Riverberi del caso Barr sulla crisi di governo

La nuova amministrazione Biden vaglia e valuta le iniziative illegittime del dipartimento di giustizia negli anni di Trump, tra cui le due visite dell’attorney general a Roma con l’obiettivo di colpire il candidato democratico alla presidenza.
MARCO MICHIELI
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Nel tentativo di risolvere la crisi di governo, il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha ceduto la delega ai servizi segreti all’ambasciatore Piero Benassi, suo consigliere diplomatico dal 2018. La mossa era rivolta a soddisfare una richiesta a lungo rimasta inascoltata di Matteo Renzi, il leader di Italia Viva, e di ambienti Pd, contrari alla scelta di Conte di mantenere per sé la delega ai servizi segreti.

Benassi, il nuovo sottosegretario, è considerato un abile ed esperto diplomatico, con un curriculum di tutto rispetto. A Palazzo Chigi, come consigliere diplomatico di un presidente del consiglio a digiuno di politica estera, ha avuto un ruolo centrale nella gestione dei dossier internazionali più importanti. Tra l’altro, ha mediato tra il governo giallo-verde e la Germania, dove è stato ambasciatore, riuscendo in una mission quasi impossible, dovendo rappresentare un esecutivo con ostentati orientamenti sovranisti e anti-europeisti. Non altrettanto apprezzata, invece, un’altra operazione che ha visto protagonista il top diplomat e che l’ha reso improponibile, a giudizio di Matteo Renzi, per l’incarico di sottosegretario con delega ai servizi.

La ragione va cercata nell’affaire Barr. Il diplomatico sarebbe stato incaricato da Conte stesso di occuparsi degli incontri tra William Barr, l’allora ministro della giustizia di Trump, e i vertici dei servizi segreti italiani. Da tenere presente che gli incontri avvengono mentre si entra in una combattuta campagna presidenziale, nella quale le mosse e le iniziative di Trump sono prevalentemente dettate dal suo essere candidato presidenziale. Interagire con lui, per giunta amichevolmente, implica interagire amichevolmente con uno dei due candidati alla presidenza. Scegliere un candidato rispetto all’altro. Di qui la massima cautela nei suoi confronti da parte di tutte le cancellerie dei paesi alleati. Ma non da parte del governo italiano. Perfino Bibi Netanyahu, tirato dentro la disputa con Biden da Trump nel corso di una telefonata resa pubblica, si è sottratto all’abbraccio dell’amico e alleato strategico, che chiedeva all’attonito Bibi di unirsi a lui nel dire che Sleepy Joe non avrebbe mai fatto quel che ha fatto la sua amministrazione per Israele.

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Le due missioni, quelle di Barr a Roma, sono assolutamente irrituali. Un attorney general compie rare visite all’estero, esclusivamente per incontri riguardanti materie di sua pertinenza con propri omologhi ministri di giustizia di altri paesi o per conferenze internazionali. A rigore avrebbe dovuto dunque incontrare il guardasigilli Bonafede, se scopo delle sue visite romane fossero state motivate da un dossier di reciproco interesse per la giustizia americana e per quella italiana. Evidentemente lo scopo era un altro. E su questo indagherà con il massimo scrupolo l’attuale attorney general, nominato da Joe Biden, Merrick Garland, per la cui conferma c’è un inspiegabile ritardo al Senato, fatto questo molto irritante per la Casa Bianca. Si sa, nel frattempo, che la squadra di Biden, prendendo possesso dei vari dicasteri e apparati, ha trovato nel DoJ, il dipartimento di giustizia, una situazione molto grave, un ministero ridotto a funzioni di studio privato del presidente Trump per i suoi affari loschi, anche nella fase in cui era candidato alla rielezione.

Ed è come avvocato personale di Trump che Barr arriva a Roma. Con l’obiettivo di trovare interlocutori consenzienti a rovesciare la narrazione di un paio di operazioni sporche ai danni di due candidati democratici alla presidenza degli Stati Uniti, Hillary Clinton, e Joe Biden, operazioni ordite da Trump e accoliti. La vicenda dell’impiego di email personali da parte dell’allora segretario di stato e il caso dello scandalo ucraino con al centro il figlio di Joe, Hunter Biden, mentre la corsa presidenziale entrava nel vivo.

