The man with no name is now a prisoner with a number
[Mark Galeotti – “Why Navalny is becoming a danger to Putin”
The Spectator, 18 gennaio 2021]
“A collective Putin”, una coalizione senza volto di tecnocrati e siloviki che sostituisce il presidente nell’esercizio delle funzioni quotidiane. Questa è la Russia che si affaccia al 2021, nel trentennale del crollo dell’Unione Sovietica, tra repressione interna, future elezioni, pandemia e nuove sfide geopolitiche rese ancora più pressanti dalla vittoria del presidente statunitense Joe Biden.
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Un anno che si preannuncia cupo e che potrebbe essere ricordato per una crescente e sempre più sofisticata azione punitiva condotta su tutti coloro che sono ostili al regime.
Secondo l’analista Tatiana Stanovaya, il presidente è ancora il garante della stabilità, ma è focalizzato più sulle questioni globali che sulla risoluzione dei problemi quotidiani. Nel 2020 Putin ha deciso di delegare aspetti cruciali della gestione dello stato, escludendo il referendum costituzionale, a differenti interlocutori: il governo è, dunque, responsabile dell’economia, i governatori regionali devono gestire la pandemia e all’Fsb (ex Kgb) è affidata la lotta all’opposizione. Questa entità, “the collective Putin”, avendo carta bianca, agisce in nome di un “Putin immaginario”, con l’approvazione tacita di Putin stesso.

Lo stato, sempre secondo Stanovaya, si sta trasformando in una macchina repressiva che distrugge indiscriminatamente e senza rimorso, facendo affidamento sulla cosiddetta “Putin Majority”, ormai svanita. Secondo l’analista del Carnegie Moscow Center Andrei Kolesnikov, non solo è difficile rilevarne l’esistenza, ma questa “maggioranza” si è sgretolata in numerose minoranze i cui membri non hanno certo una mentalità democratica, ma sono, comunque, scontenti della situazione attuale.
Proprio il difficile rapporto con l’opposizione “non-system”, già critico negli scorsi anni, è divenuto più che mai attuale in questi mesi. Dopo l’avvelenamento da novičok avvenuto il 20 agosto scorso, Alexei Navalny, che ha attribuito la responsabilità del gesto al Cremlino, ha deciso di rientrare il 17 gennaio dalla Germania (una mossa paragonata a quella di Lenin dell’aprile del 1917), ove è rimasto per 5 mesi per sottoporsi a cure mediche. In aeroporto è stato subito arrestato, condannato a 30 giorni di detenzione e trasferito nel penitenziario Matrosskaya Tishina (“Sailor’s Silence”), per violazione dei termini della libertà vigilata, in attesa della seconda udienza del 2 febbraio quando decideranno se commutare la pena sospesa in anni di carcere (tre anni e mezzo).
La struttura è una delle prigioni più dure e famigerate del paese, secondo Politico. Navalny, in un post su Instagram, ha affermato di aver letto di questa prigione nei libri. “E ora sono qui. Vita russa”. Attualmente è in una cella situata al piano superiore in una sezione posta sotto la supervisione informale dei servizi di intelligence. Fin dall’era sovietica la prigione ha “accolto” prigionieri di alto profilo che le autorità volevano isolare dal mondo. Mikhail Khodorkovsky, che ha passato quattro anni lì, ha dichiarato che “all’inizio è difficile. E non è più facile neanche dopo. Puoi essere ucciso in qualsiasi momento.” Marina Litvinovich, membro della Moscow’s Public Monitoring Commission, ritiene che il motto del luogo sia “isolation from information.”
Malgrado l’arresto, Navalny ha invitato i suoi concittadini a scendere in piazza il 23 gennaio per protestare contro il regime. E così è stato.
Hanno risposto all’appello anche decine di figure influenti della società russa, tra cui attori, musicisti, giornalisti, scrittori, atleti e blogger.
