“Così salverò il partito di Golda Meir e Yitzhak Rabin”

Per evitare il tracollo, il Labour ha deciso di affidarsi ad una donna: giornalista, femminista, l’ultima parlamentare rimasta. Il suo nome è Merav Michaeli, 54 anni. ytali l’ha intervistata.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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Un (ex) segretario che pur di restare incollato alla poltrona ministeriale in un governo di destra, lascia il partito che aveva contribuire a disastrare, scegliendo di entrare a far parte dell’ennesimo gabinetto guidato da Benjamin Netanyahu. Il partito che ha fatto la storia d’Israele, che ha fondato lo Stato ebraico, governandolo da solo, ininterrottamente, dal 1948 al 1977, quando per la prima volta fu sconfitto dal Likud, il partito di destra guidato allora da Menachem Begin. Il Partito laburista, che fu di David Ben Gurion, Golda Meir, Moshe Dayan, Yitzhak Rabin, Shimon Peres, rischia di scomparire dalla knesset, il parlamento d’Israele, se nelle elezioni del 23 marzo prossimo, le quarte in due anni, non supererà la soglia di sbarramento del 3,25 per cento. Un rischio reale, visti i recenti sondaggi. Per evitare il tracollo, il Labour ha deciso di affidarsi ad una donna: giornalista, femminista, l’ultima parlamentare rimasta. Il suo nome è Merav Michaeli, 54 anni. Giornalista, femminista. Michaeli ha vinto le primarie con il 77 per cento dei voti, distanziando di gran lunga il suo avversario Avi Shaked (19 per cento). La neo segretaria laburista ha due mesi di tempo per salvare il Labour. “Il Partito laburista è ancora bloccato nel fango e la mia missione è salvarlo e ricostruirlo”, ha affermato subito dopo la sua elezione. E in questa intervista a ytali spiega come proverà a farlo.

“Amici che credono in un Israele di partnership, uguaglianza, sicurezza e pace: il Partito Laburista è la tua casa politica. Oggi apro le fila del partito. Ciascuno di coloro che agiscono potrà votare ed essere eletto nella lista della Knesset già lunedì. Vieni da noi. Partecipa alla ricostruzione di una casa politica della verità.“

In molti si chiedono: ma chi glielo fa fare a imbarcarsi in quella che viene raccontata come una “missione impossibile”: salvare il glorioso quanto terremotato Partito laburista dalla scomparsa parlamentare.
So bene che è una impresa difficile, la più difficile da decenni a questa parte, forse da sempre. Perché stavolta in gioco è l’esistenza stessa del partito. Lei parla di coloro che si chiedono e mi chiedono “ma chi te lo ha fatto fare, come pensi di poter raddrizzare una barca ormai alla deriva…”. Ma ho incontrato anche tanti altri, donne e uomini, che mi hanno incoraggiato, che avvertono il peso di un momento cruciale non solo, mi permetto di dire, per la storia di un partito che ha fatto la storia, e non è un gioco di parole ma la verità, d’Israele. Ho scelto di battermi perché salvare il Labour è contribuire a salvare la democrazia nel mio Paese, perché la democrazia vive se esiste un confronto, anche duro ma leale, tra visioni, ideali, progetti alternativi. Senza questa dialettica, la democrazia risulta amputata, monca, e finisce per trasformarsi nella dittatura della maggioranza.