Dopo esserne stati severamente danneggiati – Hillary in modo definitivo, Joe in modo quasi fatale –, da vittime, i democratici si sono visti messi nel mirino dell’amministrazione Trump come gli artefici, loro, delle trame: ai loro danni stessi? No, ai danni di Trump! Si può ben immaginare come a Washington i nuovi inquilini dei palazzi del potere siano ansiosi di rimettere ordine al dipartimento di giustizia e nei servizi, anch’essi evidentemente inquinati e piegati a operazioni non al servizio della nazione, ma di giochi di killeraggio di avversari da parte di un presidente finito sotto impeachment, proprio in ragione dell’uso criminale di funzioni nell’esercizio di commander-in-chief. Di riflesso, il ritorno alla normalità a Washington avrà inevitabili riverberi nelle relazioni internazionali in generale e, in particolare, nella cooperazione bilaterale a livello di dicasteri e di apparati. Collaborazioni improprie, o illegittime, con la precedente amministrazione saranno diligentemente vagliate e valutate, con le dovute conseguenze.

Il tentativo di attribuire la responsabilità delle interferenze ai democratici americani ha un nome: Obamagate. Ed è, va sottolineato, una teoria cospirazionista, diffusa dai media della destra americana, che accusano il predecessore di Trump di aver gestito dietro le quinte le indagini sulla Russia e di aver organizzato una campagna del “deep state” per minare il candidato repubblicano. Secondo Trump e i suoi alleati, Obama, l’ex vicepresidente e oggi presidente Joe Biden e altri funzionari dell’amministrazione avrebbero richiesto impropriamente che il nome di Michael Flynn – l’ex consigliere per la sicurezza nazionale che nel 2017 si è dichiarato colpevole per aver mentito all’Fbi nell’indagine sull’interferenza russa nelle elezioni del 2016 – fosse reso pubblico nei rapporti dell’intelligence che monitoravano le comunicazioni tra Flynn e l’allora ambasciatore russo Sergey Kislyak. In queste telefonate il consigliere di Trump disse all’ambasciatore russo che una vittoria repubblicana avrebbe comportato un atteggiamento “diverso” sulla questione delle sanzioni alla Russia. Per i repubblicani infatti tra i nomi di coloro che avevano richiesto la declassificazone dei documenti vi erano dei funzionari dell’amministrazione Obama e tra questi l’allora vicepresidente Biden.

Nonostante numerose indagini, anche della stampa, tra cui quella del Washington Post, abbiano rivelato che il nome di Flynn non era mai stato “oscurato”, l’amministrazione Trump ha cercato per lungo tempo di dimostrare che i motivi originari dell’indagine del Russiagate erano stati creati ad hoc dai funzionari dell’intelligence, durante la fase finale dell’amministrazione Obama, per abbattere Trump. 


Tentativi disperati di rovesciare la narrazione

Una ricerca di prove, a oggi senza successo, che ha coinvolto l’Australia, il Regno Unito, l’Ucraina e, appunto, l’Italia. Ad Australia e Regno Unito è stata richiesta collaborazione per capire se diplomatici dei due paesi avessero lavorato con Obama per danneggiare Trump. Con l’Ucraina è lo stesso Donald Trump a intervenire. Il presidente repubblicano chiese infatti in una famosa telefonata al presidente ucraino Volodymyr Zelensky non solo di aprire un’inchiesta nei confronti del principale candidato dem alle primarie Joe Biden, ma di condurre delle indagini su CrowdStrike, una società americana specializzata nelle indagini su attacchi informatici. Secondo il presidente e i suoi alleati, CrowdStrike avrebbe nascosto un server in Ucraina che dimostrava che i russi non erano responsabili dell’hacking delle e-mail del Partito democratico nella primavera del 2016.

Nel tentativo di trovare prove che suffragassero la teoria cospirazionista, il governo americano ha richiesto anche all’Italia un incontro inusuale tra un membro politico del gabinetto di Trump e i vertici dei servizi segreti. Accompagnato dal procuratore John Durham, incaricato proprio dal dipartimento di giustizia americano di indagare sull’Obamagate, Barr compie due visite in Italia: il 15 agosto e il 27 settembre 2019.