Le proteste appena concluse, considerate illegali dalle autorità, rappresentano una delle dimostrazioni antigovernative più rilevanti degli ultimi anni (almeno dal marzo del 2017): decine di migliaia di persone, al grido di “Putin is a thief!”, “We will not leave”, “Freedom to Navalny”, “Putin, go away”, sono scese in piazza in tutto il paese, malgrado il clima gelido e il dispiegamento massiccio di forze dell’ordine. Circa 4.000 persone (fonte: OVD-info) sono state arrestate in quasi cento città, tra cui anche la moglie di Navalny, Yulia. Il copione è sempre lo stesso: violenze, arresti e pestaggi brutali da parte della polizia ai danni di giovani e adulti, inclusi minorenni (tra cui un bambino di nove anni), di giornalisti e collaboratori di Navalny, alcuni dei quali, insieme ad altri cittadini, sono stati arrestati anche nei giorni antecedenti alle manifestazioni. Il tutto è documentato e postato sui social media. A San Pietroburgo una manifestante, Margarita Yudina, di 54 anni, dopo essere stata colpita allo stomaco da un ufficiale di polizia ed essere stata ricoverata in terapia intensiva, è divenuta il simbolo delle proteste ed è ora in cerca di giustizia, seppur le sue condizioni siano nuovamente peggiorate.

“Se le dimostrazioni non dovessero avere un risultato immediato, cosa ormai chiara, ossia l’immediato rilascio di Navalny, queste azioni”, ha dichiarato Leonid Volkov, coordinatore della Fondazione Anticorruzione (Fbk) di Navalny, “saranno ripetute all’infinito.” Il team dell’oppositore intende, infatti, organizzare nuove proteste pacifiche il prossimo 31 gennaio, partendo da Lubyanka Square, a Mosca (sede del quartier generale dell’Fsb), e dall’area antistante agli uffici dell’amministrazione presidenziale di Putin. “Tutte le città della Russia. Per la libertà di Navalny. Per la libertà di tutti. Per la giustizia”, ha commentato Volkov su Twitter. Le azioni repressive intanto continuano: proprio il 27 gennaio la polizia ha effettuato alcuni raid nell’appartamento di Navalny e negli uffici della sua fondazione.
Non sono mancate le minacce agli studenti da parte di università e college di molte città russe che hanno paventato la possibilità di ricorrere ad azioni disciplinari ed espulsioni in caso di partecipazione alle proteste, mentre il ministero dell’istruzione ha intimato ai parenti di non consentire ai propri figli di partecipare alle manifestazioni.
Ai social media è stato richiesto di eliminare i video pro Navalny, minacciando sanzioni contro i social inadempienti e colpevoli di incoraggiare i minori ad agire illegalmente, partecipando alle proteste: su indicazione di Roskomnadzor, l’autorità di vigilanza per le telecomunicazioni, VKontakte ha cancellato il cinquanta per cento dei video e ha bloccato tutte le pagine dedicate, TikTok il trentotto per cento, YouTube il cinquanta per cento e Instagram il diciassette per cento. Telegram, invece, ha bloccato gli account di molti giornalisti indipendenti in quanto si sono lamentati di un canale che pubblicava i dati personali dei supporter di Navalny.
Anche il copione delle tv di stato non cambia mai: accuse ai manifestanti di aver aggredito le forze dell’ordine in un’ondata di violenze pianificata in precedenza e pilotata, attacchi a Navalny dipinto come “individuo corrotto che vive nel lusso e mangia l’aragosta”, solo per citare alcuni punti. Il portavoce di Putin Dmitri Peskov ha minimizzato la portata della manifestazione, affermando che si tratta di una minoranza di cittadini, mentre, in realtà, sempre secondo Peskov, “molte persone votano per Putin”, come dimostra il risultato del referendum costituzionale. Intanto sono in fase di valutazione le tipologie di condanna a carico delle persone in detenzione da parte dei tribunali sia per punire chi ha protestato il 23 gennaio sia per “decapitare” la leadership del movimento. Il ministero dell’interno, ad esempio, ha già aperto un procedimento penale per coloro che hanno bloccato il traffico, decisione che potrebbe portare a condanne a un anno di carcere.

Ma la censura non è venuta solo dal governo: secondo quanto riportato da The Moscow Times, l’ufficio moscovita della società di consulenza McKinsey & Company ha vietato al proprio staff di partecipare alle proteste, chiedendo di astenersi da qualsiasi tipo di attività politica, pubblica o privata, per essere in linea con le policy previste dalla società ed evitando di compromettere la reputazione della stessa “a favore della neutralità politica”. Il divieto è stato applicato anche ai post sui social media. McKinsey non solo ha rapporti professionali di lunga data con società legate al Cremlino, alcune delle quali sottoposte a sanzioni occidentali, ma collabora abitualmente con paesi autoritari, tra cui Arabia Saudita, Turchia e Cina.