Uno dei suoi primi atti da neo segretaria del Labour è stato quelli di chiedere al suo predecessore alla guida del partito, Amir Peretz, e a Itzik Shmuli, di dimettersi dal governo guidato da Benjamin Netanyahu. Lei ha chiesto un atto di discontinuità. La risposta di Amir Peretz è stato l’annuncio della sua uscita dal Labour. La ritiene una sconfitta personale?
No, ritengo la decisione annunciata da Peretz come un elemento di chiarezza, di una dolorosa ma necessaria chiarezza. Non m’interessa personalizzare il confronto, non fa parte della mia concezione della politica, né intendo dare giudizi morali. Aver deciso di far parte del governo Netanyahu è stato un gravissimo errore politico, commesso non solo da Peretz ma, cosa ancor più grave, da colui che si era presentato agli israeliani come l’anti-Netanyahu: Benny Gantz (il leader del partito centrista Kahol Lavan, ndr). In tutti questi anni che è stato alla guida d’Israele, Netanyahu ha dimostrato di essere imbattibile nel dividere il fronte avversario, con uno spregiudicato quanto produttivo, per lui, esercizio del potere. Così è stato anche in questo frangente. La fallimentare esperienza di governo, ha spaccato Kahol Lavan, ridimensionato fortemente l’immagine, oltre che le aspirazioni, di Gantz e disorientato ancor più ciò che resta dell’elettorato di sinistra. So bene che lo spostamento a destra del paese non è qualcosa che nasce con quest’ultimo governo, ma che viene da lontano, e da cambiamenti strutturali, in primo luogo demografici e sociali, che la sinistra, e in primis il mio partito, non sono stati all’altezza di cogliere, come invece ha dimostrato di saper fare la destra. Non siamo stati all’altezza delle sfide del cambiamento. Di questo ebbi modo di discutere in uno dei nostri ultimi incontri, prima della sua scomparsa, con Shimon Peres. “Se non sai leggere i cambiamenti intervenuti, sei destinato alla marginalità o a vivere in un passato che non c’è più”, mi disse Shimon. Ed è una lezione che non dimenticherò mai. Quanto a Peretz e Shmuli, hanno fatto la loro scelta. La rispetto, ma questo li porta fuori dal partito. Non possiamo continuare a ingannare i nostri elettori, i nostri iscritti, partecipando ad un governo corrotto.

Corrotto è una parola forte.
Non saprei quale altra parola utilizzare per spiegare il perché ritengo inaccettabile collaborare con un primo ministro imputato di gravi reati di corruzione e frode pubblica, che ha fomentato la piazza, chiamando a raccolta le frange più estreme della destra, contro coloro che irresponsabilmente aveva additato come parte di un “golpe” tentato contro di lui. In questa scellerata narrazione, golpisti erano magistrati, poliziotti, giornalisti, la cui colpa, per il primo ministro, era di aver osato indagare su di lui. E quando non ha ottenuto ciò che voleva, l’immunità, ha deciso di far saltare il banco, portando un paese messo in ginocchio dal Covid e dalla fallimentare gestione dell’emergenza sanitaria da parte di Netanyahu, di nuovo a votare. Qui siamo all’apoteosi degli interessi privati nella vita pubblica. 

Tra i ritratti di David Ben Gurion e Yitzhak Rabin

Resta il fatto che Netanyahu, il più longevo primo ministro nella storia d’Israele, per la quarta volta in due anni fa delle elezioni un referendum sulla sua persona. Ma nel personalizzare lo scontro, il centrosinistra non fa il gioco di “Bibi”?
Quello che lei solleva è un problema vero, una questione cruciale. Che merita una risposta anche autocritica. Far finta che Netanyahu non sia parte del problema-Israele vorrebbe dire chiudere gli occhi davanti alla realtà. Chi governa ininterrottamente da oltre un decennio non detta la linea ma certo orienta il confronto, soprattutto se usa, come lui ha fatto, in modo spregiudicato il potere che ha in mano. Ma, e qui viene la riflessione autocritica, le forze che si oppongono a questa destra, radicalizzata, aggressiva, non possono limitarsi a dire: “Tutti, tranne Netanyahu”. Perché non funziona, perché non va alle radici più profondo dello spostamento a destra di una parte maggioritaria dell’opinione pubblica. La sinistra esiste se è portatrice di una visione alternativa di futuro, se invece gioca sul terreno imposto dall’avversario, semplicemente finisce di esistere.

