La sinistra extraparlamentare negli anni 70. Il caso di AO

Esce un volume collettaneo che racconta la storia di Avanguardia Operaia, il movimento politico che irruppe sulla scena politica italiana tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. E non si può fare a meno di pensare a come sono cambiati il lavoro e la società. E alle sconfitte delle lotte di quegli anni.
LUIGI PANDOLFI
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“Questo libro è figlio di un particolare meticciato”, scrive Giovanna Moruzzi in apertura della sua introduzione a Volevamo cambiare il mondo. Storia di Avanguardia Operaia 1968-1977 (Mimesis), curato da Roberto Biorcio e Matteo Pucciarelli, prossimamente nelle librerie. Meticciato come metafora degli incontri e delle relazioni, delle contaminazioni, maturate nell’ambito di una comunità politica, in una di quelle organizzazioni della cosiddetta “nuova sinistra” che, tumultuosamente, irruppe sulla scena politica italiana tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. 

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Come altri gruppi della sinistra extraparlamentare di quegli anni anche Avanguardia Operaia è figlia della “generosità” delle lotte studentesche e operaie del biennio 1968-69 e della constatazione che la sinistra tradizionale e “istituzionale” non fosse più in grado di interpretare il vento di cambiamento che, dopo l’epopea resistenziale, era tornato a soffiare sulla società, mettendone in discussione costumi, modi di produrre e di consumare, disparità sociali e disciplinamento culturale.

Scevra da derive narcisistiche e ideologismi di maniera, nondimeno, la sua peculiarità consistette nel rigore che riuscì ad applicare allo studio della realtà – “risaltava una spiccata attitudine alla ricerca e all’approfondimento, fortemente centrata sugli studi marxiani”, rileva Vincenzo Vita, che di Ao è stato, a partire dal 1974, responsabile del settore culturale – e allo stesso modo di stare nelle lotte, privilegiando la concretezza del rapporto con la “classe” (molti quadri e militanti venivano dall’esperienza dei Comitati Unitari di Base) e la connessione con i bisogni indotti dalla società del boom economico.

Nella fabbrica e oltre la fabbrica, insomma, perché “la condizione di lavoratore”, come scrive Claudio Madricardo nel capitolo del libro a sua firma, “si riproponeva costantemente nella sua dimensione di padre e di cittadino, all’interno del proprio quartiere, in relazione con la mancanza di servizi sociali, o alle prese con i problemi del carovita”. Le lotte per il salario, il contratto e l’orario, insieme alle lotte per il diritto alla casa e “contro l’aumento dei prezzi dei prodotti di prima necessità che erodevano sensibilmente la capacità di spesa di salari generalmente bassi”.

Politica di classe a tutto campo. Fin dentro le Forze armate. Per promuovere, scrive Alberto Madricardo, “la diffusione delle pratiche democratiche e partecipative anche negli ambienti militari” e, soprattutto, per “neutralizzare il più possibile il potere di condizionamento antidemocratico che le forze armate avevano in più occasioni dimostrato di avere”.

E poi l’incontro con il femminismo, non scontato, anche molto problematico. “Di fronte alla novità, il primo passo della dirigenza di Ao fu quello di cercare lumi nel passato”, scrive Grazia Longoni. Cosa dicevano in proposito la Kollontaj e la Krupskaja? Niente che potesse servire a spiegare un fenomeno così irruente e tanto irriverente come quello delle femministe di quegli anni. Infatti, su queste tematiche non ci si capì mai abbastanza tra le donne e gli uomini, soprattutto tra le ragazze più giovani e i dirigenti maschi di un’organizzazione che, in fin dei conti, considerava la militanza “unisex, e totale”. Interessante, da questo punto di vista, la testimonianza di una protagonista, Simona Lunadei:

Sono entrata in Ao all’inizio del 1972. È stato pesante per me, perché a novembre di quell’anno è nato mio figlio, nel frattempo mi ero separata, insegnavo e dovevo andare alle riunioni. Allora il privato non era politico, il fatto che fossi una ragazza madre non era minimamente considerato in Ao.

Il contesto di quegli anni, comunque, non è segnato soltanto dall’esplosione delle lotte degli operai e degli studenti e dalla contestazione delle donne. C’è anche la reazione, palese e occulta, degli apparati dello stato al dilagare dei movimenti politici e sociali, e la violenza dei fascisti, che chiama violenza anche “dall’altra parte”. “La minaccia fascista e la creazione del Servizio d’ordine per contrastarla sono, a parte l’eccezione di Sesto San Giovanni, la regola”, scrive Paolo Miggiano. Ma non è tutto.

Il servizio d’ordine serve anche a difendersi e a controllare gli altri gruppi della sinistra rivoluzionaria, come il Movimento studentesco delle facoltà umanistiche a Milano o Potere Operaio a Roma. È il clima in cui si consuma a Milano, nel 1975, la tragedia del giovane esponente di destra Sergio Ramelli, alla quale faranno seguito “quattro omicidi contro militanti di sinistra, in una crisi dell’ordine pubblico che non si era vista dai tempi della rivolta filofascista di Reggio Calabria”. Una situazione fuori controllo, che di lì a poco porterà i vertici di Ao alla decisione di sciogliere il proprio servizio d’ordine.

Dopo il congresso del marzo 1977, Avanguardia Operaia si divise in due tronconi e cessò di esistere come organizzazione autonoma. La minoranza, guidata da Aurelio Campi, confluì nel Pdup di Lucio Magri, mentre la maggioranza contribuì alla fondazione di Democrazia proletaria. Sullo sfondo, il fantasma del rapporto con il Pci. 

Un bilancio di questa esperienza?

Le mobilitazioni e le iniziative promosse da Avanguardia Operaia e dalla nuova sinistra – è la conclusione di Roberto Biorcio – avevano favorito l’attivazione di nuove forme di partecipazione democratica in molti settori della società civile e nelle istituzioni. Magistrati, medici e insegnanti avevano promosso mobilitazioni e iniziative al di fuori delle tradizionali associazioni di categoria, mettendo in discussione i criteri, i valori e le pratiche professionali tradizionali.

Ben poco, per chi voleva “cambiare il mondo”. Pensando a come sono cambiati il lavoro e la società in questi anni, piuttosto, non si può fare a meno di parlare di sconfitta a proposito delle lotte di quegli anni. La lotta di classe “dopo la lotta di classe”, per dirla con Luciano Gallino, è stata quella dei ricchi contro i poveri e contro le conquiste del lavoro degli anni Sessanta e Settanta. Insomma, qualcuno la rivoluzione l’ha fatta, ma non sono stati gli operai e il nuovo proletariato della società di massa.


AO, un capitolo importante della storia della sinistra italiana di Pier Luigi Scolari

La sinistra extraparlamentare negli anni 70. Il caso di AO ultima modifica: 2021-02-01T19:32:55+01:00 da LUIGI PANDOLFI
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1 commento

Franco 1 Febbraio 2021 a 20:14

Quegli anni non sono riducibile alla dimensione dell sconfitta. Franco Calamida.

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