Un ulteriore elemento che ha rafforzato le proteste (ad oggi sono oltre novanta milioni le visualizzazioni) è la videoinchiesta realizzata dal team di Navalny e postata il 19 gennaio, in cui viene mostrato l’ormai noto “Putin’s Palace” sul Mar Nero (in Russia se ne parla dal 2010), una residenza da 1,35 miliardi di dollari costruita, sempre secondo Navalny, con fondi illeciti forniti da membri della cerchia del presidente. “Puro nonsense, una menzogna”, secondo il portavoce Peskov, mentre Putin ha smentito le dichiarazioni dell’oppositore, affermando di non essere proprietario della struttura.
In questa fase, dunque, essere al di fuori del sistema equivale a un crimine e i siloviki hanno il mandato di reprimere ogni tipo di movimento anti-Putin, in un crescente clima di intolleranza contro qualsiasi forma di indipendenza. Per molti anni l’opposizione è stata “tollerata” dal Cremlino in base al livello di pericolosità, ma ora non è più accettata neanche l’appartenenza all’opposizione “non-system”. Il tutto dipende da tre fattori chiave: il meccanismo dello “smart voting”, che ha portato alle crisi politiche moscovite dell’estate del 2019, l’“intrusione” nell’agenda politica, con le indagini anticorruzione e le critiche alle autorità incapaci di opporre resistenza e, infine, la decisione dei siloviki di prendere l’iniziativa. Il risultato? L’opposizione è divenuta una questione di sicurezza nazionale e l’avvelenamento di Navalny sta portando il paese ad affrontare una guerra di distruzione reciproca.

Le leggi repressive approvate dalla Duma negli ultimi mesi del 2020 non fanno che aggravare questo contesto. Nuove restrizioni sono state, infatti, introdotte per le manifestazioni pubbliche, mentre la diffamazione online può comportare fino a due anni di detenzione.
Lo stesso concetto di “foreign agent” (“spia”), introdotto negli anni scorsi e applicato ai media e alle persone che postavano informazioni online e ricevevano un contributo finanziario dall’estero, è stato ampliato: ora vi sono presupposti più ampi per considerare “foreign agent” una persona o un’organizzazione, se coinvolta in qualsiasi tipologia di attività politica sul suolo russo condotta nell’interesse di una fonte straniera, ossia il monitoraggio elettorale, i post sui social media relativi alla politica russa e la partecipazione a proteste. Il supporto dall’esterno non comprende più solo il finanziamento straniero, ma, secondo la nuova legge, sono incluse altre forme di “assistenza metodologica e organizzativa”. Non è solo problematico il supporto da parte di fonti straniere, ma anche quello offerto dai loro intermediari – cittadini e organizzazioni russe – che agiscono nell’interesse delle “fonti straniere”. Le potenziali “spie” devono, ovviamente, registrare il proprio status per evitare multe o la detenzione.
La legge ora riconosce anche i “foreign agent candidates” che devono indicare tale status nei materiali utilizzati per le campagne elettorali, tra cui rientra qualsiasi dichiarazione di supporto a un candidato da parte di un blogger (qualsiasi persona che utilizza i social network è un blogger). Se queste dichiarazioni non sono finanziate direttamente dal fondo elettorale del candidato, il censore federale russo può bloccare l’accesso ai contenuti.

La gestione del caso Navalny da parte delle autorità è emblematica poiché consente di capire le dinamiche in atto nella leadership del paese.
Secondo Stanovaya, tale leadership non è un monolite, ma è un gruppo caratterizzato da tre scuole di pensiero: i siloviki, il team dell’amministrazione presidenziale focalizzato sulla politica interna e un gruppo trasversale formato da colossi industriali, banche, aziende di stato e portatori di interessi economici. Per i siloviki la vendetta è ormai una questione di principio: Navalny è un nemico da distruggere, almeno politicamente. Dunque, secondo loro, non dovrebbe essere solo incarcerato, ma anche umiliato e schiacciato. Rappresenta la minaccia derivante dagli avversari occidentali e, come sostengono le autorità, parte del piano per distruggere il regime putiniano. Non sono previsti empatia, compromesso o convenevoli politici, ma solo operazioni militari a sangue freddo.