La prima avviene una settimana dopo l’uscita dalla maggioranza di governo della Lega di Matteo Salvini. Sappiamo da Conte che il ministro della giustizia americano si è incontrato il 15 agosto con il generale Gennaro Vecchione, direttore generale del Dis, il dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Vecchione, che viene dalla Guardia di Finanza, è stato scelto da Conte per guidare la struttura di coordinamento dei servizi segreti interni e esterni (Aisi e Aise) [prima di Benassi era Vecchione il designato alla carica di sottosegretario ai servizi]. Conte dice di essere stato informato di quell’incontro che aveva lo scopo di decidere “l’estensione della collaborazione” italiana con gli Stati Uniti. Collaborazione su che cosa? L’obiettivo di Barr è ottenere prove del coinvolgimento del governo e dei servizi italiani, all’epoca del governo Renzi, negli incontri tra il professore maltese Joseph Mifsud, figura chiave del Russiagate, e George Papadopoulos, uno dei consiglieri di politica estera di Trump durante la campagna del 2016, incontri avvenuti alla Link Campus University di Roma. L’americano voleva infatti trovare sostegno alla teoria che Mifsud non fosse un professore con legami con la Russia, come afferma il rapporto Mueller e l’intelligence community statunitense, ma una risorsa dell’intelligence occidentale che lavorava come parte di un complotto dell’amministrazione Obama per spiare Trump.

Nel frattempo Conte si dimette il 20 agosto e cominciano le trattative per la formazione di una nuova maggioranza. Quando il presidente del Consiglio va a Biarritz, in Francia, per il vertice del G7 dal 24 al 26 agosto è un’anatra zoppa. Qui riceve inaspettatamente il sostegno pubblico di Trump che giudica “Giuseppi” un uomo veramente di talento “che si spera rimanga primo ministro”. Un appoggio pubblico a Biarritz che, secondo l’opposizione di centrodestra, sarebbe stata la ricompensa per la disponibilità italiana nel primo incontro con Barr (o forse il tentativo di ottenere più collaborazione in ulteriori futuri incontri, come quello di settembre).

Il 5 settembre 2019 nasce poi il secondo Governo Conte, con dentro il Pd e Renzi che, poco dopo, uscirà dal suo ex partito per fondare Italia Viva. È anche il giorno in cui Conte riceve una telefonata da Trump. Due settimane dopo Barr ritorna a Roma, sempre con le stesse intenzioni. E il governo conferma che Mifsud non è un agente segreto italiano.


Il “presunto” complotto di Renzi e Obama

Nel tentativo di sostenere il coinvolgimento di Obama in questa cospirazione ci finisce anche Matteo Renzi. È la ragione per la quale il Comitato parlamentare per la sicurezza (Copasir) ha deciso di convocarlo, con Giuseppe Conte e Rocco Casalino. Senza alcuna data precisa, per ora. Il presidente della commissione, il leghista Raffaele Volpi, vorrebbe infatti sentire l’ex e l’attuale presidente del Consiglio per comprendere il ruolo dell’Italia nelle vicende politiche americane. Renzi è accusato da una delle figure centrali del Russiagate di aver cooperato con Obama per “complottare” contro Trump.

Tutto ruota attorno alla figura del maltese Joseph Mifsud che il procuratore speciale Robert Mueller definisce nel suo rapporto “un professore con sede a Londra che aveva legami con la Russia”, in particolare con personalità che guidano la campagna russa sui social media e con personale russo legato al ministero della difesa. È Mifsud che mette in contatto i russi con George Papadopoulos, uno dei policy advisor di Trump per la politica estera durante le elezioni del 2016. 

Secondo il rapporto Mueller, Papadopoulos incontra per la prima volta il professore maltese a Roma, dove è inviato dalla campagna di Trump con l’obiettivo di incontrare il personale della Link University, una filiale dell’Università di Malta, guidata dall’ex ministro degli interni Vincenzo Scotti. Papadopoulos incontra ancora Mifsud poche settimane dopo in un ristorante a Londra. Il professore maltese è accompagnato da una donna russa, Olga Polonskaya, che Mifsud presenta come una sua ex studentessa, sostenendo che ha dei legami con il presidente russo Vladimir Putin. A cena i due avrebbero discusso delle relazioni tra Russia e Stati Uniti di fronte a una possibile elezione di Trump e del possibile “fango” da utilizzare contro Clinton.