Tra gli analisti politici israeliani, anche quelli più lontani dalla destra, una delle critiche ricorrenti rivolte alla sinistra è stata quella di essere identificata come il “campo della Pace”, quando ormai da tempo la pace non è più al centro della politica israeliana. Accetta questa lettura critica o la ritiene ingenerosa?
C’è molto di vero in questa lettura. Molto, ma non tutto. Molto, perché non vi è dubbio che in questi anni, e ancor più con la crisi pandemica, quella che è emersa in tutta la sua drammatica incidenza nella vita di milioni di israeliani, è una irrisolta “questione sociale”. La crisi pandemica ha messo in ginocchio centinaia di aziende, portato decine di migliaia di famiglie sotto la soglia di povertà. E’ il grande tema delle disuguaglianze sociali, all’ordine del giorno a livello globale, e non solo in Israele. A questo malessere siamo chiamati a dare risposte concrete, praticabili. Oggi, non in un futuro che tanti israeliani è fatto solo di ombre e di una incertezza sempre più opprimente, insopportabile. La risposta che la destra israeliana ha dato non si discosta da quella di quell’universo sovranista di cui Trump, non a caso un modello per Netanyahu, è stato il faro, per fortuna spento il 3 novembre. Molti si dimenticano che in Israele si è votato l’anno scorso anche per rinnovare le amministrazioni locali delle più importanti città. Ebbene, in diverse di esse, come Tel Aviv e Haifa, solo per citarne alcune, a vincere sono stati candidati progressisti, uomini e donne che quel malessere sociale lo hanno affrontato e, per quanto possibile, portato a soluzione. Hanno frequentato le periferie, hanno ricostruito un rapporto con le fasce più deboli della società, quelle che un tempo erano un pezzo forte dell’elettorato laburista. Questo rapporto è andato sempre più scemando, divenendo quasi inesistente. Ma io non mi rassegno a questo. Vede, quello che mi impensierisce di più non è l’essere visti come quelli del “campo per la pace” e basta, ma di essere percepiti come quelli delle “èlite benestanti”, dei salotti buoni di Tel Aviv. Da qui bisogna ripartire, da un recupero di credibilità tra i ceti socialmente più indifesi, promuovendo anche una nuova classe dirigente. Sì lo so, ogni segretario appena eletto ripete questo mantra. Stavolta, però, non sarà così. E non perché io sia più coerente e tosta di quelli che mi hanno preceduto, ma perché o si rinnova o si muore. Lo dico con uno slogan che deve tradursi in politica: “Tra l’Israele delle start up, che costruisce il futuro, e l’Israele degli ultraortodossi, proiettai nel passato, la nostra scelta è chiara e netta. Quella di Netanyahu, no”. E lo si vede anche ai tempi del coronavirus. 

Con Amir Peretz

Questo è il “molto”. E quel “tutto” che non viene preso in considerazione dai critici di cui sopra?
Il “campo della pace”. Un perimetro troppo limitato, si è detto e scritto. Limitato, forse sì, ma non cancellato. Perché non si possono “cancellare” i milioni di palestinesi che vivono a poche decine di chilometri dalle nostre città. Quel popolo esiste, con le sue aspirazioni, le sue sofferenze e il suo carico di rabbia che cova sotto la cenere di una situazione che appare immobile. Appare. Perché in realtà la “questione palestinese” esiste, e non si risolve negandola o pensando che gli accordi di pace raggiunti con alcuni paesi arabi – gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Sudan – possano risolvere di per sé il problema palestinese. Negli ultimi quattro anni, la destra ha potuto contare sul sostegno assoluto da parte dell’amministrazione Trump…

Con Biden sarà diverso? Un presidente con la “kefyah”?
Chi dice, spera o teme, una cosa del genere non sa nulla di Biden né della vice presidente Harris. Il loro sostegno a Israele è fuori discussione, così come il loro impegno nel combattere l’antisemitismo del quale i gruppi suprematisti si sono fatti portatori, non solo seminando odio nei social media, ma armando la mano a criminali che hanno attaccato sinagoghe e ucciso ebrei americani. Biden sarà un presidente amico d’Israele. Ma come devono essere gli amici veri, non dirà sì ad ogni atto compiuto dal governo israeliano. Cercherà di riaprire uno spazio negoziale con la dirigenza palestinese, e questo è un bene per Israele. Ma visto che ci siamo, mi lasci aggiungere una cosa sul voto americano. Quel voto è un segnale di speranza che dice che il cambiamento è possibile, che vi sono battaglie, come quella contro il Covid, che devo unire il mondo, e che le spese per la sanità, per l’istruzione, sono il grande investimento sul futuro…

Un Biden israeliano si fa fatica a scorgere. Lei come si sente se la definiscono la “Harris israeliana”?
(Merav Michaeli ride prima di rispondere). Diciamo che siamo quasi coetanee (Harris è nata il 20 ottobre 1964, Michaeli il 24 novembre 1966, ndr), per il resto lo prendo come un augurio.

“Così salverò il partito di Golda Meir e Yitzhak Rabin” ultima modifica: 2021-01-28T19:37:52+01:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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