Il secondo gruppo, convinto che la soluzione migliore fosse la permanenza di Navalny in Germania, non intende essere coinvolto in alcuna azione che possa condurre a proteste in grado di esacerbare il conflitto tra le autorità e gli ambiti progressisti della società o di costituire un fardello, alla luce della grave pandemia in corso e in vista delle elezioni alla Duma di settembre. Questo gruppo svolge, dunque, solo un ruolo subordinato e tecnico a servizio dell’Fsb: assistere i servizi e contribuire all’implementazione delle decisioni prese in merito a Navalny o ad altri membri dell’opposizione. Il terzo gruppo, invece, che influisce poco sul processo decisionale, non desidera inasprire i rapporti con l’Occidente, per evitare nuove sanzioni o altre pressioni. Questa modalità di gestione del caso Navalny potrebbe essere più pericolosa per la stabilità del regime di Navalny stesso. Nel mese di agosto del 2019 il Ceo di Rostec Sergei Chemezov criticò, in maniera cauta, le autorità per non aver consentito ai membri dell’opposizione di candidarsi alle elezioni. Secondo Chemezov, è meglio includerli, agevolandone l’inserimento nel sistema.
L’approccio in atto è figlio di un regime politico che sta perdendo la capacità di analizzare i pro e i contro delle azioni e di prendere decisioni basate sul consenso. Il punto chiave, secondo l’analista, è l’eventuale volontà da parte dei membri della cerchia di Putin di mettere in discussione la strategia dell’Fsb. Lo stesso vale per gli ambiti progressisti della società, per l’élite o per le voci di dissenso presenti nella leadership del paese.

Per Andrew Roth del Guardian la rivalità tra Putin e Navalny è ormai personale, dopo un decennio di attacchi contro amici e famiglia. Ricordiamo anche che Navalny ha svolto un ruolo cruciale nell’identificare Katerina Tikhonova, funzionario presso la Moscow State University, quale figlia di Putin. Nel 2015 Navalny disse a Reuters che “si trattava di qualcosa di più di una successione dinastica”, definendo il sistema “neofeudale”. “I figli non ereditano solo la posizione dei propri genitori, ma anche il diritto di scegliere la tipologia di posizione desiderata. Il pericolo è che, a breve, tutte le risorse chiave saranno concentrate nelle mani di cinque, sette famiglie.” Dopo l’arresto Navalny ha anche indicato una lista di persone che dovrebbero essere sanzionate per punire il governo russo, tra cui Roman Abramovich, Alisher Usmanov, i figli di Nikolai Patrushev e Alexander Bortnikov. “L’Occidente dovrebbe sanzionare i decision-maker e le persone che detengono il loro denaro”, ha dichiarato Navalny, “Nient’altro avrà un impatto sul comportamento delle autorità russe.”
Ma il punto cruciale è un altro: qual è il motivo che ha spinto realmente le persone a scendere in piazza? Le ragioni sono molteplici e non riguardano solo la detenzione di Navalny, ma anche, e soprattutto, il desiderio di cambiamento e di vivere in un paese migliore.
Mark Galeotti ricorda che, anche dopo l’avvelenamento, molti russi non sanno chi sia Navalny, mentre altri ripetono a pappagallo gli argomenti delle tv di stato, ossia che è un opportunista o un burattino delle potenze straniere che ha inscenato l’avvelenamento come trovata pubblicitaria. Secondo quanto riportato dal Time, malgrado Navalny sia una figura polarizzante, in un sondaggio condotto a settembre dal Levada Center, solo il venti per cento dei russi supporta il suo lavoro, mentre il cinquanta per cento disapprova. Il malcontento verso Putin è in aumento, invece. Le proteste, secondo Stanovaya, sono più indicative della forza dell’opposizione contro Putin che della popolarità di Navalny, anche se sicuramente il 23 gennaio è stato il giorno della sua legittimazione popolare. Elemento che ha determinato il venir meno, a causa della portata delle dimostrazioni, del divieto (“invisibile”) imposto alle élite di sostenere l’oppositore.

@ZolotorevskiyB]
Una signora intervistata dalla BBC ha espresso la propria preoccupazione in quanto la Russia è diventata “un campo di prigionia”, mentre un altro manifestante di 53 anni ha affermato di essere stanco di avere paura. “Non sono venuto qui per me stesso o per Navalny, ma per mio figlio perché non vi è futuro in questo paese.” Anche TV Rain, intervistando alcuni dei manifestanti, ha rilevato che in certi casi si tratta della loro prima protesta, non concordano del tutto con Navalny, ma ritengono che l’avvelenamento e l’arresto siano “troppo”. Alcuni hanno dichiarato di essere scesi in piazza perché ormai si vive in “un regime in cui si può essere incarcerati senza motivo”.