Papadopoulos racconterà poi all’ambasciatore australiano nel Regno Unito che la campagna di Trump aveva ricevuto indicazioni dal governo russo che avrebbero potuto aiutare il candidato repubblicano col rilascio anonimo di informazioni dannose per la candidata democratica. Mentre Papadopoulos lavora con Mifsud e due cittadini russi per organizzare un incontro tra la campagna di Trump e il governo russo, un incontro che poi non ha avuto luogo, l’ambasciatore australiano avverte il proprio governo. Nel luglio dello stesso anno, in occasione dello scandalo WikiLeaks, con la pubblicazione di migliaia di email dei vertici dei Democrats, il governo australiano decide di segnalare la vicenda alle autorità americane. Qui comincia l’indagine dell’Fbi che porterà poi all’inchiesta di Mueller: è l’estate del 2016, a pochi mesi dalle elezioni presidenziali americane.

È proprio George Papadopoulos a tirare in ballo Renzi. Dopo aver scontato dodici giorni di una condanna di quattordici in una prigione federale, l’ex policy advisor è posto in libertà vigilata per dodici mesi e successivamente graziato da Trump. Ottenuta la libertà, Papadopoulos non ha mai smesso di sostenere di essere stato vittima di un’operazione organizzata dai servizi segreti italiani, inglesi e australiani, coordinati dall’amministrazione Obama. Una trappola, secondo quanto raccontato nella sua intervista a Start Magazine, volta a creare le condizioni per l’avvio dell’inchiesta del Russiagate. Secondo Papadopoulos, Mifsud sarebbe stato un agente non al servizio della Russia ma dei governi occidentali. Dichiarazioni mai sostenute da prove e smentite più volte. Anzi: James Comey, l’ex direttore dell’Fbi che aprì l’indagine su Clinton a poche settimane dalle elezioni, definì Mifsud un agente russo.

Più recentemente Papadopoulos aveva dichiarato al quotidiano La Verità che Renzi avesse agito su ordine dell’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama per colpire Trump in vista del voto del 2016. Renzi ha negato l’accusa in un post su Facebook. Secondo l’ex consigliere di Trump era “impossibile che un’operazione del genere avesse luogo all’insaputa del governo dell’epoca” e che “Renzi prendeva ordini da qualcuno ed era molto felice di obbedire”. Il leader di Italia Viva annuncia successivamente querela contro Papadopoulos.

È per queste ragioni che Barr – si fa sapere – viene a Roma: per trovare prove che Mifsud fosse un agente italiano o occidentale, manovrato a danno di Trump. Papadopoulos sarebbe solo caduto in una trappola.


L’università degli 007

Il problema delle relazioni tra l’Italia contiana e gli Stati Uniti non sono però solo le inusuali visite di Barr. Sullo sfondo resta sempre il problema dei legami tra la Link University di Roma e il Movimento cinque stelle. Perché, secondo Repubblica, negli incontri con gli italiani Barr e Durham “avrebbero sottolineato un altro punto delicato, quasi un monito: il timore che i rapporti tra la Link University e i leader del M5s, incluso il ministro degli esteri, possano influire sulla collaborazione italiana”.

È infatti in questa università che il Movimento cinque stelle, di cui Conte è espressione, ha pescato molta della sua classe dirigente, come ha raccontato Susanna Turco su L’Espresso.

Non solo Elisabetta Trenta, la ministra della difesa del primo governo Conte, già program manager di Gem spa, la società di gestione dell’ateneo romano. Anche Emanuela Del Re, attuale sottosegretaria agli esteri, sopravvissuta al Conte Uno, è stata docente presso la Link University. E quella che doveva essere la ministra degli interni della squadra presentata in anticipo da Luigi Di Maio, Paola Giannetakis, anch’essa docente alla Link e poi nominata da Di Maio nel cda di Leonardo S.p.A., l’azienda italiana attiva nei settori della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza.

L’uomo all’origine della Link University è Vincenzo Scotti, l’ex ministro dell’interno e degli esteri che nel 1999 fonda l’“università” che viene in seguito riconosciuta come filiazione italiana dell’Università di Malta, grazie a un decreto dell’allora ministro dell’università Ortensio Zecchino (governo D’Alema). Come Scotti, Zecchino è un democristiano campano – a suo tempo molto potente – che sarà poi membro dei cda dell’ateneo e della fondazione, nonché docente. Nel settembre 2011 la Link è riconosciuta come università non statale dell’ordinamento universitario italiano, grazie al ministro Maria Stella Gelmini, all’epoca del governo Berlusconi Quater, nel quale Scotti era sottosegretario agli affari esteri.

