A cinque anni esatti dal sequestro di Giulio Regeni al Cairo, con l’obiettivo di tenere viva la memoria del giovane ricercatore, fare pressione sul governo italiano e ricordare che ci sono ancora molti studenti, ricercatori e attivisti chiusi in carcere, si è svolta lunedì 25 gennaio una “maratona” di voci per Giulio Regeni e Patrick Zaki, promossa dall’università veneziana Ca’ Foscari. Alla giornata hanno partecipato studenti, ma anche docenti, ricercatori, dottorandi e personale amministrativo dell’ateneo. Proponiamo qui di seguito l’intervento di Tiziana Plebani.
Ho riflettuto a lungo su cosa proporre per la maratona organizzata da Ca’ Foscari. Poi ho capito che ciò che più mi stava a cuore era parlare dell’inviolabilità dei corpi. Non esiste un diritto universale dell’inviolabilità dei corpi. Ma più che un diritto che è sottoposto alla legge dei più forti, a culture che hanno riammesso la legalità della tortura dentro a discorsi ammantati di sicurezza e difesa dello Stato, se non della democrazia, solo una profonda consapevolezza e ontologia della nostra fragilità di viventi potrà far bandire la violenza sui corpi, liberi o incarcerati, fatti sparire, processati, uccisi.
E mi stava ancor più a cuore prendere in consegna il tuo, di corpo, Giulio. E ricomporti inviolato.
Si può scrivere su un corpo, tracciare segni, lettere come fosse una lavagna? Così è stato fatto, ha detto la madre di Giulio.
Ma il corpo di ciascuno è già un libro, anzi un diario quotidiano che reca le tracce dei giorni e delle notti e di tutto quel che in quelle notti e in quei giorni vi è trascorso. Il corpo è già scritto in ogni suo dove.
Il tuo bel corpo, di giovane uomo, Giulio, io l’ho qui ben presente ai miei occhi e non mi rassegno a ciò che ne è stato. Perché il tuo corpo va ricordato come eri e sottratto all’immagine che ci hanno consegnato i tuoi aguzzini.
Allora io queste lettere o questi segni tracciati col coltello o altro oggetto acuminato, io, che non posso nulla, però li cancello, forzo la realtà e li faccio sparire, e come le vecchie guaritrici dagli antichi saperi, vi passo un unguento che cicatrizza le incisioni e riporta lo stato della tua pelle a quello che testimoniava la tua età.
Io che non posso nulla, prendo in mano i tuoi cinque denti che ti hanno rotto a forza di percosse e te li riparo, sottraendo i segreti a un amico dentista, e te li ricolloco perché tu possa ancora sorridere come tanto amavi fare.
Io che non posso nulla, sano e ridistendo i lineamenti del tuo viso, la fronte alta, gli occhi dal taglio leggermente obliquo, la fossetta sotto il mento, pettino i baffetti tenuti corti a incorniciare il labbro superiore, perché venga immediato il riconoscerti e poterti salutare da parte degli amici e dei tuoi cari, cosicché non sia solo la punta del naso, così come è stato, a permettere a tua madre di risalire a te nello smarrimento delle tue fattezze tumefatte.
Io che non posso nulla, non posso lasciarti come ti hanno lasciato i tuoi aguzzini.
Così aggiusto le due scapole rotte, l’omero destro scomposto e spezzato, e ricompongo il tuo torace così possa espandersi sotto la forza del respiro, e come quei praticoni di montagna che sanno rimettere a posto le ossa, lavoro di buona lena a saldare ognuna delle quindici fratture che ti hanno procurato con il sadismo degli ignavi. Rimetto ogni dito, tornato integro, al suo posto nelle tue grandi, forti e gentili mani con le quali amavi accarezzare, e nei tuoi piedi che erano andati così lontani, fiduciosi nel passo che in quel paese al di là dell’acqua avresti trovato amici.
E infine, rubando il mestiere alla mia omeopata che sa quando è il caso di prendere in consegna il collo e ruotarlo con presa decisa e insieme amorosa, avvolgo il tuo di collo, che ti hanno torto sino a spezzarlo, troncando nervature e tendini, e riporto ogni fibra, ricostituita, là dove stava, e consento al respiro di riprendere il suo corso.
Questo è quel che vorrei fare, io che non posso nulla, per riconsegnarti a tua madre e al mondo perché almeno nel ricordo si possa ricomporre il tuo corpo indenne e inviolato.


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