Kolesnikov, secondo quanto riportato da Robert Coalson per Radio Free Europe Radio Liberty, ritiene che in questo clima sociale e politico il governo di Putin stia manifestando la propria ansia in vista delle elezioni alla Duma, ultima pietra miliare prima della fine del mandato presidenziale nel 2024.
E ciò che emerge, proprio in vista delle elezioni di settembre, è la debolezza di Putin e del partito “Russia Unita”. La pandemia, con 3.774.672 contagiati e 71.076 morti, e le criticità associate hanno accelerato processi rilevati negli ultimi tre anni.
Gli indici di gradimento del presidente sono molto simili a quelli del periodo 2011-2012.
Le radici del malcontento sono economiche. Secondo Ivan Tkachyov, direttore delle pagine economiche di RBC, “nel periodo 2014-2017 i redditi si erano ridotti costantemente” e, per la fine del 2020, era previsto da parte di Tkachyov “un ulteriore ribasso del dieci per cento rispetto al 2013”, anno antecedente all’annessione della Crimea. Per contrastare il disagio della popolazione indigente sono stati anche introdotti dei limiti da applicare ai prezzi al dettaglio. A questo si aggiungono la svalutazione del rublo e il crollo di un terzo dei proventi del petrolio e del gas.
Il malcontento deriva anche dal referendum costituzionale giustificato, secondo molti cittadini, dagli interessi personali del presidente e non dalla necessità di garantire maggior benessere al paese. Ecco perché, secondo l’editorialista Boris Grozovsky, “questo ha annullato la popolarità di Putin e la legittimità del regime. Ed ecco perché, dopo gli emendamenti, è stato costretto a incrementare le misure repressive, anche a livello legislativo.” Putin sembra aver cambiato il proprio paradigma politico, come è emerso nel corso del Direct Line del 17 dicembre, in cui ha lodato tutti i livelli di governo per la gestione della pandemia. Le cause dei problemi dei russi sono da attribuire all’“influenza nefasta di alcuni paesi stranieri e alla CIA”, decisi a limitare la Russia in ogni modo. Secondo Mikhail Kasyanov, primo ministro durante il primo mandato di Putin (2000-2004), “Putin stava difendendo l’apparato burocratico. Ha difeso la verticale del potere che gli consente di gestire il paese.” Il populismo, secondo Kasyanov, è uno sforzo per fare appello ai cittadini, criticare i funzionari e i diversi responsabili, promettendo di sistemare le cose. Ma questa volta non avrebbe potuto agire così visto che il suo indice di gradimento negativo sta crescendo tra la maggioranza dei russi. In questo momento “non è più al di sopra dei burocrati.” “Invece del tradizionale autoritarismo-populista, è iniziato l’autoritarismo standard che potrebbe evolvere in totalitarismo.”
Anche secondo Kolesnikov, il vecchio approccio populista di Putin non funziona più, considerato il crescente malcontento. “In questo sistema politico personalizzato, è arrivato a personificare non solo tutto ciò che è giusto, ma anche tutto ciò è sbagliato. Ed è qui che inizia il problema”. E nessuno dei consulenti politici del Cremlino ha dimenticato le proteste di massa del 2011-2013.
“La metà dei russi desidera il cambiamento”, afferma Kasyanov, “ma chi è al potere teme il cambiamento” e ha paura che le proteste possano spingersi troppo oltre. E si sa che i leader russi prestano attenzione solo alle proteste di piazza. Si è visto tra la fine di dicembre 2011 e l’inizio del 2012. Ecco perché il Cremlino ha focalizzato la propria attenzione su Navalny, che rappresenta sicuramente il leader delle proteste. E quando la lotta si intensifica in questo modo, quando le autorità iniziano a mettere in atto azioni repressive, allora le proteste di piazza diventano il principale strumento per contrastarle. Così stanno provando a rimuovere il leader di eventuali future proteste.
