Nel pieno di una pandemia che ha colpito ogni angolo del globo e che ha messo in ginocchio l’economia mondiale, sul finire del 2020 le principali fonti del settore militare e della difesa italiane avevano anticipato un aumento del 6,9 per cento delle spese per il complesso industriale-militare italiano, che tradotto in numeri assoluti farebbe schizzare la spesa a 24,5 miliardi di euro. E questo nelle previsioni di bilancio del solo ministero della Difesa, in cui già si verificherebbe un aumento di 1,6 miliardi unicamente destinati agli investimenti. Ai fondi della Difesa occorre aggiungere quelli provenienti da altri ministeri e sottrarre quelli dedicati alle funzioni non militari.
Nello specifico, analizzando i fondi destinati agli investimenti militari, un’enorme fetta di denari sarà spesa per l’acquisto di nuove armi. Poco più di quattro miliardi previsti dal bilancio del ministero della Difesa, circa 2,8 miliardi allocati su quello del ministero per lo Sviluppo economico e 185 milioni per gli interessi sui mutui che lo Stato italiano ha acceso presso diversi istituti bancari e finanziari per poter pagare in anticipo le aziende produttrici.
Il totale ammonterebbe a 6,9 miliardi, probabilmente una sovrastima giacché nel lungo Documento programmatico pluriennale 2020-2022 del ministero della Difesa si legge 5,9 miliardi per le spese destinate nel 2021 per il solo acquisto di nuove armi.
In occasione dell’approvazione del Documento programmatico Pluriennale 2020-2022 nell’ottobre 2020, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini aveva dichiarato:
Le risorse destinate alla Difesa rappresentano una leva strategica per l’economia del Paese, oltre che un indispensabile investimento per garantire la nostra sicurezza. Soprattutto in questa fase, dobbiamo perciò sviluppare pienamente l’intero potenziale esprimibile dall’Industria della Difesa, che rappresenta un importante motore per la ripresa, conciliando al meglio le esigenze delle forze armate con le necessità dell’Industria e dando priorità a quelle con maggiori effetti positivi sull’economia nazionale. Per questo le risorse che il Documento Programmatico Pluriennale destina ai nuovi programmi di previsto avvio si concentrano, per circa l’80%, sul comparto industriale nazionale.
Negli ultimi quindici anni, le spese per il complesso industriale-militare italiano hanno sempre compiuto dei sostanziosi balzi in avanti, soprattutto se paragonati alle spese dedicate ad altri settori – per citarne uno, la sanità – dove gli investimenti tendono a essere sempre al ribasso. Le spese militari sono passate dall’1,26 per cento del PIL nel 2006 all’1,40 per cento quasi costante negli ultimi anni (circa venticinque miliardi all’anno), in cui si è raggiunto il picco massimo nel 2013 con l’1,46 per cento del PIL.
Questi costi comprendono le spese relative alle trentasei missioni all’estero in cui l’Italia partecipa, che richiedono una spesa di circa 1,3 miliardi all’anno, e le spese per il cosiddetto “procurement militare” ossia l’acquisto diretto di armamenti, che, come si è sottolineato, ammonterà a circa sei miliardi nel 2021. Come chiarisce un rapporto di disarmo.org, gli acquisti si indirizzeranno verso
i caccia F-35 (almeno 15 miliardi di solo acquisto), le fregate FREMM e tutte le unità previste dalla Legge Navale (6 miliardi di euro complessivi) tra cui la “portaerei” Trieste (che costerà oltre 1 miliardo), elicotteri, missili. Senza dimenticare i 7 miliardi di euro “sbloccati” dalla Difesa e dal MISE, in particolare per mezzi blindati e la prevista “Legge Terrestre” da 5 miliardi (con Leonardo principale beneficiario).
Ciò nonostante, occorre aggiungere un altro tassello del tutto rilevante. L’Italia è uno dei paesi che meglio risponde al proprio fabbisogno militare senza ricorrere alle importazioni, anzi il contrario: se le importazioni di armamenti dall’estero ammontano a meno di cinquecento milioni di euro annui, l’export del complesso industriale-militare italiano merita una riflessione più approfondita.
L’Italia è uno dei paesi che maggiormente esportano all’estero, soprattutto a seguito dell’entrata in vigore della legge italiana “sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” nel luglio 1990. Prima di quella data, l’esportazione di armamenti dall’Italia era regolata da disposizioni relative al “commercio” con l’estero, dopo che il boom delle esportazioni di armi italiane si era verificato negli anni Settanta e culminato negli anni Ottanta, dunque i criteri che la politica italiana applicava in materia di esportazioni d’armi erano unicamente commerciali, senza operare verifiche sul contesto in cui le armi sarebbero state poi inserite.

