Non c’è nulla di banale nelle riflessioni del neo-ottantenne Giovanni Galeone, erede in piccolo di Liedholm e degno precursore di Zeman, autore di intuizioni destinate a restare nel tempo e cultore di un calcio offensivo che, se l’avesse potuto applicare a compagini più importanti di quelle con cui, comunque, ha colto risultati di tutto rispetto, con ogni probabilità lo avrebbe condotto nell’Empireo dei migliori allenatori di sempre. Di Galeone hanno sempre colpito la schiettezza, l’assenza di ipocrisia, il rifiuto della diplomazia pelosa, oggi tanto di moda nel calcio e non solo, e il suo essere stato un grande mentore di futuri assi della panca, su tutti Massimiliano Allegri, che dal maestro ha ripreso il pragmatismo e la capacità di gestire al meglio il gruppo a sua disposizione.

Ebbene, va detto che Galeone, e la cosa non sorprende affatto, ha avuto diversi eredi di altissimo livello, capaci in alcuni casi di superare il maestro e in altri di intraprendere un percorso che speriamo li conduca presto il più lontano possibile. Di Max Allegri abbiamo già detto ampiamente, ma secondo me galeoniani sono anche Pirlo, che finalmente sembra aver trovato il modulo adatto a far esprimere al meglio la sua Juventus, come confermano i pregevoli risultati che la Vecchia Signora sta inanellando da alcune settimane, il milanista Pioli, Vincenzo Italiano dello Spezia, Roberto De Zerbi del Sassuolo e, più che mai, Gian Piero Gasperini. E se per Pirlo è sostanzialmente facile impostare una squadra spettacolare, che vinca e diverta, coniugando gioco, spettacolo e risultati, questo non si può certo dire per Pioli, che ereditò un Milan allo sbando totale e in sedici mesi lo ha riportato in vetta alla classifica dopo un decennio di sostanziale nulla, per Italiano, la cui creatura è davvero sorprendente per come abbina qualità, quantità e grinta, per De Zerbi, che è vero che ha le spalle coperte dalla saggezza e dai soldi della famiglia Squinzi ma è altrettanto vero che ha realizzato un capolavoro in provincia di cui cominciano ad accorgersi ovunque, e per Gasperini, artefice dell’età dell’oro della Dea, mai così in alto nella sua ultracentenaria storia.

Essere galeoniani, insomma, significa rifiutare i dogmi del calcio di oggi, con quegli inutili eccessi di schemi, tattiche e pratiche da ragionieri che hanno finito col togliere al calcio la sua primordiale bellezza. Galeone ha sempre insegnato calcio perché la sua concezione del pallone era un misto di spensieratezza e professionalità, passione e impegno, attenzione ai dettagli e concessione al genio di esprimersi. Certo, Guardiola ha estremizzato il concetto ma aveva anche fra le mani il Barcellona più forte e vincente di tutti i tempi. Il nostro eroe di provincia, non a caso amico personale di un artista del volante come Senna, è riuscito, invece, a inventare uno stile e un modo di essere applicandolo alla polvere e traendone risultati di tutto rispetto.

Oggi in pochi lo ricordano, anche perché il tipo non è propriamente accomodante, ma siamo al cospetto di uno dei più grandi innovatori che siano mai apparsi sulla scena del calcio italiano, da tempo immemore ostaggio di conformismi e conservatorismi. Galeone ha detto basta quando ha preso definitivamente atto che i demoni della nouvelle vague, divistica e tecnocratica, lo avrebbero reso un posto infrequentabile per un pasoliniano non pentito come lui: i sognatori da oratorio, chi ama ancora le osterie, le battute, il vino e la semplicità; insomma, per chi coltiva un’idea di vita antitetica alle luci della ribalta e alla trasformazione di ogni singolo istante in uno show. Nell’acronismo cercato, voluto e difeso di Galeone è racchiusa la sua grandezza.

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