Sarebbe un errore, secondo Oliver Carroll dell’Independent, pensare che le manifestazioni del 23 gennaio siano un punto critico per Putin. Il Cremlino sicuramente avrebbe dovuto dimostrare l’incapacità di Navalny di radunare un numero elevato di persone. E ha fallito. Navalny avrebbe dovuto evitare questo. E ci è riuscito pienamente. Malgrado la maggior parte del suo staff fosse in carcere, il network che ha costruito è stato in grado di far scendere in piazza manifestanti di tutte le età e background, non solo le classiche tipologie. Più del quaranta per cento protestava per la prima volta e solo il quattro per cento era minorenne. Ogni protesta, sostiene Carroll, è caratterizzata da un proprio Dna, anche se il 23 gennaio sono emersi certamente elementi osservati nel corso delle proteste del 2011-2012 o durante le proteste di Maidan. Ma due elementi sono nuovi: il primo è dato dalla diffusione geografica (Mosca non è più l’unico punto di riferimento). Il secondo è rappresentato dalla “natura caotica e incerta” delle operazioni di polizia in atto. A Mosca, ad esempio, la polizia ha cercato di sgomberare senza successo il punto di incontro principale in Pushkin Square. L’analista politico Konstantin Kalachyov ritiene che le autorità fossero disorientate dagli eventi, decidendo di ritirarsi in modalità “deep defence” e cercando soluzioni precise in grado di intaccare le abilità di Navalny senza ricorrere a cicli incontrollabili di coercizione visti nel 2013-2014 in Ucraina e in Bielorussia nel 2020. Non è chiaro quanto tale modalità di reazione possa durare, vista la detenzione di Navalny, certamente non negoziabile, elemento che incita alla protesta. Ovvia debolezza e autoritarismo non sono mai un mix stabile.
A questo scenario si affiancano le sfide geopolitiche, a livello internazionale e nello spazio post sovietico, che Putin deve affrontare e che complicano un quadro già abbastanza complesso, tra sanzioni e contrapposizioni politiche preesistenti. Secondo quanto riportato da Mike Eckel, il 17 gennaio, ancor prima dell’insediamento ufficiale del presidente statunitense Joe Biden e solo due ore dopo l’arresto di Navalny, il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, tramite Twitter, ha dichiarato che “Navalny dovrebbe essere rilasciato immediatamente e gli autori dell’oltraggioso attacco alla sua vita devono essere ritenuti responsabili. Gli attacchi del Cremlino a Navalny non sono solo una violazione dei diritti umani, ma anche un affronto al popolo russo che vuol far sentire la propria voce.” La velocità del gesto di Sullivan è considerata alquanto inusuale visto che formalmente non aveva ancora assunto l’incarico. Il tweet è stato seguito da una dichiarazione dell’ormai ex segretario di stato americano Mike Pompeo.
Anche prima dell’arresto di Navalny i consiglieri di Biden avevano indicato che il suo caso avrebbe potuto essere una priorità. A settembre, durante la campagna elettorale, dopo la conferma da parte della Germania dell’avvelenamento, Biden aveva attaccato Mosca, definendo il gesto “oltraggioso” e “impudente”. Peraltro, la sostanza utilizzata per avvelenarlo è proibita dalla Convenzione sulle armi chimiche di cui la Russia è firmataria.
Il Dipartimento di stato americano, tramite una dichiarazione del 23 gennaio, oltre a condannare fermamente quanto è avvenuto, ha richiesto il rilascio di Navalny e di tutti coloro che sono stati arrestati, esortando la Russia a collaborare pienamente all’indagine avviata dalla comunità internazionale sull’avvelenamento di Navalny stesso e a fornire una spiegazione in merito all’utilizzo di armi chimiche sul proprio territorio. Una dichiarazione che, secondo Peskov, rappresenta un gesto di interferenza da parte degli Stati Uniti nella politica interna russa. Il 25 gennaio Biden ha espresso profonda preoccupazione per le azioni repressive messe in atto, dichiarando di non aver ancora deciso quali azioni mettere in campo in risposta alla situazione di Navalny. Ha auspicato, inoltre, di poter cooperare con la Russia in ambiti che potrebbero garantire benefici a entrambe le parti.