Dal 1990 le esportazioni di materiale di armamento devono essere autorizzate tramite una procedura tecnica precisa e sono stati introdotti dei divieti altrettanto precisi: non si possono esportare armi italiane a paesi in stato di conflitto armato, paesi sotto embargo totale o parziale delle forniture belliche da parte dell’ONU o dell’UE, paesi responsabili di accertate gravi violazioni alle Convenzioni sui diritti umani, paesi che, ricevendo aiuti dall’Italia, destinino al proprio bilancio militare risorse eccedenti le esigenze di difesa del paese, e paesi la cui politica contrasti con l’articolo 11 della Costituzione italiana:
L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Tuttavia, gli ultimi trent’anni di export militare italiano evidenziano una tendenza in perenne crescita, come rivelano recenti studi elaborati proprio in occasione del trentesimo anniversario della legge in materia.

Secondo gli ultimi dati disponibili (relativi all’anno 2019), il totale economico autorizzato dal governo italiano nel solo 2019 ammontava a 5,17 miliardi di euro, derivanti in buona misura dalla vendita di 32 elicotteri Leonardo (ex Finmeccanica), la principale azienda produttrice di armi in Italia, e della categoria “bombe, siluri, razzi, missili italiani ed accessori”.
Ma dove vanno le armi vendute dall’Italia? I principali acquirenti di armi italiane sono l’Egitto, con 871,7 milioni di euro di esportazioni, il Turkmenistan con 446,1 milioni, infine Arabia Saudita (105,4 milioni) ed Emirati Arabi (89,9 milioni) in undicesima e dodicesima posizione.

Ed è proprio nei confronti di Arabia Saudita ed Emirati Arabi che si sono rivolte le ultime decisioni in materia da parte del governo italiano. Quest’ultimo ha deciso di revocare l’autorizzazione alla vendita d’armi all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi, dopo che già sei autorizzazioni erano state sospese nel 2019. Tra queste, vi è la licenza MAE 45560 nei confronti dell’Arabia Saudita riguardante quasi ventimila bombe aeree MK per un valore di oltre 411 milioni di euro.
L’Arabia Saudita, che è stata il più grande importatore mondiale di armi nel periodo 2015-2019, partecipa in coalizione con gli Emirati Arabi alla guerra in Yemen – nel cui contesto è stata più volte accusata dalle Nazioni Unite di massacri nei confronti della popolazione civile – oltre che nella guerra in Libia. Ma di questa coalizione fa parte anche l’Egitto di Al-Sisi, verso cui al momento non vi è alcuna intenzione da parte del governo italiano di sospendere la fornitura d’armi.

Anzi, dopo che per molti anni l’Italia aveva sospeso la vendita di armamenti verso il Cairo riprendendo solo nel 2018, si sta trattando proprio in queste settimane quella che molti hanno definito “la commessa militare del secolo” dal valore complessivo di 10,7 miliardi di dollari, che comprende sei fregate Fremm [nell’immagine di copertina], venti pattugliatori d’altura di Fincantieri, ventiquattro caccia Eurofighter Typhoon e altri velivoli d’addestramento M-346 di Leonardo e un satellite da osservazione. Proprio mentre ricorre l’anniversario del rapimento di Giulio Regeni.
I genitori del ragazzo, all’inizio di gennaio, hanno avviato un’iniziativa giudiziaria, depositata presso la Procura di Roma, nei confronti dello Stato italiano con l’accusa di aver violato la legge 185 del 1990, dal momento che l’Italia ha venduto armi all’Egitto, un paese che viola i diritti umani.
Perché una scelta diametralmente opposta nei confronti dell’Egitto? Il Cairo è parte della stessa coalizione impegnata nel conflitto, motivo del quale ad altri due paesi è stata revocata la fornitura d’armi. Peraltro in un momento in cui i casi Regeni e Zaki sono ancora delle ferite aperte.
Erasmo Palazzotto, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni, ha sottolineato la contraddizione secondo cui
da una parte si chiede collaborazione per ottenere verità e giustizia per Giulio Regeni, si chiede che vengano dati gli indirizzi degli indagati, si protesta perché le autorità del Cairo oltraggiano il lavoro della nostra magistratura, e dall’altra si autorizza la vendita di armamenti. Anzi il governo ha fatto di più. Nel caso delle Fremm non ha semplicemente autorizzato un’azienda privata – tra l’altro Fincantieri è un’azienda a capitale pubblico, con una governance che viene indirizzata dall’esecutivo – ma ha anche coinvolto la nostra Marina militare […] In questo modo si tratta l’Egitto non solo come un partner strategico, ma come un paese amico.
Queste navi, non gliele avesse vendute l’Italia, l’Egitto le avrebbe comunque comprate da un altro paese, si è giustificato maldestramente il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano. Nella doverosa ricerca della verità per Giulio Regeni, una presa di posizione di questo tipo svuota di significato ogni richiesta di giustizia e verità, privando l’Italia di credibilità agli occhi del Cairo.

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