Scotti è annoverato tra i democristiani di maggior peso della Prima repubblica. “Tarzan” lo chiamano, per la capacità di agganciarsi a tutte le “liane” e passare da una corrente democristiana all’altra: da Ciriaco De Mita a Antonio Gava. Più che un capo corrente o uno dei ras del partito di primo piano ha sempre fatto parte dell’ala governativa della Dc, quella collegata e legata al complesso diplomatico-militare-spionistico per via delle relazioni privilegiate del nostro paese – e della sua forza principale, la Dc appunto – con gli apparati americani, ma in buoni rapporti anche con gli apparati prima sovietici e poi russi. Molto vicino a Giulio Andreotti e, successivamente, a Francesco Cossiga, i due esponenti democristiani capifila di quest’area “governativa”, Scotti riesce a “sopravvivere” al passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica. Di Cossiga – da ricordare che il picconatore fu al vertice di Gladio – Scotti diventa il più fidato sodale. Al sodalizio s’aggiungerà, tra gli altri, anche Clemente Mastella.

Tutti i partiti passano per la Link University ma con l’avvicinarsi del Movimento cinque stelle al potere la relazione col Movimento diventa più stretta. È l’ex presidente della Corte dei Conti Luigi Giampaolino a introdurre il futuro ministro degli esteri Luigi Di Maio a Enzo Scotti.

Ed è proprio alla Link University che insegna anche Mifsud.

Il misterioso professore maltese

Secondo BuzzFeed, Mifsud si occupava delle partnership internazionali della Link University, compresa quella con l’università statale di Mosca Lomonosov. Come abbiamo visto è proprio all’università romana che Papadopoulos incontra per la prima volta Mifsud. Lo ritrova poi a Londra, dove il professore maltese lavora per il London Centre of International Law Practice (LCILP). Come scrive Max de Haldevang su Quartz:

Il LCILP è uno studio legale molto particolare. Un ex dipendente, intervistato da Quartz, ha raccontato che “c’era molta segretezza su quello che lo studio fa”. Dopo diversi mesi lì, questa persona ci ha detto di “non sapere quasi che tipo di attività facessero”. La fonte ha descritto l’azienda, fondata nel 2014, come costantemente alla ricerca, e apparentemente senza successo, grandi contratti. Il ruolo di Mifsud in LCILP era quello di coinvolgere potenziali clienti, idealmente governi, ai quali l’azienda poteva fornire consigli in materia di diritto internazionale.

Quando scoppia il caso del Russiagate, Mifsud scompare. Viene creduto morto, poi viene pubblicata una sua foto con ben visibile la data di un quotidiano, poi ritrovano un suo documento d’identità in Portogallo. Il suo avvocato, lo svizzero Stephan Roh, dice che Mifsud non c’entra nulla con questa storia. Roh è uno dei primi a diffondere la teoria che si tratti di una cospirazione ordita da Obama per danneggiare Trump. 

Lo stesso Roh, un multimilionario tedesco con affari in Russia, è coinvolto nella Link University, dove è consigliere di amministrazione fino alla fine del 2017 e socio di minoranza della Global Education Management (Gem), la società che gestisce la Link. L’avvocato svizzero poi finanzia l’ormai defunta London Academy of Diplomacy, altra organizzazione londinese fondata da Mifsud. Come Mifsud, inoltre, anche Roh partecipa alle riunioni del Valdai Club, un think tank moscovita legato al governo russo.

Al di là delle questioni politiche legate alla contrapposizione tra Conte e Renzi, le vicende delle visite di Barr e della Link University svelano l’ambiguità di fondo su cui è nato il governo Conte due. Il governo “populista” infatti trovò in Trump una sorta di nume tutelare. Nei confronti del quale forse piegarsi alle richieste inusuali di collaborazione a danno di un ex presidente, di un ex vice e di un ex presidente del consiglio ne divenne il prezzo da pagare? 

Riverberi del caso Barr sulla crisi di governo ultima modifica: 2021-02-02T17:43:44+01:00 da MARCO MICHIELI
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