Sulle possibili modalità di interazione tra Russia e USA si era già espresso nei giorni scorsi Thomas Graham, analista e consigliere esperto di Russia che, in passato, ha affiancato alla Casa Bianca anche il presidente George W. Bush. Graham ritiene di potersi aspettare un atteggiamento più critico sul tema dei diritti umani in Russia, come anticipato dall’amministrazione Biden stessa, ma questo sarà affiancato dalla proposta di avviare “un dialogo serio sulla stabilità strategica, quale parte di una policy che può essere definita ‘pragmatismo di principio’ con Mosca”. Sempre secondo Graham, l’amministrazione Biden può decidere di compartimentalizzare gli ambiti di intervento – l’arresto di Navalny e altre tematiche di rilievo.
Lo dimostrano le recenti interlocuzioni tra Patrushev e Sullivan e la prima telefonata del 26 gennaio tra Putin e Biden: tra i temi oggetto di discussione ritroviamo la volontà congiunta di estendere per 5 anni il trattato New START entro il 5 febbraio (il Parlamento russo ha già ratificato la decisione), avviando un confronto su altri ambiti, tra cui il controllo degli armamenti e le questioni legate alla sicurezza. Il presidente americano ha riaffermato il pieno sostegno alla sovranità dell’Ucraina e ha sollevato alcune questioni di interesse, dall’operazione di hackeraggio di SolarWinds alle taglie poste dalla Russia sui soldati americani in Afghanistan, dall’interferenza nelle elezioni americane del 2020 all’avvelenamento di Navalny.
La repressione del 23 gennaio ha suscitato l’immediata reazione anche di altri leader internazionali, dei ministri degli esteri del G7 (Regno Unito, Francia, Canada, Giappone, Italia, Germania, oltre agli USA) e di Polonia, Lettonia, Estonia, Lituania.
In ambito europeo, è intervenuto a supporto del popolo russo anche Josep Borrell, alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che ha organizzato una riunione di coordinamento con i ministri degli esteri europei in cui, tuttavia, si è deciso, in quanto ancora prematuro, di attendere l’esito della seconda udienza di Navalny prima di definire nuove sanzioni. Dal 4 al 6 febbraio è prevista una visita a Mosca di Borrell che rappresenta, secondo Dmitri Trenin, un segno della volontà di rivedere seriamente i rapporti con Mosca, malgrado o forse a causa delle gravi differenze e della profonda sfiducia.
Proprio a proposito di sanzioni, è opportuno ricordare, secondo quanto riportato da Riddle, che Armin Lashet, nuovo leader della CDU, si è espresso a favore della prosecuzione e del completamento del Nord Stream 2, esortando a considerare tale questione separatamente rispetto al caso Navalny. Per Russia e Germania la questione è puramente commerciale.
La visione statunitense sul Nord Stream 2 sembra essere, invece, nettamente diversa. Per Biden questa infrastruttura è un “cattivo affare” per l’Europa, secondo quanto riportato da Reuters, in quanto la renderebbe più dipendente dal gas russo e metterebbe a rischio la sicurezza energetica europea. Il Cremlino ha prontamente accusato il governo americano di cercare di promuovere la vendita del proprio gas naturale liquefatto.
L’amministrazione statunitense procederà alla revisione delle restrizioni applicate al progetto incluse in una legge dell’amministrazione Trump. Le sanzioni previste si applicano a qualsiasi compagnia che supporta Gazprom nell’implementazione del progetto.
Anche nei paesi dello spazio post sovietico, tra cui la Bielorussia e la Moldavia, sono state organizzate diverse manifestazioni di solidarietà nei confronti del popolo russo (solidarietà ricambiata dai russi al grido di “Long Live Belarus”). Ed è uno spazio che nel corso del 2020 è stato caratterizzato da rivolte e cambiamenti politici, come dimostrano le proteste nel filorusso Kyrgyzstan, la guerra nel Caucauso che ha messo alla prova l’influenza della Russia nella regione e il caso bielorusso. In tal senso, la Bielorussia, che da sempre riveste una rilevante funzione geopolitica, richiede, soprattutto in questa fase, una particolare attenzione da parte del Cremlino: dal mese di agosto si susseguono le proteste contro il presidente Lukhashenko, che ha finora soffocato ogni tipo di dissenso con azioni estremamente repressive. E gli ultimi sondaggi, secondo Artyom Shraibman del Carnegie Moscow Center, mostrano che l’opinione pubblica del paese ha una visione della Russia maturata non solo sulla retorica dei politici. Il supporto, peraltro ambiguo, a Lukashenko è costato a Mosca le simpatie di una parte della popolazione, mentre il sentimento filorusso è associato sempre di più al supporto al regime.

