutto il mondo per decontaminarsi sono stati accolti in Italia da associazioni, istituzioni locali, parrocchie, famiglie. Una risorsa di umanità e responsabilità che ci fa onore e ci dà fiducia anche per le grandi sfide che oggi abbiamo davanti.

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