L’orientamento del popolo bielorusso verso Mosca è una questione di valori ed emozioni, mentre la posizione filoeuropea viene dal pragmatismo, secondo studi condotti dall’Independent Institute of Socio-Economic and Political Studies negli anni duemila e dal Belarusian Analytical Workshop. Una parte del popolo bielorusso ammira l’Europa per la miglior qualità di vita, ma ama la Russia perché è parte del proprio cuore. Il profondo trauma collettivo derivante dalla repressione e il silenzio di Mosca dinnanzi a questo scenario non fanno che alimentare il malcontento, causando un declino nella predisposizione verso la Russia. In base a questo ragionamento sarebbe dunque impossibile essere un democratico filorusso. Sta passando di moda il supporto all’autoritarismo e anche la disposizione verso la Russia potrebbe seguire il medesimo corso.
Visto che l’Occidente ha supportato i manifestanti, dando asilo ai loro leader e sanzionando il presidente e i suoi alleati, Lukhashenko si è avvicinato molto di più a Mosca. Anche se la Russia gli chiedesse di cedere il potere, la spinta dovrebbe essere gentile per evitare di dare l’impressione di fare concessioni al “nemico.”
Vi è un pericolo per Mosca: in una Bielorussia post Lukashenko potrebbe scoprire che l’opposizione a un’unione con la Russia potrebbe estendersi oltre ai nazionalisti e agli europeisti coinvolgendo anche coloro per i quali la Russia è associata alla repressione e alla crudeltà. Una coalizione così ampia potrebbe far divenire la storicamente stabile maggioranza filorussa un elemento del passato. Inoltre, anche se trovasse un’alternativa al leader attuale, elemento sicuramente incerto, il nuovo candidato dovrebbe conseguire la vittoria dopo libere elezioni per ottenere la legittimazione popolare. La Russia potrebbe apparire forte, ma dispone di scelte limitate. “No love is lost” tra Putin e Lukashenko, ma entrambi sono legati da “un abbraccio tossico.”
Secondo quanto riportato dall’analista Brian Whitmore, Mosca, nel mese di novembre, aveva già fatto pressioni su Lukashenko per attuare le riforme costituzionali. Ma per Andrei Kortunov, direttore del Russian International Affairs Council, “Putin ha capito che Lukashenko è un’anatra zoppa il cui mandato è in scadenza e che la transizione politica in Bielorussia è già in corso. L’obiettivo non è fermarla, ma renderla meno dolorosa e più gestibile”. Per l’economista Yevgeny Gontmakher, la situazione in Bielorussia “ricorda molto gli eventi avvenuti in Polonia negli anni Settanta e Ottanta che si sono conclusi con il collasso del sistema socialista nell’Europa Centrale e con il crollo dell’Unione Sovietica.”
Sono stati ipotizzati anche altri scenari per risolvere il caso Bielorussia, anche quelli che includono l’intervento russo attraverso azioni di sabotaggio e il coinvolgimento di compagnie militari private.
Ciò che emerge dal dibattito sulla strategia del Cremlino è che rimuovere Lukashenko rischia di creare un altro precedente, ossia che un leader possa essere rovesciato dalle rivolte sociali. Ma sostenere Lukashenko pone Mosca in forte opposizione rispetto a una crescente maggioranza di bielorussi.
Tra pressioni interne ed esterne, dunque, la Russia dovrà affrontare numerose sfide nel 2021. Nel contesto politico attuale Stanovaya rileva, tuttavia, una profonda criticità: non è presente un unico centro decisionale in grado di adattare le strategie e definire una visione di lungo periodo, con una conseguente competizione all’interno del sistema che dà spazio agli interessi dei singoli, sacrificando le priorità di lungo periodo. Il sistema, dunque, rischia di consumare se stesso in una lotta per la sopravvivenza condotta dalle singole componenti: la società diviene un ostaggio e una componente sacrificabile nell’ambito degli esperimenti politici. Vi è, comunque, un limite alla resistenza del regime. Il crollo della qualità della vita e una riduzione della fiducia nelle autorità, incapaci di comunicare in maniera efficace e di risolvere i problemi, porteranno a una crescente infelicità nella società civile, all’insorgere delle proteste e alla creazione di nuove aree di conflitto.
Questo nuovo sistema che prevede di immobilizzare la società e di reprimere qualsiasi forma di resistenza potrebbe avere conseguenze imprevedibili.